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~ Vanitas ludus omnis

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Archivi Mensili: settembre 2019

Apologia dell’ira, contro il buonismo che ci intossica. (#Dante, Inferno, canto VIII, primo morso)

28 sabato Set 2019

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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buonismo, Dante, ira, vittimismo

Questo è sempre stato difficile da spiegare agli studenti: che proprio qui, nel cerchio dove sono puniti gli iracondi, Dante faccia la più bella apologia dell’ira che si possa immaginare. Quand’ero a scuola ci ho sempre provato, ma non so con quali risultati.

Comunque, il canto comincia in un clima di inquietudine, un po’ come all’inizio di una rischiosa operazione militare: strani segnali da una parte all’altra della palude, poi si sale su un barchino guidato da un minaccioso scafista e si attraversa lo Stige in un silenzio pieno di tensione (vv.1-30).

«Mentre noi corravam la morta gora, / dinanzi mi si fece un pien di fango, / e disse: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?» (vv.31-33). Un’esperienza che purtroppo ci è familiare: l’impatto, perfino doloroso, con la volgarità, la maleducazione, la rozzezza altrui. (Poi ci sarebbe anche la nostra, ma di quella di solito non ci accorgiamo). Uno, mai visto né conosciuto (oltretutto con la faccia coperta di fango, cioè uno che ti nega il suo volto come fanno quelle che indossano il niqab o il burka); uno che ti si para dinnanzi, ti chiede (dandoti del tu) chi sei e pretende di sapere i fatti tuoi! (È già fastidiosa l’ignoranza di quelli che quando rispondi al telefono non dicono chi sono e chiedono loro “chi parla?”).

Un certo tipo di mitezza malsana a cui siamo stati educati, una certa debolezza di carattere, un certo calcolo (forse anche esatto) delle convenienze sociali in questi casi porta molti di noi, forse la maggioranza di noi, a subire e lasciar correre.

Non Dante. «E io a lui: “S’i’ vegno, non rimango; / ma tu che se’, che sì se’ fatto brutto?» (vv.34-35). La tecnica è quella della retorsio, che consiste nel prendere la palla che l’altro ti ha appena tirato contro e rilanciargliela con forza raddoppiata. Il cafone ha avuto da dire sul fatto che Dante fosse venuto lì «anzi ora»? E Dante gli risponde che, se è venuto, lui però non rimane lì a mollo nel fango per l’eternità (come il suo interlocutore), e gli chiede a sua volta conto della sua identità, ricordandogli en passant, che è brutto come un pezzo di merda.

Siccome chi è arrogante e prepotente il più delle volte è anche intimamente un debole, di fronte alla virile reazione di Dante, l’altro si ridimensiona immediatamente e, da vigliacco qual è, fa subito la vittima: «Rispuose: “Vedi che son un che piango”» (v.37). (A Milano credo si dica: fa el piangina). Notate un particolare: il puzzone si nasconde iscrivendosi immediatamente ad una categoria (“sono un che piango”), ad un sindacato, ad un collettivo che gli garantisce protezione (e anonimato, perché il nome ancora non lo sputa). Qui siamo al cuore di uno dei più diffusi mali spirituali del nostro tempo: il vittimismo. È l’ideologia che gioca sulla confusione tra l’essere vittima, che è una condizione oggettivamente verificabile e misurabile, e l’essere innocente, che è tutto un altro paio di maniche. L’ideologia del vittimismo mira a consegnare una patente di innocenza, che poi si trasforma in una pretesa di intoccabilità, a coloro che riescono ad entrare in una delle categorie protette di “vittime riconosciute”. (In Italia, dove non ci facciamo mancare niente, abbiamo anche una categoria protetta supplementare, che è quella dei “parenti delle vittime”). Invece si può benissimo essere vittime di un’ingiustizia e non essere affatto innocenti per tutto il resto. Anzi, per dire le cose come stanno, la dottrina cattolica, nella sua rude franchezza, ci dice che di vittime innocenti, a rigore, ce n’è una sola: Gesù Cristo, in quanto esente dal peccato originale. Possiamo considerare vittime innocenti anche tutti i bambini, in quanto privi di peccati attuali. Poi basta. Le vittime di qualcosa, in quanto vittime, hanno sì diritto ad ogni giusta tutela e risarciemtno per quella determinata ingiustizia subita, ma per il resto, sono, come tutti gli altri, responsabili di quello che fanno o non fanno.

Il buonismo, l’altra malattia dello spirito che oggi ci intossica, di fronte a uno che ostenta le piaghe (“vedi che son un che piango”), impone di dargliela vinta, astenendosi da ogni ulteriore questione. “Poveretto, è uno che piange!”.

Non Dante. «E io a lui, “Con piangere e con lutto, / spirito maladetto, ti rimani; / ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto» (vv.37-39). La tecnica è sempre quella, tipica della tenzone: si prende la parola della dall’altro e gliela si rilancia con gli interessi. Ma c’è di più: Dante ha riconosciuto il suo avversario, sotto la maschera di fango che lo nasconde.

Questo, come vedremo, è molto importante, perché in questo episodio deve esserci di mezzo un qualche “fatto personale”. E, di nuovo, l’ideologia del buonismo e del “correttismo” imperante, vuole che non si faccia né si dica mai niente “per fatto prsonale”, perché bisogna essere obiettivi, neutrali e possibilmente asettici nei giudizi. Dante fa tutto il contrario.

