Cornelio ha avuto la sua visione verso le tre del pomeriggio. Dal testo si evince che ha immediatamente mandato a Joppe i due domestici e il soldato di scorta incaricati di cercare Pietro. Cesarea dista da Joppe una cinquantina di chilometri, quindi i tre inviati si saranno dovuti fermare da qualche parte lungo il cammino, per un pernottamento. «Il giorno dopo, mentre quelli erano per strada e si avvicinavano alla città, Pietro salì sul tetto a pregare, verso mezzogiorno» (Atti 10, 9). La stretta continuità narrativa e il montaggio incrociato della scena servono a Luca per sottolineare il nesso tra le due visioni, quella di Cornelio appena raccontata e quella di Pietro che sta per descrivere. L’intero episodio, dunque, è costruito su un doppio registro, esattamente come era avvenuto per quello della conversione di Saulo a Damasco (9, 3-16): Dio agisce, contemporaneamente, dentro e fuori la sua chiesa. Su questo c’è da riflettere: il confine tra “dentro” e “fuori“ vale per noi, ma non per Lui. È assolutamente giusto, anzi doveroso, che la chiesa, come ogni comunità umana, in quanto ordinamento giuridico si occupi del mantenimento e della protezione delle proprie “frontiere”, fissi dei limiti, metta dei paletti. Le prospettive di “liquidazione” o liquefazione della comunità ecclesiale “in uscita”, oggi tanto spesso esaltate sconsideratamente, anche da pulpiti elevati, rappresentano una colpevole e pericolosa mancanza ai doveri ecclesiastici. C’è un “dentro” e c’è un “fuori”, rispetto alla chiesa visibile, che vanno tenuti ben distinti e che comportano delle conseguenze, per cui, ad esempio, nessuno può pretendere di stare dentro la chiesa facendo i propri comodi come se non ne facesse parte. Ma tutto questo vale per noi: Dio fa quello che vuole.
Dunque Pietro è lì, sul tetto terrazzato della casa in riva al mare, che prega; si fa mezzogiorno, e a un certo punto sente fame (10, 10). Attenzione: noi, che siamo irreligiosi in tutto, ma soprattutto nel mangiare e nel bere – immemori e noncuranti dell’ammonimento di Paolo: «sia che mangiate sia che beviate […] fate tutto a gloria di Dio» (1 Cor 10,31) – tendiamo sempre, inesorabilmente, a banalizzare il cibo e la sua fame. Ho fame? È un semplice stimolo fisiologico, come il bisogno di urinare o defecare; vado in cucina, apro il frigorifero e mangio, fine della storia. Per noi mangiare è questo. Di conseguenza, quando leggiamo “ebbe fame”, per noi è una banalità. Anche di Gesù nel deserto lo pensiamo: se il vangelo ci dice che, ritiratosi nel deserto per quaranta giorni, «non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame» (Lc 4, 1), noi magari ci facciamo sopra una battuta: bella forza che ebbe fame, dopo quaranta giorni! Invece avere fame è vivere, al più alto grado possibile, la condizione umana come bisogno, mancanza, esigenza di compimento, istanza di alterità. La fame di cibo è, al tempo stesso, alla base e al vertice di ogni altra “fame”. È la più basica, la più materiale, e al tempo stesso la più profonda e la più intima, se così si potesse dire, delle esigenze vitali: mangiare, infatti, almeno per noi uomini (benedetto stavolta il tedesco, che tiene distinti essen e fressen, il mangiare degli uomini e quello degli animali), è sempre un atto che coinvolge e compromette, sin nell’intimo, la nostra identità personale: mai come quando mangio io faccio entrare dentro di me, assimilo e faccio diventare parte di me stesso ciò che è fuori di me, ciò che non sono io. Nessun ingresso nella mia intimità corporea (che è un tutt’uno con la mia intimità spirituale, se non vivo proprio da bestia) è tanto massiccio, invasivo e continuo quando il mangiare. Si capisce bene, perciò, come nella storia dell’umanità quell’atto sia sempre e dovunque connotato culturalmente, caricato di valori simbolici e relazionali, sottoposto a valutazioni morali, politiche, religiose. Se c’è una cosa che non è banale è mangiare. Guai a noi se non ce ne rendiamo conto.
