Nel sito del Corriere oggi si può leggere e ascoltare un’intervista al prete di Calenzano che qualche giorno fa è stato sorpreso a commettere abusi sessuali su una ragazzina di undici anni. Si può, non “si deve”; anzi è probabile che da un certo punto di vista sia meglio non leggerla. Io però l’ho letta e trovo che sia tragicamente istruttiva, perciò credo oppurtuno, mio malgrado, parlarne.
Quel prete si mostra sorprendentemente tranquillo, ammette di avere fatto «un errore», di essere stato stupido, definisce l’accaduto come uno «scambio d’affetto esagerato», ma di avere molta fiducia in Gesù e in Maria, e nella preghiera, con cui si risolve tutto. Certo, il demonio gli ha fatto uno sgambetto, ma Dio metterà tutto a posto. Parla della sua vita, ad un certo punto dice persino che c’è una gioia inspiegabile nell’esperienza che sta facendo dopo «l’evento poco buono» che è successo, anche se naturalmente gli dispiace per la bambina, che però dimostrava non undici ma quindici anni …
Il giornalista osserva che il prete sembra non rendersi conto della realtà, come se fosse un alienato, ma ad ascoltare le sue parole si ha un’impressione diversa, purtroppo. Quel prete sembra del tutto compos sui; dal modo di parlare si capisce anche che è una persona colta e tutt’altro che sprovveduta: il punto è che maneggia con disinvolta abilità il linguaggio standard della chiesa di oggi. L’uso che ne fa è abnorme, ma ne padroneggia perfettamente la sintassi e la semantica. Dice che ha fatto un errore (cioè, in definitiva una stupidaggine), non che ha commesso un peccato mortale. Dice che con la preghiera e la fiducia in Gesù e nella Madonna tutto si risolve, non che deve confessarsi, avendo il fermo proposito di non peccare più e accettando di riparare per quanto possibile al male fatto. Dice che la “stupidaggine” è stata andare con una minorenne, non che la fornicazione con una donna adulta sarebbe stata comunque inaccettabile.
È forse l’unico a parlare così?
Tre settimane fa c’è stato il caso di un prete della diocesi di Verona, che dopo aver dato scandalo per la sua condotta sessuale quand’era parroco, dopo aver mentito ai superiori, dopo avere di fatto abbandonato il ministero, da ultimo – essendo stato tardivamente privato dello stipendio – aveva clamorosamente protestato dichiarando di lasciare lo stato clericale e si era “sposato” con il suo amante, col quale da tempo conviveva all’estero. Il vescovo è andato in quella che era stata la parrocchia di quel tale a parlare ai fedeli. Il suo discorso, si può leggere integralmente qui: http://www.diocesiverona.it/pls/s2ewdiocesiverona/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=25871&rifi=guest&rifp=guest.
Ad alcuni, (come il vaticanista Accattoli che ne parla qui: http://www.luigiaccattoli.it/blog/saggezza-del-vescovo-di-verona-sul-prete-gay-e-sposato/) è sembrato un testo esemplare. A me, con tutto il rispetto per il vescovo – che si è trovato in una situazione certamente molto difficile perché quel tale prete è venuto in chiesa e si è seduto lì davanti, come a sfidarlo – quel discorso ha lasciato molto perplesso. C’è un punto, in particolare, che mi sembra assai problematico. Dopo aver ricostruito, con molta delicatezza, i passaggi della vicenda, arrivato alla questione delle “nozze” del prete col suo amante, il vescovo ha detto:
«Ora don Giuliano è unito a Paolo, con il quale, a detta sua, sognava da parecchi anni di convivere con un amore autentico. Non ho nessun diritto di giudicare don Giuliano, poiché solo Dio, che scruta i cuori, conosce il travaglio della sua vita. Tuttavia, è mio dovere di Pastore, successore degli Apostoli, consegnare alla mia gente e ai miei preti la verità tutta intera, anche quella che riguarda il matrimonio come lo ha progettato e realizzato Dio, Mistero di Amore Trinitario, il quale ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, creandolo maschio e femmina, cioè sponsalità nuziale, aperto alla trasmissione della vita: “Crescete e moltiplicatevi”. Al di fuori di questo quadro di riferimento, Dio non ha previsto nessun’altra modalità di matrimonio, a Lui gradito. Dell’unica identità di famiglia conforme al progetto di Dio sull’umanità parla apertamente papa Francesco nella sua Esortazione Amoris laetitia; ne parla il Concilio Vaticano II; ne parla la Sacra Scrittura, in modo inequivocabile la lettera di Paolo ai Romani (cfr Rm 1, 18-28)».