La cosa è talmente gustosa che vogliamo farcela durare. Quindi per oggi basta così.

Ciò che oggi vorrei da Marta Cartabia. Una nota sulla sentenza della #Cortecostituzionale in materia di aiuto al #suicidio.

26 giovedì Set 2019

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corte costituzionale, diritto, libertà, suicidio

Ieri la Corte costituzionale ha emesso una sentenza con la quale legittima, a determinate condizioni, l’aiuto al suicidio. (Non il “suicidio assistito” o “l’assistenza al suicidio”, come pur si sente dire, con una piccola truffa linguistica basata sull’ambiguità del verbo “assistere”. L’art. 580 del Codice penale, puniva chi «agevola in qualsiasi modo l’esecuzione» di un suicidio).

Lo ha fatto dopo una camera di consiglio durata due giorni: segno inequivocabile di un dibattito molto tormentato e indizio quasi certo di una decisione presa a maggioranza. Del resto, anche il testo dell’ordinanza di rinvio emessa undici mesi fa dalla stessa Corte, – nella quale peraltro, del tutto irritualmente, veniva già prefigurato il contenuto della sentenza di ieri – portava il segno di forti contrasti tra dottrine e orientamenti diversi in seno al collegio giudicante.

So che l’ordinamento italiano non prevede, a differenza di altri, la possibilità che i membri di un collegio giudicante rendano pubblica la loro dissenting opinion, cioè il proprio motivato dissenso dalla decizione presa dalla maggioranza del collegio. Quello che ignoro – e pregherei chi tra gli eventuali lettori fosse in grado di illuminarmi su questo di spiegarmelo – è se per i giudici della Corte costituzionale esista una norma di legge che esplicitamente lo vieta e come sia punita la violazione di tale divieto.

Lo chiedo perché, se non vi fosse una proibizione esplicita e diretta, io credo che almeno in un caso come questo, in cui è in gioco un bene di tale importanza, i giudici dissenzienti avrebbero il dovere morale di far conoscere al popolo italiano (nel cui nome giudicano!) il loro diverso giudizio. Anche a costo di una forzatura rispetto alla prassi consolidata e rispetto ad un “principio generale”. (Le forzature, quando si voglion fare, si fanno: del resto, anche anticipare la sentenza in un’ordinanza di rinvio non è una “sgrammaticatura”, e non da poco,  rispetto al principio che un giudice decide solo con la sentenza e nella sentenza, e non prima?)

Me lo aspetterei, in particolare, dal giudice Marta Cartabia, vicepresidente della Corte, cattolica, che presumo sia stata in prima fila nel sostenere ragioni diverse e contrarie a quelle che hanno portato alla sentenza di ieri.

Perché penso che sarebbe doveroso compiere un gesto di rottura di questo genere? Perché servirebbe a togliere di mezzo un inganno: quell’alone di “falsa sacralità” con cui ancora si avvolge l’operato della “Suprema Corte”, come se essa pronunciasse verdetti “divini” che scendono direttamente dall’Olimpo del Diritto e non fosse invece un organo di indirizzo politico. Sapere che non “La Corte” come entità metafisica, ma poniamo otto o nove giudici su quindici hanno fatto un certo ragionamento, mentre sei o sette ne hanno fatto un altro; poter mettere a confronto le diverse logiche culturali-politiche-giuridiche che hanno condotto a conclusioni opposte, eccetera eccetera, significherebbe restituire ai cittadini la possibilità di sapere come stanno le cose. Che è la base di ogni libertà.

Papa Francesco, “Greta” e l’eredità dei padri.

25 mercoledì Set 2019

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ecologia, papa Francesco, tradizione

Sfogliando le pagine online di qualche giornale, stamattina leggo questo virgolettato di papa Francesco, estratto dalla prefazione che ha scritto al libro  L’alfabeto verde di Papa Francesco. Salvare la Terra e vivere felici curato dalla giornalista Franca Giansoldati:

«in tutto il pianeta sono sempre più frequenti fenomeni climatici estremi e devastanti. Difficile non accorgersi che l’incremento delle temperature dei mari, lo scioglimento dei ghiacci, l’accumulo di vapore acqueo nell’atmosfera, gli uragani o le alluvioni causano a loro volta altre tragedie collaterali, spingendo intere popolazioni – milioni e milioni di persone – a cercare una via di fuga alternativa per vivere. Come si fa a negare che un elemento non sia collegato all’altro? A questo quadro si aggiunge una considerazione importante che riguarda il futuro delle nuove generazioni, le quali ormai hanno compreso che erediteranno un mondo piuttosto rovinato. E’ giusto – si domanda il Pontefice – che siano loro a dover pagare il costo dell’irresponsabilità della generazione di chi li ha preceduti? E’ giusto che debbano farsi carico dei danni provocati da un sistema nel quale la transizione energetica e la tutela della Casa Comune non sembrano essere prioritari, e cedono il passo agli interessi di una pratica economica e finanziaria piuttosto fiacca e ostile all’idea di riformare se stessa?».

