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#Dante, arte, donne, Lia e Rachele, libertà, maestro, Paradise now, scuola, sogno, Virgilio
Lo so che sui sogni di Dante ci sarebbero tante cose da dire, cose dotte, profonde e anche un po’ esoteriche. Ne so quel poco che basta per sapere che non ne so abbastanza, ma non è per questo che non ne parlo, quanto piuttosto perché, dopo essere uscito dal fuoco dell’ultima prova in cui stava per andare a finire tutto male, come lettore sono, al pari di Dante personaggio, in modalità spensierata e fanciullesca. Durerà poco questo momento di «vita iniziale», dunque condediamoci di goderlo, «come al fanciul si fa ch’è vinto al pome» (v.45); pienamente giustificati in ciò dall’autore poiché, come nota con grande acutezza Anna Maria Chiavacci Leonardi, «la scena sorridente di Virgilio, che guarda [Dante] come si fa con un fanciullo renitente vinto dalla promessa di un frutto, non ha valore idillico, né funzione di allentamento della tensione, come è stato detto, ma ha un profondo significato teologico: la figura del fanciullo è infatti quella che più si conviene a chi è appena rinato alla vita e sta per salire al regno dei cieli». Io aggiungerei che, prima che in cielo, stiamo per entrare nel paradiso terrestre, cioè nel “luogo dell’infanzia” dell’umanità: mimando quella condizione di piacere innocente, privo di malizia e pieno di stupore, anche noi, insieme con Dante, possiamo per un po’ passeggiare gustando semplicemente le bellezze che ci vengono offerte a piene mani dal testo. Sono i cioccolatini di cui parlavo l’altra volta.
Il primo di essi è la continuazione dell’incantevole notturno alpino che già avevamo delibato nei versi 70-75. Ora in più ci sono le capre e il pastore: «Quali si stanno ruminando manse / le capre, state rapide e proterve / sovra le cime avante che sien pranse, // tacite all’ombra, mentre che ‘l sol ferve, / guardate dal pastor, che ‘n su la verga / poggiato s’è e lor di posa serve; // e quale il mandrïan che fori alberga, / lungo il pecuglio suo queto pernotta, / guardanto perché fiera non lo sperga; // tali eravamo tutti e tre allotta, / io come capra, ed ei come pastori, / fasciati quinci e quindi d’alta grotta» (vv. 76-87). Naturalmente di tutto questo c’è un’interpretazione spirituale, di antico lignaggio patristico, che qui ha la sua importanza per comprendere la ruminatio (meditazione della parola di Dio), il ruolo dei pastori, e quella sorta di rito di incubatio (cioè la predisposizione di un sonno foriero di rivelazioni soprannaturali) che la scena allestita dal poeta contiene. Ma io, come ho detto, mi voglio piuttosto godere il cielo stellato in alta montagna, ricordando magari la trepidazione della prima volta (mezzo secolo fa!, sulle Dolomiti del Brenta): «Poco parer potea lì del di fori; / ma, per quel poco, vedea io le stelle / di lor solere e più chiare e maggiori» (vv. 88-90). (Quante stelle, quante stelle, dimmi Tu la mia qual è: erano le parole di un canto scout che allora si faceva. Ed era proprio così: quante stelle!).
