Premessa: il titolo è esagerato, per fare effetto. Il matrimonio non è propriamente scomparso, ma si sta rapidissimamente riducendo ad un fenomeno socialmente marginale. Il che non toglie, d’altro canto, che esso possa e debba diventare, nella logica di una “minoranza creativa”, il punto forte di una battaglia culturale che deve essere combattuta. Penso che al giorno d’oggi chi ancora lo pratica dovrebbe farlo con la mentalità di un guerrigliero (o di un partigiano, se preferite), cioè con la consapevolezza di compiere un atto eversivo rispetto al (dis)ordine esistente. Al di là della metafora (che è anche autoironica), intendo dire che chi si sposa, di questi tempi, dovrebbe avere molta più coscienza dello spessore culturale e politico del gesto che compie. Non ci si sposa impunemente, oggigiorno.
Detto questo, tra le molte ricorrenze, spesso tranquillamente dimenticabili, che di continuo ci importunano, in questi giorni ne cade una che mi pare meriti invece un’attenta riflessione: la sconfitta nel referendum abrogativo del divorzio, giusto cinquant’anni fa. Io c’ero, e mi ricordo. Il che mi fa molta impressione perché quell’Italia è così remota, così lontana dal presente (in una dimensione non meramente fisica, ma culturale e antropologica del tempo) che mi pare incredibile esserci stato allora ed essere vivo ancora adesso. Un po’ come se fossi stato presente alle crociate, alla scoperta dell’America o alla rivoluzione francese e fossi ancora qui a raccontarlo. Comunque, nel 1974 esistevo, e partecipai, per come potevo, a quella campagna referendaria (per il Sì, ça va sans dire), anche se non potei votare perché allora, molto saggiamente, si diventava maggiorenni a 21 anni compiuti e io non ne avevo ancora venti.
Metto subito le mani avanti e dico che fu giusto fare quel referendum e fu “giusto” anche perderlo. La seconda parte dell’asserzione suonerà forse sconcertante ad alcuni, ma alla fine del discorso spero che si capirà che cosa intendo dire. La prima invece la spiego subito. Il referendum del ’74, il primo della storia repubblicana, fu un grande atto di democrazia e realizzò perfettamente lo spirito della costituzione del ’48. Questo si può dire anche di quello sull’aborto e forse di pochi altri, prima che i radicali (sempre loro!) abusassero da par loro, con una spregiudicatezza immorale e alla fine stolta, di quello strumento di democrazia diretta, contribuendo in modo decisivo a ridurlo alla miserevole inutilità di oggi. La nostra costituzione – (che non è “la più bella del mondo” o un’altra di quelle scemenze che si dicono a corrente alternata, solo quando fa comodo dalle parti della sinistra, ma fu scritta bene, da persone intelligenti e dotate di cultura politica e giuridica) – disegna un sistema politico coerente, in cui il referendum abrogativo ha un senso chiaro e preciso. La nostra doveva essere una democrazia rappresentativa, di forma parlamentare, servita da un sistema elettorale proporzionale e con voto di preferenza. Tutto si tiene, in questo quadro: il popolo sovrano ogni cinque anni va a votare, sceglie chi gli pare e consegna temporaneamente agli eletti la propria sovranità. Il parlamento così formato, che rispecchia fedelmente la “mente” e gli orientamenti del sovrano (anche perché è previsto che i cittadini votino in stragrande maggioranza, come in effetti fecero durante la prima repubblica), legifera in suo nome e compone, con tecnica politica, una maggioranza di governo. Poiché tuttavia la rappresentanza di cui è investito è di natura politica e non legale (cioè non è assimilabile a una procura), la costituzione esclude il vincolo di mandato. Può dunque accadere che i rappresentanti del popolo sovrano legiferino in modo difforme dalla volontà del sovrano stesso. Se la discrasia è modesta o concerne questioni di dettaglio, viene tollerata; se è talmente grossa da scontentare fortemente il sovrano, alle prime elezioni questi rimedia cambiando i rappresentanti. In teoria il sistema dovrebbe funzionare così. Ci sono però delle grandi questioni, dei grandi temi valoriali, delle discriminanti fondamentali che chiamano in causa visioni del mondo diverse, sulle quali una contrapposizione tra popolo e legislatori non è accettabile. Per questi casi e solo per questi casi, la costituzione prevede l’istituto del referendum (non per nulla esclusivmente abrogativo). Quindi, tanto per cominciare, diamo a ciascuno il suo: fu merito dei cattolici, o meglio di alcuni cattolici, aver attivato per la prima volta e in modo corretto (anche se improvvido per loro stessi) quell’importante strumento di democrazia che altri poi hanno sconciato con una pioggia di quesiti referendari meramente strumentali, che servivano solo a promuovere il soggetto politico che li proponeva.