Non mi permetto di giudicare queste affermazioni, che riguardano una materia di cui io so e capisco pochissimo, mentre vedo che il papa ci si muove con molta sicurezza. Ho però una forte perplessità sulla scelta di abbracciare, senza riserve, senza distinguo e senza critica, un concetto-chiave dell’ideologia di “Greta” – metto le virgolette per specificare che non mi riferisco alla persona dell’infelice ragazza svedese, ma all’operazione che si serve di lei come emblema – cioè l’accusa ai padri di aver “rubato il futuro ai figli”.

Quest’accusa poggia su un falso, anzi su una menzogna, ed è l’espressione di un pensiero che più anticristiano di così non potrebbe essere. La verità è che ciascun uomo, nessuno escluso, quando viene al mondo riceve tutto. Tutto ciò che abbiamo, senza eccezione alcuna, l’abbiamo ricevuto dai padri e tutto ciò che siamo è il prodotto del rapporto della nostra libertà con tale eredità. Essendo la libertà l’unica cosa assolutamente nostra, l’unica che ci appartiene in esclusiva.

La base di ogni pensiero che sia secondo verità (e quindi di ogni pensiero cristiano) è dunque in questo riconoscimento. Un pensiero sul mondo che non sia anzitutto grato perché esso ci è stato dato è per definizione un pensiero falsato alla radice. Dire (con tono di implicita lode) che «le nuove generazioni … ormai hanno compreso che erediteranno un mondo piuttosto rovinato», può sembrare l’affermazione di un’evidenza solo a chi legga molto superficialmente e ottusamente la realtà dei fatti. Senza l’eredità dei padri, le nuove generazioni non esisterebbero neanche, perché il “mondo intatto”, privo di quei millenni di inquinante attività dell’uomo che hanno portato a questo, “piuttosto rovinato”, che oggi i ragazzini sono educati a disprezzare, sarebbe assolutamente invivibile. Sarebbe il mondo “privo di malattie” perché privo di vita umana di cui si fantastica nella pagina finale de La coscienza di Zeno.

Ciò che abbiamo, ciò che siamo, l’abbiamo ricevuto. Si chiama tradizione. Odiarla e disprezzarla, nella chiesa come nel mondo, porta malissimo. Certo che il mondo è pieno di difetti e di cose che non vanno bene: lo è sempre stato, per motivi e aspetti diversi. Ma il primo passo per un atteggiamento sanamente critico nei riguardi dell’esistente – atteggiamento che è necessario avere, soprattutto da parte dei giovani – è la gratitudine perché esiste.

Senza questa fondamentale consapevolezza, il protagonismo giovanile di questi giorni, tanto pompato e celebrato da tutti i media di tutto il mondo, è destinato a rimanere un fenomeno completamente artificiale. Il ministro grillino della pubblica istruzione italiano, nella sua, come dire, “sprovvedutezza”, si è candidamente incaricato di metterlo nero su bianco con la circolare che istituzionalizza la “protesta” giovanile di dopodomani.  Che è come insegnare ai ragazzi la cosa più fasulla che ci sia, cioè “fare la rivoluzione col permesso della questura”, (come diceva, credo, Leo Longanesi).

P.S. Se la citazione che ho copiaincollato di qui https://www.ilfoglio.it/chiesa/2019/09/25/news/il-papa-gli-uragani-e-laccumulo-di-vapore-acqueo-276154/ è corretta, sarebbe stato meglio dire al papa – che non ne ha gran colpa, dato che in definitiva non è di madrelingua italiana – che la frase: «Come si fa a negare che un elemento non sia collegato all’altro?» significa il contrario di ciò che intende lui. La frase corretta dovrebbe essere: «Come si fa a negare che un elemento sia collegato all’altro?».

Reattivi, dunque cattivi (#Dante, Inferno, canto VII, ultima parte).

23 lunedì Set 2019

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi, Senza categoria

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anticipo, Dante, fortuna, ira, reattività

Il professor Virgilio, nella sua bella lezione sulla fortuna, ci ha offerto una visione del mondo luminosa e consolante: il caso, cioè la negazione del logos (della ragione, dell’ordine, dell’intelligenza), semplicemente non esiste. La fortuna – che comunque è «general ministra e duce» solo «degli splendor mondani» (vv.78 e 77), cioè di quei beni materiali a cui il mondo dà tanta importanza ma che contano ben poco nel fare giusta o sbagliata una vita – non è affatto cieca o demente: «provede, giudica, e persegue / il suo regno» (vv.86-87) secondo un disegno, che grazie a Dio, non è il nostro: il suo criterio ora ci sfugge, come un serpente che scivola via tra l’erba alta, ma questo non vuol dire niente. Virgilio ce la fa vedere, bella come un angelo (lo è, infatti), che fa il suo mestiere e se la gode: «con l’altre prime creature lieta / volve sua spera e beata si gode» (vv.95-96).

In questo panorama sereno e imperturbabile, gli unici che si agitano, soffrono e maledicono siamo noi uomini: «Quest’è colei ch’è tanto posta in croce / pur da color che le dovrien dar lode; / dandole biasmo a torto e mala voce» (vv.91-93). Degli sfigati, praticamente.

