Ieri ho detto qualcosa sull’idea di liceo, in modo un po’ platonico. Oggi scendo dall’iperuranio e provo a spiegare, in maniera del tutto empirica, una delle ragioni per cui il liceo praticamente non esiste più. Sono in pensione del 2017 e può darsi che in questi quattro anni sia cambiato tutto: se così fosse, ma non credo, ciò che segue varrà solo come ricostruzione storica di come andavano le cose fino a quell’anno.
Prendiamo per esempio un insegnante di italiano. Nel triennio liceale ha a disposizione quattro ore settimanali per svolgere il suo insegnamento. L’anno scolastico si compone ufficialmente di 33 settimane: ne risulta dunque un monte-ore annuale di 132 ore. Teoricamente. In pratica, tenendo conto di: gite scolastiche, scioperi, manifestazioni, partecipazione della classe a iniziative e progetti di istituto o esterni, eccetera eccetera, direi che è realistico stimare una sua riduzione del 10 %, diciamo a 120 ore. È una valutazione ottimistica, ma non campata in aria. Poniamo che il nostro prof sia un “bravo insegnante“, diligente e ligio alle norme. Sarà perciò molto attento al problema della valutazione. A causa della deriva burocratica e “fiscale“ che ha travolto la scuola italiana, tuttavia, egli sarà anche presumibilmente preoccupato del «congruo numero di prove scritte e orali» che, in un’ottica prevalentemente difensiva (lo spauracchio del ricorso!), devono assolutamente supportare le valutazioni finali. I numerini che devono stare scritti nel suo registro (ora elettronico, accessibile e quotidianamente consultato dalle famiglie) saranno perciò un suo “pensiero dominante“. Quindi parliamo innanzitutto di compiti in classe e interrogazioni: tre compiti per quadrimestre, cioè sei all’anno, vogliono dire 18 ore, posto che in un triennio liceale tre ore per fare un tema di solito ci vogliono (in quinta talvolta di più, per addestrare i ragazzi alla prova d’esame, che prevede un tempo di sei ore!). 120 meno 18 fa 102. Poi ci sono le interrogazioni: ipotizzando una classe di 30 alunni, due interrogazioni a quadrimestre, di 15 minuti ciascuna (sono di nuovo molto, molto ottimista) fanno altre trenta ore. E siamo a 72 ore residue per la didattica.
Qualcuno obietterà che i voti si possono dare anche in tanti altri modi: è verissimo, un maestro può capire come va l’alunno da mille segnali (a volte, tanto per dire, una domanda intelligente vale più di molte risposte confezionate), ma nella scuola che ho visto io, specie negli ultimi anni, quell’arte era sempre più in disuso: «Ci vogliono le “pezze d’appoggio“. Il ragazzo sapeva di essere interrogato? Gli hai comunicato il voto? L’hai motivato? La famiglia è stata avvertita?». Questi i discorsi che si sentivano in sala insegnanti o nei consigli di classe. Qualcun altro mi dirà, scandalizzato, che non sono per niente aggiornato perché “le prove di verifica sono parte integrante della didattica“ e quindi anche quelle trenta ore che io tolgo dall’insegnamento vero e proprio sono invece didatticamente preziose per vari motivi dottamente spiegati dai migliori pedagogisti. Rispondo che però i ragazzi, i quali si intendono di scuola assai più dei pedagogisti, la dividono in due parti: “quando il prof spiega” e “quando il prof interroga”. (Alzi la mano chi non si è sentito fare, entrando in aula, la domanda: “Prof, oggi spiega o interroga?”). Quando il prof interroga, a parte Stakanov che dal primo banco non si perde una battuta, tutti gli altri – quelli normali – tirano il fiato e pensano ai casi loro (e mi verrebbe da dire che dopotutto fanno bene, come spiegherò tra un attimo).
Dunque sì, lo “zoccolo duro” di un corso annuale di letteratura italiana in un triennio liceale consiste in pratica in una settantina di ore. Cosa si può fare bene in 72 ore? Ecco la domanda che ognuno dovrebbe porsi. Poniamo che si voglia leggere una cantica della Commedia. Era una gloria del liceo italiano quella di proporre a tutti i suoi studenti la lettura, in tre anni, del più grande libro del mondo. Potremmo essere d’accordo, io credo, che un’impresa del genere – da sola – rappresenterebbe un investimento formativo straordinario per un’intera nazione. Ma quanto ci vuole per leggere “licealmente” un canto della Commedia? Almeno due ore? Se è così, vorrebbe dire che se ne vanno 66 delle 72 ore a disposizione. Non si può, perché la Commedia è sì il più grande ma non l’unico libro della letteratura italiana. Diciamo allora che di canti se ne leggono solo quindici: le ore che ci restano per fare altro si riducono a 42.
