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Questo è sempre stato difficile da spiegare agli studenti: che proprio qui, nel cerchio dove sono puniti gli iracondi, Dante faccia la più bella apologia dell’ira che si possa immaginare. Quand’ero a scuola ci ho sempre provato, ma non so con quali risultati.
Comunque, il canto comincia in un clima di inquietudine, un po’ come all’inizio di una rischiosa operazione militare: strani segnali da una parte all’altra della palude, poi si sale su un barchino guidato da un minaccioso scafista e si attraversa lo Stige in un silenzio pieno di tensione (vv.1-30).
«Mentre noi corravam la morta gora, / dinanzi mi si fece un pien di fango, / e disse: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?» (vv.31-33). Un’esperienza che purtroppo ci è familiare: l’impatto, perfino doloroso, con la volgarità, la maleducazione, la rozzezza altrui. (Poi ci sarebbe anche la nostra, ma di quella di solito non ci accorgiamo). Uno, mai visto né conosciuto (oltretutto con la faccia coperta di fango, cioè uno che ti nega il suo volto come fanno quelle che indossano il niqab o il burka); uno che ti si para dinnanzi, ti chiede (dandoti del tu) chi sei e pretende di sapere i fatti tuoi! (È già fastidiosa l’ignoranza di quelli che quando rispondi al telefono non dicono chi sono e chiedono loro “chi parla?”).
Un certo tipo di mitezza malsana a cui siamo stati educati, una certa debolezza di carattere, un certo calcolo (forse anche esatto) delle convenienze sociali in questi casi porta molti di noi, forse la maggioranza di noi, a subire e lasciar correre.
Non Dante. «E io a lui: “S’i’ vegno, non rimango; / ma tu che se’, che sì se’ fatto brutto?» (vv.34-35). La tecnica è quella della retorsio, che consiste nel prendere la palla che l’altro ti ha appena tirato contro e rilanciargliela con forza raddoppiata. Il cafone ha avuto da dire sul fatto che Dante fosse venuto lì «anzi ora»? E Dante gli risponde che, se è venuto, lui però non rimane lì a mollo nel fango per l’eternità (come il suo interlocutore), e gli chiede a sua volta conto della sua identità, ricordandogli en passant, che è brutto come un pezzo di merda.
Siccome chi è arrogante e prepotente il più delle volte è anche intimamente un debole, di fronte alla virile reazione di Dante, l’altro si ridimensiona immediatamente e, da vigliacco qual è, fa subito la vittima: «Rispuose: “Vedi che son un che piango”» (v.37). (A Milano credo si dica: fa el piangina). Notate un particolare: il puzzone si nasconde iscrivendosi immediatamente ad una categoria (“sono un che piango”), ad un sindacato, ad un collettivo che gli garantisce protezione (e anonimato, perché il nome ancora non lo sputa). Qui siamo al cuore di uno dei più diffusi mali spirituali del nostro tempo: il vittimismo. È l’ideologia che gioca sulla confusione tra l’essere vittima, che è una condizione oggettivamente verificabile e misurabile, e l’essere innocente, che è tutto un altro paio di maniche. L’ideologia del vittimismo mira a consegnare una patente di innocenza, che poi si trasforma in una pretesa di intoccabilità, a coloro che riescono ad entrare in una delle categorie protette di “vittime riconosciute”. (In Italia, dove non ci facciamo mancare niente, abbiamo anche una categoria protetta supplementare, che è quella dei “parenti delle vittime”). Invece si può benissimo essere vittime di un’ingiustizia e non essere affatto innocenti per tutto il resto. Anzi, per dire le cose come stanno, la dottrina cattolica, nella sua rude franchezza, ci dice che di vittime innocenti, a rigore, ce n’è una sola: Gesù Cristo, in quanto esente dal peccato originale. Possiamo considerare vittime innocenti anche tutti i bambini, in quanto privi di peccati attuali. Poi basta. Le vittime di qualcosa, in quanto vittime, hanno sì diritto ad ogni giusta tutela e risarciemtno per quella determinata ingiustizia subita, ma per il resto, sono, come tutti gli altri, responsabili di quello che fanno o non fanno.
Il buonismo, l’altra malattia dello spirito che oggi ci intossica, di fronte a uno che ostenta le piaghe (“vedi che son un che piango”), impone di dargliela vinta, astenendosi da ogni ulteriore questione. “Poveretto, è uno che piange!”.
Non Dante. «E io a lui, “Con piangere e con lutto, / spirito maladetto, ti rimani; / ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto» (vv.37-39). La tecnica è sempre quella, tipica della tenzone: si prende la parola della dall’altro e gliela si rilancia con gli interessi. Ma c’è di più: Dante ha riconosciuto il suo avversario, sotto la maschera di fango che lo nasconde.
Questo, come vedremo, è molto importante, perché in questo episodio deve esserci di mezzo un qualche “fatto personale”. E, di nuovo, l’ideologia del buonismo e del “correttismo” imperante, vuole che non si faccia né si dica mai niente “per fatto prsonale”, perché bisogna essere obiettivi, neutrali e possibilmente asettici nei giudizi. Dante fa tutto il contrario.
La cosa è talmente gustosa che vogliamo farcela durare. Quindi per oggi basta così.