Attenzione: qui troviamo un esempio di quella tecnica, a cui Dante ricorre spessissimo nella Commedia,  che consiste nell’anticipare in modo implicito e indiretto, senza che il lettore sul momento se ne accorga, un tema o un problema che poco dopo affronterà in modo esplicito. Ci vorrebbe un nome per chiamare questo procedimento, diciamo questa tecnica dell’anticipo, che è molto importante perché fa parte del metodo educativo del poeta. (Riponiamo anche questo nel nostro zaino). È come un gancio, o un amo, che ci lancia, perché ne siamo presi,  in modo tale che successivamente, quando saremo posti di fronte alla questione che gli sta a cuore (e che lui aveva già in mente anche prima di toccarla), saremo già in qualche modo preparati, perché dentro di noi, a nostra insaputa, è stato messo un seme, uno spunto di riflessione o un elemento propedeutico alla comprensione di quello che verrà. In questo caso, per esempio, mentre ancora si parla di avari e di fortuna ci vien suggerito che forse, in un mondo ordinato e ragionevole (anche nei suoi aspetti apparentemente casuali), gli unici che si agitano scompostamente siamo noi. Perché siamo stupidamente reattivi.

Ecco, in questo modo è stato introdotto, in anticipo e prima ancora di entrare nel cerchio di pertinenza, il tema della reattività, che è alla base di quella che più comunemente (ma  in modo un po’ equivoco) si chiama ira. Che cos’è, infatti, l’ira? Solo alzare la voce, dire parolacce, dare in escandescenze, rompere i piatti e menare? Questo è solo un suo epifenomeno vistoso ma superficiale, oltretutto abbastanza facile da circoscrivere e addirittura da mettere in caricatura. Il buonismo dominante fa di questa caricatura dell’iroso il suo bersaglio polemico preferito. Ma per questa via non si va molto lontano nella comprensione della realtà.

Nell’ultima parte del canto VII, dal v.97 al v.130, entriamo nel quinto cerchio, quello in cui sono puniti gli iracondi. Virgilio e Dante costeggiamo per un tratto la palude di fango bollente dello Stige e, dalla riva, Dante vede «genti fangose in quel pantano» che si picchiano, si danno testate e si pigliano a morsi. Virgilio gli certifica che quelli sono appunto gli iracondi e fin qui nessuna sorpresa, perché corrispondono perfettamente allo stereotipo del collerico di cui sopra. Aggiunge però che sotto la superficie della palude ve ne sono altri, completamente immersi, che invece «gorgoglian ne la strozza» (v.125) un loro inno che dice: «Tristi fummo / ne l’aer dolce che dal sol s’allegra, / portando dentro accidïoso fummo; // or ci attristiam ne la belletta negra» (vv. 121-124).

C’è una lunga diatriba, tra gli studiosi, sull’identità di questa seconda categoria, che a giudizio di molti (tra cui Annamaria Chiavacci Leonardi) sono gli accidiosi. Eventualmente, se qualcuno desidera, ci si può tornare sopra. Per ora basti appuntarsi questa nozione essenziale: l’ira è una forma di rapporto reattivo (cioè di non rapporto, giacché questa espressione è un ossimoro) con la realtà. Si può essere reattivi anche in modo apparentemente del tutto difforme da quello dell’ira, ma alla fine il risultato è lo stesso (proprio come avevamo appreso che avari e prodighi, in realtà si assomigliano). Chiusura alla realtà. Il cui segno inconfondibile è la tristezza.

Una lezione fatta bene. (#Dante, Inferno, canto VII, penultima parte).

21 sabato Set 2019

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi, Senza categoria

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Dante, didattica, domande, eudcazione, ignoranza, libertà, politicamente corretto, scuola

Ci sono delle volte che nella Commedia è proprio come essere a scuola. Si fa lezione e basta. (Quindi, a voler essere più precisi, è proprio come essere in una scuola di una volta). La seconda parte del canto VII, quella che va dal v.61 al v.99 è appunto una lezione perfetta, che il maestro Virgilio impartisce al discepolo Dante (e a tutti noi lettori).

A quel tempo, pedagogia e didattica, come discipline specifiche con il conseguente apparato accademico, non esistevano ancora e forse anche per questo la lezione è fatta benissimo. Virgilio, come abbiamo già visto, stava spiegando a Dante chi sono i peccatori puniti in quel cerchio, e fin qui è più una cosa da guida che da professore. Ad un certo punto, però, aggiunge un commento e lo fa con un tono già da maestro che si rivolge all’allievo: «Or puoi, figliuol, veder la corta buffa / d’i ben che son commessi alla fortuna, / per che l’umana gente si rabbuffa; // ché tutto l’oro ch’è sotto la luna / e che già fu, di quest’anime stanche / non poterebbe farne posare una» (vv.61-66).

[Mentre ieri mi accingevo a scrivere questo post, mi è arrivata una mail di Fiorenza che mi fa notare quanto sia intensa la definizione di anime stanche e che sguardo profondamente umano ci sia dietro. Non me n’ero mai accorto e la ringrazio molto. Potete leggere la sua osservazione in calce al post precedente a questo.]