Immaginiamo di essere in quinta liceo. Cosa prevede il programma ufficiale? In linea di principio, l’insegnante avrebbe una libertà di azione piuttosto ampia nel progettare il suo corso, perché la libertà di insegnamento è (o meglio sarebbe) un principio costituzionalmente garantito (art. 33 Cost). Le scelte didattiche del singolo docente, se adeguatamente motivate nel piano di lavoro annuale – che è un documento ufficiale, inviato al capo di istituto il quale di regola non lo legge neanche e quindi col proprio silenzio-assenso lo approva – sarebbero ben difficilmente contestabili. Il vero problema è che gli insegnanti italiani, nella stragrande maggioranza dei casi, aborrono la libertà e la fuggono come la peste. Comunque sia, anche chi invece di quella libertà lodevolmente si avvale deve tenere conto di certi paletti. Ora, è previsto che in quinta liceo si svolga un programma di storia della letteratura italiana che va, cronologicamente, dalla prima metà dell’Ottocento ai giorni nostri. Mi pare che nella prassi ormai prevalente, Manzoni sia slittato in quarta e in quinta sia rimasto Leopardi. Ecco il nostro prof che, con le 42 ore che gli sono rimaste, deve affrontare un autore come Leopardi: quanto ci mette? Gli insegnanti, che continuano per lo più a ragionare in termini di settimane e di mesi (e non di ore, come dovrebbero fare) dicono cose come: “è un mese e mezzo che sono su Leopardi” e magari non si rendono conto che, per il calcolo sopra illustrato, vuol dire che hanno fatto 10/12 ore di insegnamento su quell’autore sommo. Di nuovo, chiediamoci: quanto ci vuole per leggere, che ne so, il Canto notturno o la canzone Alla sua donna? Potremmo andare avanti, e chiederci che faremo, con le trenta ore residue, di autori come Gadda o Montale … ma non occorre proseguire perché credo si sia già capito che siamo entrati in un vicolo cieco e che andremo a sbattere.
Un terzo obiettore a questo punto mi dirà: «ma non c’è mica solo il lavoro che si fa in classe! Il liceo non funziona mica così! Io in classe imposto, “detto la linea“, do degli esempi, insegno un metodo, attivo gli studenti, discuto con loro», eccetera eccetera (continui ciascuno a suo piacimento, secondo le diverse opzioni pedagogiche), «ma il grosso del lavoro i ragazzi lo fanno a casa!». Benissimo, è proprio qui che volevo arrivare. Ora i conti della serva li facciamo anche sui “compiti a casa”. Il prof di lettere di cui ho parlato finora non è una monade (anche se lui/lei spesso si concepisce come tale) e le sue quattro ore settimanali non spuntano come un fiorellino su un prato ozioso. Sono 4 su 30 ore settimanali di insegnamento che i suoi studenti ricevono (o subiscono), cinque ore al giorno per sei giorni. Tralasciamo ora il fatto che ciò costringe le giovani menti a improbabili salti da un’epistemologia a un’altra, da un metodo ad un altro, nell’arco di una mattinata; tralasciamo i danni cognitvi prodotti dalla parcellizzazione delle pratiche di insegnamento. Concentriamoci solo sul fatto che, se come si dice fieramente in tutte le occasioni pubbliche “tutte le materie hanno pari dignità“, alle quattro ore su trenta del tempo-scuola di cui fruisce il prof. di italiano dovrebbe corrispondere pressappoco la stessa quota di tempo-casa. A quanto può ammontare, nell’insieme, questo tempo di studio domestico? Se dicessimo che una giornata lavorativa di non più di otto ore è un “diritto umano“ per degli adolescenti, c’è qualcuno che oserebbe negarlo e sostenere che no, devono lavorare per dieci o dodici ore al giorno? Ma tre per sei fa diciotto (ed è già un conto che ipotizza un sabato o una domenica pomeriggio passati sui libri!). Ecco il mitico tempo di lavoro a casa su cui gli insegnanti fanno tanto conto: sono al massimo – ed è un massimo su cui molti avrebbero da ridire, non senza ragioni – di 18 ore settimanali. Prima abbiamo detto che il nostro prof. di italiano non ha diritto ad un trattamento di favore (né ce l’ha quello di matematica o di filosofia o di qualunque altra materia che il titolare presuma regina), ma vogliamo tener conto che esiste pure qualche materia (o qualche docente) di minore impegno. Quindi a lui daremo una buona misura, scossa e traboccante come dice il vangelo: un sesto, cioè tre ore settimanali. Per fare tutto quello che lui si aspetta, i ragazzi hanno tre ore alla settimana.
Dopo aver fatto questi modesti ma difficilmente controvertibili conti della serva, andatevi ora a leggere le relazioni finali e i cosiddetti programmi svolti degli insegnanti italiani. Quelli relativi alle classi quinte sono accessibili al pubblico e dovrebbero facilmente trovarsi sui siti degli istituti scolastici perché vengono allegati al documento di classe che si presenta per l’esame di stato. Vi leggerete la descrizione di meravigliose imprese didattiche che in gran parte esistono solo nella mente degli estensori. Programmi giganteschi che i docenti si illudono (o fingono) di aver svolto, ma che sono aritmeticamente impossibili.
Si vive bene in una scuola così? No, evidentemente. Tra i ragazzi, ci vivono bene quelli eccezionalmente dotati, che navigherebbero a gonfie vele in qualunque mare, e quelli “scafati“ e fancazzisti che sanno come si galleggia nella palude; gli altri annaspano e soffrono. Ma soprattutto si impara poco e male. Non è liceo, qualunque cosa ci sia scritto sulla targa all’ingresso.
Quando insegnavo, durante le lezioni mi capitava spesso di citare dei libri e di suggerirne la lettura ai miei studenti. Molte volte mi sono sentito rispondere: «Dice bene lei, e ci piacerebbe, ma noi non abbiamo tempo di leggere perché dobbiamo studiare». La tragedia era che dicevano la verità.