Prima di andare avanti con la lettura dell’episodio di Pietro, faccio un inciso solo apparentemente divagante. Mi è capitato di leggere qualche giorno fa, sulla pagina Facebook di Camillo Langone – che è una persona molto intelligente e dice sempre cose che meritano di essere considerate – una discussione che mi ha colpito. Lo scrittore aveva postato la foto di un bel piatto di sanguinaccio col purè (un “cibo estremo”, come li chiama lui) e, alla richesta di far sapere dove l’avesse mangiato, ha risposto che era meglio non dirlo perché si tratta di un alimento proibito per legge. Ne è seguita, nei commenti, una breve discussione su questo argomento, al quale io, colpevolmente, non avevo mai prestato attenzione. Langone dice che oggi nella ristorazione è vietato quasi tutto: io non me ne intendo e quindi non saprei dire se questa affermazione sia un po’ esagerata oppure no, però l’intervento sempre più opprimente e invasivo del potere pubblico nei confronti delle scelte alimentari delle persone è un fatto innegabile. Ciò che è assurdo e scandaloso è che le persone lo accettino come se fosse normale, in nome di presunte superiori esigenze di sanità e igiene pubblica. Dovremmo invece renderci conto che vietare (o obbligare, che è la stessa cosa) un cibo è l’atto più totalitario che ci sia, il più “fascista”, se così vogliamo dire, proprio per la ragione che si è detta sopra: che cosa, come, quanto e quando mangiare è una questione di libera responsabilità personale, un diritto personalissimo su cui nessuno può intromettersi. La libertà di scelta alimentare vale quanto la libertà di pensiero e di parola, se non di più. Che l’Unione Europea o la Repubblica Italiana o qualunque altro potere politico vieti ai cittadini di mangiare quello che vogliono, o domani li obblighi a nutrirsi di quello che il potere decide, è totalitarismo allo stato puro. Leggo, per fare un solo esempio fra i molti, che il casu marzu, prelibatezza casearia tradizionale della Sardegna che assaggiai in gioventù con grande piacere, è da tempo illegale. In uno stato democratico, al massimo si avvertono le persone dei presunti rischi che corrono se lo mangiano (come i Sardi hanno fatto per secoli e secoli), e poi si lascia la libertà di mangiare o non mangiare. In uno stato fascista, invece, si fa come da noi.
Ciò detto, torniamo al testo di Atti, per restare però assolutamente in tema. Mentre a casa di Simone il conciatore qualcuno prepara da mangiare a Pietro, «venne su di lui un’estasi (ἐγένετο ἐπ᾽αὐτὸν ἔκστασις) e vede il cielo aperto e un oggetto che scende (καταβαῖνον σκεῦος τι) come un grande telo che si abbassa per i quattro capi sulla terra, nel quale c’erano tutti i quadrupedi e i rettili della terra e gli uccelli del cielo. E ci fu una voce rivolta a lui: “In piedi, Pietro, sacrifica e mangia (θῦσον καὶ φὰγε)!”» (Atti 10, 10-12). Il «cielo aperto» (lo stesso che vede Stefano nel momento del martirio, in At 7, 56) vuol dire l’apparizione del Mistero, il senso ultimo di tutta la realtà; la forma visibile percepita è un qualcosa, un “aggeggio” difficilmente definibile, che è «come (ὡς)» un grande telo, o un’immensa tovaglia che contiene tutti gli animali del mondo, selettivamente indicati per categorie, alla maniera di Gen. 1. Tutti gli animali di cui l’uomo potenzialmente è in grado di nutrirsi (spiace, ma Atti, come tutta la Sacra Scrittura, non è inclusivo nei confronti dei vegani: l’antropologia