Cosa c’è di sapiente, dal punto di vista didattico, in questa mossa di Virgilio? Anzitutto essa parte dal concreto, aiuta l’alunno a vedere quello che c’è e a rendersi conto di che cosa si tratta. Ma fa di più: ispira anche, senza averne l’aria e senza farlo pesare,  una domanda all’allievo. Avendo insegnato per molti anni, mi sono convinto che uno dei principali problemi della scuola è che dà troppe risposte a domande che non ci sono. Ma se non ci sono le domande, non possono esserci neanche le risposte, quindi gran parte di quel che si dice dalla cattedra è flatus vocis che si disperde nello spazio. Virgilio butta là un riferimento alla fortuna, un tema che interessa tutti – almeno a giudicare dal fatto che se ne parla continuamente, la si mette dappertutto e la si chiama in causa per spiegare le più diverse situazioni della vita: “è tutta questione di fortuna!”, dogma universale con cui si può concludere qualunque discussione. È un’esca gettata al suo pesciolino, che subito abbocca e fa una domanda. (Che meraviglia, quando un alunno fa una domanda. Una vera domanda, intendo: non “questo lo chiede?” o “per quando è da fare?” o “domani interroga?”, che sono pressoché le uniche che si sentono, nelle nostre povere aule desertificate, dove le sole altre domande sono quelle, del tutto fasulle, che fanno gli insegnanti agli alunni per sentirsi rispondere esattamente ciò che sanno già e proprio come lo sanno già …)

Naturalmente è una domanda imperfetta, un po’ giusta nella parte che coglie il punto essenziale di ogni questione (ti esti: che cos’è?), e un po’ sbagliata in quanto presume già di sapere qualcosa: «“Maestro mio”, diss’io, “or mi dì anche: / questa fortuna di che tu mi tocche, / che è» – e fin qui è perfetto, da dargli un dieci – «che i ben del mondo ha si tra branche?» (vv. 67-69) – e qui casca l’asino perché ripete una banalità come se fosse verità acclarata.

Terzo motivo per cui la lezione del professor Virgilio è esemplare. A questo punto, di fronte al miracoloso fiorire di una domanda, che cosa succederebbe nella scuola di oggi? Tolta la feccia (che non so e non voglio sapere quanto sia in percentuale) degli abusivi in cattedra, che di fronte a una domanda si scocciano, si mettono paura, si sentono delegittimati e la prendono male, credo che la gran parte degli altri – quelli che si possono definire insegnanti – si entusiasmerebbe (mi ci metterei anch’io, se fossi ancora in servizio), colmerebbe di lodi lo studente ma nella maggior parte dei casi – se fosse infettato dal morbo comune – eviterebbe di rispondere, dicendo all’alunno che deve trovare lui la sua risposta, perché non c’è una risposta valida per tutti, ed altre baggianate del genere.

Il professor Virgilio, invece, tanto per cominciare assesta un metaforico schiaffone alla presunzione del suo alunno: «E quelli a me: “Oh creature sciocche, / quanta ignoranza è quella che v’offende!» (vv. 69-70). I modi son quelli che sono, e a noi che siamo tutti buonini e dolcini (cone l’omino di burro di Pinocchio, peraltro) fanno un po’ effetto, ma il principio è assolutamente giusto. Non basta che ci sia la domanda (ed è già gran cosa, oggigiorno): occorre che essa sia purificata dalla confessione della propria ignoranza. Ecco un altro compito che la scuola dovrebbe assolvere e invece trascura completamente, anzi programmaticamente nega: coltivare il senso della propria ignoranza. Guardate, per esempio, come è fatto nella gran parte dei casi un programma didattico (tecnicamente: una programmazione) di letteratura italiana in un corso liceale: c’è “un po’ di tutto”, antologizzato in mini porzioni e, farcito di «cenni» al tal autore e alla tal corrente, per dare l’illusione di “aver fatto tutto il programma”. Quando, in realtà, quello che in gergo scolastico si dice “aver fatto” un autore corrisponde ad aver letto una parte infinitesimale di ciò che ha scritto. Inevitabile che sia così, ma si aiuta lo studente ad avere il senso che, in effetti, lui quell’autore non lioconosce affatto, se non per un microassaggio che dovrebbe solo fargli venir voglia di saperne di più, se mai ne avesse l’opportunità?

Dunque: avere delle domande e sapere di essere ignoranti. Ora siamo pronti per la lezione: «Or vo’ che tu mia sentenza ne ‘mbocche» (v.72). Ecco un altro motivo per ammirare questo prof.  Altro che: “io ragazzi vi presento i diversi punti di vista ma rimango neutrale”, “io vi fornisco delle informazioni poi voi autonomamente vi fate una vostra idea” ed altre scempiaggini del genere. Il maestro è uno che sa le cose, ha un’idea di com’è e come va il mondo, ha una determinata conoscenza della verità. Se no, faccia un altro mestiere. (Quanto adeguata sia la sua conoscenza del vero, lo si vedrà, e il compito dell’alunno intelligente è appunto di metterlo alla prova).

La vera libertà, nella relazione educativa, non consiste nella simulazione di neutralità a cui oggi si dedicano tutti gli insegnanti politicamente corretti, ma parte dalla franca, onesta, esplicita dichiarazione della posizione del maestro, prosegue con la sua corretta esposizione all’alunno e si completa fornendogli gli strumenti per rapportarsi ad essa criticamente, mettendola in questione e, se del caso, alla fine rifiutandola. Gli abusivi in cattedra di cui sopra, ma anche gli insegnanti politicamente corretti appena citati, sono di regola anche estremamente intolleranti nei confronti di chi dissente. Prendete un insegnante politicamente corretto, mettetelo di fronte ad uno studente “diversamente pensante” e vedete che cosa gli fa.