Nel 1970 in Italia era stato introdotto il divorzio, con la legge Fortuna-Baslini (un socialista e un liberale, tanto perché fosse chiara la matrice culturale). Una parte del paese ritenne che quel radicale cambiamento di una delle istituzioni fondamentali della società (come diceva quello: «dal dì che nozze e tribunali ed are / dier alle umane belve esser pietose …»), fosse in contrasto con il sentire comune del popolo italiano, e quindi chiese la verifica referendaria. La realtà era completamente diversa. A scrutinio completato venne fuori un 59 a 41 per la legge Fortuna-Baslini che, da qualunque punto di vista lo si guardi, è una bella botta. Non solo, ma quella sonora sconfitta fu uno spartiacque, e funzionò da catalizzatore di molti processi già avviati, che presero la corsa; molte contraddizioni latenti esplosero e gli equilibri politici cambiarono drasticamente. Dopo, tutto questo fu chiaro. Mi ricordo bene, però, che prima la percezione era assai più confusa. Allora la sondaggistica non era quella scienza esatta che è diventata oggi (ironia) e io ricordo bene che era abbastanza diffusa, in entrambi gli schieramenti, la percezione che sarebbe stata una battaglia difficile, che magari si sarebbe vinta, ma di misura. A volere il referendum fu un comitato promotore, presieduto dal prof. Gabrio Lombardi, illustre giusromanista, e formato da persone, per lo più di estrazione cattolica, degne della massima stima e animate dalle migliori intenzioni. Credo però che basassero la loro iniziativa su un assunto giusnaturalistico discutibile (di cui più avanti diremo) e su un’errata valutazione della situazione socioculturale e politica dell’Italia di quel tempo. Chi scommise sulla vittoria del Sì e puntò a farne un’occasione di affermazione politica fu soprattutto il segretario della DC, Amintore Fanfani, il quale impegnò tutte le sue energie (cospicue, si deve riconoscere) in una campagna elettorale molto intensa, riempiendo le piazze di mezza Italia ai suoi comizi (e mostrando a posteriori, una volta di più, la verità del detto: “piazze piene, urne vuote” attribuito a Nenni). Il referendum sul divorzio fu però anche l’occasione di una prima grande spaccatura di quello che allora si chiamava “il mondo cattolico”, con la proliferazione dei “cattolici del no”, su cui tornerò la prossima volta.
Sull’altro fronte, ricordo le titubanze e la diffidenza del partito comunista, che avrebbe volentieri evitato di arrivare al referendum, in parte per qualche timore di non vincerlo (oggi fa sorridere e forse scandalizzerebbe qualcuno, ma allora a sinistra si guardava con preoccupazione al voto delle donne, che si presumeva antidivorzista), ma soprattutto, io credo, perché almeno una parte della sua classe dirigente intuiva che quella battaglia, che non era la loro ma del laicismo borghese, avrebbe accelerato quella trasformazione del PCI in “partito radicale di massa” già preconizzata in quegli anni da Augusto Del Noce.