biblica è carnivora). La «voce» (che è chiaramente la Voce) risuona chiara e imperiosa: «uccidi / sacrifica» (il verbo θύω si può tradurre in un modo o nell’altro ma io penso che qui l’ambivalenza sia cercata dall’autore) «e mangia». Il centurione Cornelio, all’ordine ricevuto aveva obbedito immediatamente, senza battere ciglio e senza chiedere spiegazioni; l’apostolo Pietro, invece, ha le sue perplessità e le sue obiezioni (proprio come Anania: dev’essere un vizio di “quelli di dentro”). «Assolutamente no, Signore (μηδαμῶς, κὐριε), perché io non ho mai mangiato nulla di profano e di impuro» (10, 14): il rifiuto è netto, quasi violento e scandalizzato, e la contraddizione qui si fa lancinante, come forse in nessun altro passo della Scrittura, perché, nel momento stesso in cui l’uomo riconosce la voce di Dio (infatti lo chiama Kyrios, Signore) e ne intende il volere, la respinge in nome della Legge, cioè in nome di Dio! Sembra quasi di rivedere il Pietro di un tempo, quello che, appena nominato “papa”, si era permesso di contestare a Gesù (anche allora in nome Suo!) l’annuncio della passione e della morte, e si era preso, per tutta risposta, quel tremendo cazziatone che Matteo e Marco (ma non Luca) ci riferiscono: “stammi dietro, Satana” (Mt 16, 23 e Mc 8, 33). L’uomo è sempre quello, ma stavolta ha dalla sua tutta la Torah, l’imponente dottrina dei cibi puri e impuri che costituiva un pilastro della cultura religiosa, e dell’identità stessa di Israele. Perciò quando la Voce replica: «Le cose che Dio ha reso pure, tu non renderle profane» (10, 15), lo zuccone insiste e la Voce glielo deve ripetere una terza volta (10, 16).
Il messaggio è inequivocabile e sconvolgente: la legislazione mosaica sull’alimentazione, con tutte le sue sottili distinzioni tra ciò che è puro e ciò che è impuro, è abolita. Game over: Dio in persona proclama la purità di ogni carne, di ogni cibo, di ogni preparazione gastronomica. Cioè estende a noi uomini la sovrana, benevolente libertà con cui Egli guarda ad ogni creatura: tutto è buono, perché tutto è fatto da Lui – come era stato ripetuto, ad ogni fase della creazione, nel racconto di Genesi 1. L’impurità, se c’è, viene dal cuore. Una cosa del genere, veramente, Gesù l’aveva già detta (Mc 7, 14-23) ma anche allora gli apostoli avevano fatto fatica a capirla e gliela aveva dovuta spiegare due volte, ma la comunità primitiva, evidentemente, non se l’era ricordata a sufficienza. Così adesso Pietro «era imbarazzato in se stesso su ciò che poteva essere la visione che aveva visto» (10, 17), e quando arrivano gli inviati di Cornelio lui «continuava a riflettere sulla visione» (10, 19). Un rompicapo troppo difficile per lui.
Ma che rapporto c’è tra le due visioni divine, quella a Cornelio e quella a Pietro? Che cosa c’entra il discorso sulla purità alimentare con il problema del battesimo ai pagani, che concretamente ci troveremo di fronte all’indomani, quando Pietro giungerà a casa del centurione romano? A prima vista il lettore stenta a comprenderlo e vaga nella stessa nebbia in cui si trovano i due personaggi. È possibile, come molti esegeti hanno pensato, che qui l’autore fonda in un racconto unico due tradizioni originariamente indipendenti e centrate su temi diversi, ma quello che ci interessa è capire perché lo fa e che cosa ci vuol dire in questo modo. In realtà il nesso esiste, ed è molto profondo. La prossima volta cominceremo a scoprirlo.