L’ultima ragione per cui la lezione di Virgilio è un modello per tutti noi è la sua brevità: appena 24 versi per dirci tutto quel che c’è da sapere sulla fortuna. Nel mio minimo, cerco di imitarlo almeno per questo aspetto e la chiudo qui. Godetevi la lezione.

 

Parliamo di soldi. (#Dante, Inferno, canto VII, un appunto sbrigativo)

18 mercoledì Set 2019

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi, Senza categoria

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avarizia, Chiesa, economia, peccato

Coi soldi non si scherza: bisogna essere pratici, concreti e fare poche chiacchiere. In soli quarantacinque versi (dal 16 al 60) Dante sbriga l’intera faccenda, dicendo tutto quello che c’è da dire su avari e prodighi. Cercheremo di imitarlo, con appunti telegrafici. Chi vuole approfondire, lo faccia o lo chieda.

  1. «Come fa l’onda là sovra Cariddi, / che si frange con quella in cui s’intoppa, / così convien che qui la gente riddi» (vv.22-24). Per la prima volta ci troviamo di fronte due categorie apparentemente opposte di peccatori, gli avari e i prodighi. Dante ci svela che, in realtà, sono uguali. «Mal dare e mal tener lo mondo pulcro / ha tolto loro» (vv. 58-59). Qui c’è un’intuizione molto profonda: il peccato non è (sol)tanto una questione di incoerenza, quanto (e soprattutto) una questione di incompetenza. Non saper trattare le cose come devono essere trattate, non saper vivere. Incompetenza, cioè mancanza di un’ars, un sapere che però si è colpevolmente rifiutato di apprendere. Avari e prodighi sono accomunati dalla incapacità (voluta) di rapportarsi in modo corretto alla ricchezza. San Giovanni Crisostomo scrive, in un passo delle sue omelie su Matteo, che come ogni artigiano ha una sua techne di cui deve essere padrone (il tessitore sa come si fabbricano i tessuti, il carpentiere sa come si costruisce una nave e il capomastro come si edifica una casa) così il ricco, che non sa fare nessuna di quelle cose, ha però una sua arte, un suo mestiere, che è appunto quello di saper usare bene le ricchezze, accumulando tesori in cielo (cioè facendo l’investimento migliore).
  2. «Qui vid’i’ gente più ch’altrove troppa» (v.25). Dante era rimasto impressionato da quanta gente c’è all’inferno già altre tre volte (III, 55-57; IV, 29; VI, 5-6). Qui però ci dice che in questo cerchio ce n’è molta di più che in tutti gli altri che ha visto. Come dire: i soldi sono un problema per tutti. La competenza di cui sopra è difficile da acquisire. Non facciamo gli ingenui, per favore. Ripeto: coi soldi non si scherza. (Il pauperismo, ad esempio, è spesso un modo di scherzare, pericolosamente, con una cosa seria).
  3. Le due schiere dei dannati, che procedono in direzione opposta, quando si scontrano si gridano a vicenda: «Perché tieni?» e «Perché burli?». Domande senza risposta, anzi domande che non attendono neppure una risposta. La relazione domanda-risposta sarebbe, appunto, una relazione, cioè una corrispondenza di ragione: impossibile all’inferno tra i dannati. Una domanda che non attende, anzi che nega la possibilità di risposta, è l’espressione massima dell’insensatezza.
  4. Qui non ci sono personaggi. Nemmeno uno, e non certo per caso. Quando Dante, che ormai si è abituato agli incontri, chiede a Virgilio di indicargli qualcuno di sua conoscenza (vv. 49-51) riceve questa risposta: «Vano pensiero aduni: / la sconoscente vita che i fé sozzi, / ad ogne conoscenza or li fa bruni» (vv. 52-54). Per la bellissima espressione «sconoscente vita», vedi sopra l’accenno al peccato come incompetenza. Poi c’è un altro nesso audace e geniale: “sconoscere” rende sconosciuti, o meglio inconoscibili. Come se l’ottusità, la stoltezza del peccatore ottundesse anche i tratti del suo volto. Obiezione: ma questo è vero per ogni peccato! Perché Dante lo tira fuori solo ora? Azzardo una risposta, che si attaglia però più agli avari che ai prodighi. La riduzione della vita a calcolo finaziario implica l’annullamento della sua concretezza e la riduzione ad astrazione numerica Per lo speculatore, non ci sono in effetti beni materiali con la loro specifica qualità, imprese, persone che ci lavorano, bisogni da soddisfare eccetera eccetera (cioè l’economia propriamente intesa) ma ci sono solo profitti e perdite, perfettamente fungibili con altri numeri di altri bilanci. La fungibilità, caratteristica del denaro, si tramuta qui, nel cerchio degli avari e dei prodighi, in condanna all’anonimato: uno vale l’altro, proprio come fiorino ne vale un altro.
  5. È pieno di preti, vescovi, cardinali e papi. Che si trovano, come Dante precisa, tra gli avari (cfr v.39): «Questi fuor cherci, che non han coperchio / piloso al capo, e papi e cardinali, / in cui usa varizia il suo soperchio» (vv. 46-48). Avendo fatto la scelta di non presentare individui (vedi punto precedente), si comprende quella di indicare una categoria. Ma perché proprio gli ecclesiastici? L’asservimento ai soldi (questo è l’avarizia) non dovrebbe essere di più una “malattia professionale” di uomini d’affari, mercanti e banchieri? Farne l’emblema del clero non è un po’ come trovare la silicosi tra marinai e pastori invece che tra i minatori? Sì, in un certo senso è così. Una stranezza. Anzi una mostruosità. Appunto. Sull’attuale validità di questa denuncia dantesca non dico nulla.