Ricordo anche che nei mesi precedenti la consultazione, il più sveglio di tutti i democristiani (e non solo), Giulio Andreotti, forse annusando il pericolo di una sconfitta, fece una proposta per evitare il referendum che però nessuno allora si filò. Andreotti in sostanza propose di disinnescare il referendum prevedendo l’istituzione di due forme distinte di matrimonio: il matrimonio concordatario sarebbe rimasto indissolubile, mentre per quello meramente civile sarebbe stato possibile il divorzio nei termini già normati dalla legge Fortuna-Baslini. Col senno di poi (che è una gran bella cosa) penso che la proposta di Andreotti avrebbe meritato maggiore attenzione, perché era politicamente astuta (anche se solo sul breve termine), giuridicamente molto sensata e culturalmente profonda. Politicamente astuta perché, in un paese in cui per la maggior parte della popolazione il matrimonio vero era ancora quello celebrato in chiesa, la spinta a rinunciarvi in favore di quello meramente civile sarebbe stata, almeno per qualche anno, relativamente modesta. Il partito dei cattolici, pertanto, avrebbe potuto continuare a far valere una “centralità” rispetto al sentimento nazionale che andava oltre i limiti del proprio consenso elettorale. Giuridicamente molto sensata perché matrimonio indissolubile e matrimonio dissolubile non sono due varianti di un’identica istituzione (come dire la stessa automobile con o senza un optional), sono due cose profondamente diverse: quindi la previsione di due forme giuridiche distinte ci stava tutta. Inoltre si sarebbe in tal modo evitata quella vulnerazione del concordato che la Chiesa giustamente (ma vanamente) lamentò quando venne approvata la legge sul divorzio. Infine, e soprattutto, è sotto il profilo culturale, e direi antropologico, che quella proposta aveva a mio avviso un grande valore che allora non fu colto, perché chiamava in causa la responsabilità personale. Qui tocchiamo un punto di sostanza che vorrei spiegare bene: sopra ho detto che non mi convince l’assunto giusnaturalistico dei promotori del referendum i quali sostenevano che il diritto positivo doveva adeguarsi ad un principio universale della natura umana che esigeva l’indissolubilità del vincolo coniugale. Tornerò la prossima volta su questo argomento; ora però vorrei fare osservare che ciò che è universalmente presente nell’uomo è invece l’anelito all’amore perenne, il bisogno di amare ed essere amati per sempre, unitamente all’impossibilità di realizzare questo ideale con i soli mezzi umani. Chiunque ama, se ama veramente, ama-per-sempre e non può nemmeno concepire una data di scadenza del suo amore. Perciò mettere i nubendi di fronte alla scelta tra una forma di matrimonio indissolubile e un’altra con la scadenza incorporata sarebbe stato un forte richiamo alla responsabilità personale. Il cinismo nichilistico in cui siamo scivolati oggi indurrebbe molte coppie a preferire la logica borghese del “non si sa mai” (in realtà, come diremo la prossima volta, oggi il problema è stato ampiamente superato perché quel cinismo distruttivo ha già del tutto consumato la forma stessa del matrimonio: pochi si sposano ancora, anche solo civilmente; sempre più si preferisce “convivere”, cioè un dato di fatto transeunte e precario, senza forma alcuna). Nel 1974 non sarebbe stato proprio la stessa cosa. Il “lodo Andreotti” avrebbe inoltre distrutto dall’interno, prendendolo sul serio, quel passepartout ideologico, all’apparenza solido argomento di buon senso ma nella realtà sofisma quanto mai farlocco, che viene sempre sfoderato, da decenni, per giustificare l’adesione a qualsiasi cosa: “io non lo farò mai, ma non posso impedire agli altri di farlo”. Ricordo bene che allora molti “buoni cattolici“ ragionarono così: io sono personalmente contro il divorzio e per quanto mi riguarda non divorzierò mai, ma non possi impedire ad altri di farlo. Benissimo, eccoti accontentato diceva quella proposta: hic Rhodus hic salta.
Senno di poi, come ho detto, che comunque non è inutile ripescare per un momento dalle fosse che ne sono piene. Nei prossimi giorni, tirerò fuori qualche altro ricordo d’antan.