Tutto molto ovattato, tutto molto soft, ma si dirà che il vescovo l’insegnamento cristiano l’ha proclamato, il suo dovere l’ha fatto. Ed è vero. Ma è quello che dice subito dopo a fare problema: «Questo è il dato teologico e biblico. Poi, per una serie di variabili, la soggettività può imporsi sul dato di fede biblica».
Tradotto, significa: là c’è la dottrina, qui c’è la vita. Da una parte l’insegnamento di Cristo, che sta in vetrina nel “Museo della Dottrina”: nessuno lo tocca, ci mancherebbe. Dall’altra c’è la vita, con tutte le sue variabili soggettive. Ed è in questa dicotomia che cade tutto. Nel linguaggio cristiano, la «soggettività che si impone sul dato di fede» si chiama peccato. Chiamarla diversamente significa spogliare l’etica della sua ragione teologica, e così farla morire.
A poco serve che il vescovo immediatamente soggiunga: «Nessuno comunque può arrogarsi il diritto di sentirsi approvato da Dio se il comportamento che assume coscientemente e volutamente si discosta dal suo progetto», che è sì un modo, sia pure un po’ in sordina, di alludere al peccato, ma viene subito superato da una concessiva che sembra fatta apposta per attenuarne ulteriormente l’impatto: «benché sia da Lui ugualmente amato come un figlio. Anzi, Dio è sempre pronto anche a perdonare, cioè a risanare interiormente» – e meno male che prosegue precisando che ciò avviene «non appena un suo figlio ritorna a lui, impegnandosi a vivere secondo il suo progetto sulla sessualità umana e sulla vita di coppia, e riconoscendo con umiltà i propri traviamenti, come il figlio prodigo». Quest’ultima parte è del tutto vera e perfettamente cattolica (soprattutto se si chiarisce che l’umile riconoscimento dei propri traviamenti passa attraverso il sacramento della confessione), però c’è da temere fortemente che – certo senza volere e animato da buone intenzioni – il vescovo ne abbia coperto il significato con l’atto che ha compiuto appena finito il discorso. Dopo aver pronunciato quelle parole, infatti, è andato ad abbracciare il prete impenitente. Probabilmente voleva illustrare con il gesto quel richiamo alla parabola del padre misericordioso, ma ha dimenticato che il padre della parabola evangelica corre ad abbracciare il figlio che si è pentito (certo, anche se si è pentito solo perché aveva finito i soldi: questa è la magnanimità di Dio verso di noi). Lui, invece, è andato ad abbracciare chi non solo non si è affatto pentito, ma rivendica con orgoglio, e brandisce contro la chiesa «un comportamento che coscientemente e volutamente si discosta dal progetto di Dio». Ora, in un mondo di semiselvaggi, quale è ormai diventato il nostro, l’immagine conta molto più delle parole. Ai tanti che “guardano solo le figure”, il messaggio trasmesso è che, qualunque cosa si faccia, in fondo va bene. Tanto Dio è così buono che perdona tutto, a prescindere. E poi, diciamo la verità, tutto quel che facciamo, non lo facciamo forse per amore? Magari sbagliando, ma tutti abbiamo il nostro rispettabile travaglio interiore …
Il “mostruoso” prete di Calenzano porta alle conseguenze estreme questo “sentire” (mi rifiuto di chiamarlo pensiero): anche il suo era uno «scambio di affetto», anche lui ha il suo travaglio. Ci ripugna (ancora ci ripugna, ma non so per quanto), però per dargli torto bisogna avere delle ragioni. E per avere le ragioni, bisogna avere le parole per pensarle e per dirle, queste ragioni. Una chiesa che si lascia privare delle sue parole resta afona.