Pape Satàn, pape Satàn aleppe! (Una nota sul Dante percepito e sull’indicibilità del male) [#Dante, Inferno, canto VII, anteprima]

16 lunedì Set 2019

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi, Senza categoria

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Dante, Diavolo, linguaggio, Logos, Male, parola

C’è poco da fare: come esiste la temperatura percepita, che si fa un baffo di quella registrata dal termometro, così c’è anche un Dante percepito  che aduggia spesso quello reale, cioè quello del testo. (Per non parlare del Vangelo percepito, che sarebbe un lungo discorso).

Secoli di scherzi e battute da ginnasiali fanno sì che sia quasi impossibile per noi pronunciare il primo verso del canto VII senza avere, almeno un po’, l’impressione di stare dalle parti di un nonsense alla Palazzeschi o di una supercazzola del conte Mascetti (cose entrambe deliziose, beninteso, e da me molto amate). Non che Dante disdegni la comicità, anche triviale. A dirla come sta, Dante non disdegna niente. La sua Commedia è l’opera più universale (dunque più cattolica) che ci sia, perché è disponibile, anzi si propone di contenere di tutto, dall’alto al basso, senza alcuna esclusione previa. La consapevolezza di questo carattere enciclopedico della Commedia è un’altra delle acquisizioni che dobbiamo riporre nel nostro zaino di pellegrini.

Se vuole, e quando vuole, Dante scoreggia assai meglio di Alvaro Vitali, e lo sentiremo a Malebolge. Il punto è che non credo che qui voglia. Pluto, «il gran nemico» (VI, v.115), avrà anche la vocina «chioccia» (v.2), cioè stridula, ma non fa ridere per niente. Virgilio, al solo sentirlo, deve subito tamponare la paura di Dante («Non ti noccia / la tua paura: ché, poder ch’elli abbia, / non ci torrà lo scender questa roccia»: vv.4-6) e poi lo apostrofa «maladetto lupo!» (v.8), evocando, per farlo stare al suo posto, nientemeno che Michele, l’arcangelo che combatte con la spada in pugno. Pluto, infatti, è il demonio della ricchezza, e coi soldi non si scherza.

Gli unici che hanno sempre preso  sul serio questo strambo verso dantesco sono stati gli eruditi, che nel corso del secolo hanno, come si usa dire, versato fiumi d’inchiostro per proporne le più diverse ipotesi di decifrazione. Il senso, in realtà, non è poi così arduo da intendere, come spiega bene Annamaria Chiavacci Leonardi nella sua nota. Esprime meraviglia e contrarietà (per la presenza di un vivente in quel luogo) e invoca Satana.

Sia pure; tuttavia io resto affezionato (anche quest’ultima lettura non me ne dissuade), a un’interpretazione che pure è stata data e che mette in risalto la deformazione linguistica, il carattere abnorme di questa sorta di grammelot infernale di Pluto che, per contrasto ci può forse suggerire forse un’idea importante a proposito del linguaggio umano e della indicibilità del male.

Il male, il nudo e puro male, non può essere detto. Per dirlo, infatti, occorre impiegare la parola, e la parola (il logos), anche la più abietta, è comunque intelligenza, luce, bellezza, ordine … porta la traccia della sua divinità. Dire il male, dunque, getta comunque, inevitabilmente, almeno un po’ di luce sulla tenebra. (Per questo nell’opera sacramentale della riconciliazione occorre dire i peccati, metterli a verbale: condizione non sufficiente ma necessaria perché essi siano lavati dal perdono). Artisticamente, questo pone un problema insolubile: se racconti Auschwitz, non è più fino in fondo Auschwitz, appunto perché lo racconti.

Dante talvolta fa parlare i suoi demoni, talvolta no (Minosse, che comunica a giri di coda; Cerbero che latra …). Qui e nel canto XXXI li fa “parlare” ma con una lingua che non è una lingua, una lingua incomprensibile tanto è stravolta, deformata, allotria. Una sorta di antiligua. Poi, quando saremo di fronte a Satana in persona, ci sarà il colpo di genio: Satana è muto, assolutamente privo di logos.

La Sua figura. (Una preghiera di #Giuni Russo)

14 sabato Set 2019

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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(Nella seconda esecuzione c’è anche l’emozione, sincera, di Anna Proclemer)

Quelli che «a ben far puoser li ‘ngegni» (#Dante, Inferno, canto VI, ultimo tratto).

13 venerdì Set 2019

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi, Senza categoria

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Dante, giudizio, politica

Quando uno è appassionato di qualcosa non smetterebbe mai di parlarne. Così Dante non si accontenta delle risposte stringate ma esaurienti di Ciacco e vuole prolungare la conversazione: «E io a lui: “Ancor vo’ che mi ‘nsegni / e che di più parlar mi facci dono. // Farinata e ‘l Tegghiaio, che fuor sì degni, / Iacopo Rusticucci, Arrigo e ‘l Mosca / e li altri ch’a ben far puoser li ‘ngegni, // dimmi ove sono e fa ch’io li conosca: / che gran disio mi stringe di savere / se ‘l ciel li addolcia o lo ‘nferno li attosca”.» (vv. 77-84).

Di nuovo la poesia dei nomi: qui sono cinque, uno dei quali, Farinata, lo conoscono tutti; ma non per quello che storicamente fece, bensì per quello che lo stesso Dante gli fa dire nel canto X dell’Inferno. Altri tre li conoscono in pochi, ma sempre come personaggi minori della Commedia più che per la loro esistenza storica, che interessa solo gli specialisti di storia fiorentina del XIII secolo (quanti saranno al mondo?). Il quinto, Arrigo, non lo conosce nessuno perché Dante non lo nomina più e gli studiosi sono divisi sulla sua identificazione.

Eppure, al tempo e agli occhi di Dante erano dei gran personaggi, tanto che lui non sta nella pelle dal desiderio di avere loro notizie. Solo che se si fa, giustamente, la scelta di un criterio di giudizio diverso da quello mondano, poi ci sono delle conseguenze. Aver tenuto fermo il principio che l’ordine politico non è autonomo, ma soggiace come ogni altra cosa al giudizio morale – come abbiamo detto nel post di due giorni fa – comporta che anche i personaggi politici vengano giudicati da un punto di vista morale. Con delle amare sorprese per i loro ammiratori: «Ei son tra l’anime più nere; / diverse colpe giù li grava al fondo» (vv. 85-86). Se si assume lo sguardo di Dante (autore), non si può più essere ingenui come Machiavelli, e infatuarsi per banditi e killer politici, eroi di cartone e miti della propaganda come hanno fatto, dopo il segretario fiorentino, legioni di intellettuali moderni pronti a esaltare le figure e le cause più improbabili.

Quelli di cui Dante (personaggio) ha gran desio sono tutti dannati, tutti all’inferno: quegli uomini grandi, dai nomi illustri, che lui aveva imparato a riverire. “Grandi italiani”, “riserve della repubblica”, “venerati maestri” di cui è obbligatorio parlare bene, e che oggi sarebbero sempre sul punto di essere fatti senatori a vita o di ricevere un Nobel per la pace. Sostituite a piacere quei polverosi nomi trecenteschi con altri più eloquenti per noi (sempre che riusciate a comporre un endecasillabo tonico e vibrante come «Iacopo Rusticucci, Arrigo e ‘l Mosca»!) e avrete un’idea della botta nei denti che il pellegrino riceve da Ciacco.

Il quale, abbastanza scocciato dalle sue domande, si sbriga a chiedergli ciò che invece sta a cuore a lui – l’unico motivo per cui si è alzato a parlargli, giacché nell’inferno non si fa mai nulla per gli altri ma si pensa solo a se stessi: essere ricordato («Ma quando tu sarai nel dolce mondo, / priegoti ch’a la mente altrui mi rechi», vv. 88-89). Dopo di che, interrompe bruscamente il dialogo: «più non ti dico e più non ti rispondo» (v. 90), lasciando Dante a conversare con Virgilio di resurrezione della carne e di «più assai ch’i’ non ridico» (v.113).

Nota bene. Qui si fa una lettura da poveretti, non particolarmente raffinata, ma la mens di Dante è così ricca, profonda e complessa che qualche volta dobbiamo distinguere un po’ sottilmente anche noi. Si è appena detto che la grandezza mondana – in questo caso la grandezza politica – viene sottoposta a giudizio (esattamente allo stesso modo in cui nel canto V era stata giudicata un’altra “degnità”, l’amore cortese) e drasticamente ridimensionata e ricollocata. Ma ciò non significa che essa sia negata, disprezzata e dichiarata priva di valore. Nessun contemptus mundi, in questo senso, nell’opera dantesca. Scoprire che Farinata, il Tegghiaio e gli altri che a ben far poser gli ingegni sono in realtà dei peccatori dannati per sempre non toglie che abbiano anche “ben fatto”. Questo è un altro filo di Arianna che dovremo tenere ben stretto in mano, nel nostro percorso dantesco.

 

Papa Francesco dice che non ha paura degli scismi. Invece dovrebbe.

11 mercoledì Set 2019

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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papa, scisma, unità

Perché è a lui, più che ad ogni altro, che Dio chiederà conto dell’unità della chiesa. Il compito di Pietro non è forse innanzitutto quello di custodire l’integrità della fede e radunare intorno ad essa tutti i credenti? E tenere il più possibile unita la chiesa non è parte essenziale di questo dovere che incombe su di lui? Ogni parzialità, ogni parola “divisiva”, ogni accentuazione unilaterale di taluni aspetti del cristianesimo a scapito di altri, – anche espresse in modi che sarebbero accettabili in altri soggetti non investiti della potestà universale del papa –  possono diventare, venendo da un papa, un fattore che nuoce all’unità della chiesa. Al papa è chiesto persino di passare sopra ad ogni sua pur legittima preferenza soggettiva o tratto caratteriale, pur di giovare all’unità.

Anche senza arrivare a scismi formali – un’eventualità funesta che purtroppo non può dirsi del tutto irrealistica – che la chiesa cattolica sia già oggi profondamente divisa è sotto gli occhi di tutti. Come fa il papa a dire che non ha paura degli scismi?

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