«Sì ruminando e sì mirando in quelle, / mi prese il sonno» (che non è un incconveniente, o peggio un fallimento, della vita spirituale, ma piuttosto un premio della meditazione …). E nel sonno, il sogno. Il terzo del nostro viaggio: gli altri due erano stati piuttosto due incubi: l’uno fulmineo e terribile (come un’aquila che «terribil come folgor discendesse / e me rapisse suso infino al foco», IX, vv. 29-30), e l’altro lentissimo, torbido e inquietante (XIX, vv. 1-33). Sogni di donne entrambi, ma nel primo si scopriva solo dopo il risveglio che l’aquila era in realtà Santa Lucia, mentre nel secondo la presenza della femmina, dapprima miserabile, poi morbosamente sensuale, alla fine diventava d’un tratto insostenibilmente ripugnante grazie all’intervento della «donna santa e presta». Sogno di donne anche questo terzo e ultimo della Commedia, in cui possiamo invece abbandonarci senza paura e senza rimorso al puro piacere di contemplare una bella donna: «giovane e bella in sogno mi parea / donna vedere andatr per una landa / cogliendo fiori; e cantando dicea» (vv. 97-99). Anzi le belle ragazze sono due, perché a farsi ammirare da noi ci sono Lia e Rachele, le due fidanzate di Giacobbe. Il libro della Genesi, senza troppi complimenti, dice che a Giacobbe piaceva Rachele, che doveva essere un gran bel pezzo di figliola, ma si dovette prendere anche Lia, che invece era bruttina (se veramente vuol dir questo l’accenno ai suoi «occhi smorti»; ma del resto non ha molta importanza: è certo che era meno bella di Rachele e, in certe cose, “meno bella” vuol dir “brutta”, e si può immaginare che cosa avrà risposto alla mamma o alla zia che per consolarla le dicevano: “anche tu sei carina”). Il racconto biblco però prosegue informandoci che, una volta sposate, Lia fu madre feconda di figli prima e ben più di Rachele. Su questa base, l’esegesi spirituale ne aveva fatto i simboli rispettivamente della vita contemplativa (bella quanto Rachele, ma di per sé, se rimane da sola, sterile di nuovi figli alla chiesa) e della vita attiva, meno attraente ma pastoralmente feconda quanto Lia. Il bello del sogno di Dante è che invece qui sono belle tutte e due, per quanto diverse nel modo di presentarsi al nostro sguardo: «i’ mi sono Lia, e vo movendo intorno / le belle mani a farmi una ghirlanda. // Per piacermi a lo specchio, qui m’addorno; // ma mia suora Rachel mai non si smaga / dal suo miraglio, e siede tutto giorno. // Ell’è d’i suoi belli occhi veder vaga / com’io de l’addornarmi con le mani; / lei lo vedere, e me l’ovrare appaga» (vv. 101-108). Il significato spirituale è trasparente ma, ripeto, qui è bello anche gustare fino in fondo la lettera.
Intanto si è fatta l’aurora («gli splendori antelucani, / che tanto a’ pellegrin surgon più grati / quanto, tornando albergan più lontani», vv. 109-111: aria di casa!) e Dante si sveglia. Le prime parole che Virgilio gli dice rievocano l’immagine del «pome» che era stata anticipata dalla similitudine del v. 45 sopra ricordata, e non possono non richiamare alla mente del lettore i buoni frutti di quel giardino dove stiamo per entrare: la felicità di una vita terrena integra, perfetta, non vulnerata dal peccato originale: «Quel dolce pome che per tanti rami / cercando va la cura de’ mortali, / oggi porrà in pace le tue fami» (vv. 115-117). Via, di corsa! Un balzo dopo l’altro, in un attimo il giovane Dante è già in cima alla montagna. (Questa baldanza, in salita!, è un altro contrassegno tipico della giovinezza, e uno dei suoi avventati e inconsapevoli piaceri. Nel Deserto dei Tartari il protagonista, ad un certo punto, si rende conto d’improvviso che la sua giovinezza è svanita da un pezzo perché si accorge che è da un bel po’ che non sale più le scale della caserma facendo i gradini due a due).
Qui succede una cosa bellissima, per me commovente al massimo grado (io che detesto questa parola) proprio perché rifiuta di esserlo: il professor Virgilio fa la sua ultima lezione, la più bella, quella che dà compimento all’intero corso di studi. Ma non lo dice a nessuno che è l’ultima, non lo fa sapere né a Dante né a noi. Niente discorsi commemorativi, dunque, niente lacrime, elogi ufficiali e medagliette per il suo pensionamento. Finito di fare quello che doveva, semplicemente si fa da parte e poi, a un certo punto, non sappiamo nemmeno quando di preciso, se ne va senza salutare nessuno.
La lezione, proprio perché non vuole avere l’aria solenne di essere l’ultima, è molto semplice, quasi dimessa. Molto referenziale. Seguiamola: tanto per cominciare «in me ficcò Virgilio li occhi suoi» (v. 126). L’abbiamo già detto, vero, che la cosa più importante per un maestro è guardare veramente in faccia i suoi discepoli? Ecco, più di cosi … «Il temporal foco e l’etterno / veduto hai, figlio;» – questo è il programma svolto (quello che si scriveva nella relazione di fine anno), senza fronzoli e senza bugie – «e se’ venuto in parte / dov’io per me più oltre non discerno» (vv. 127-129). Che bellezza, il momento, pieno di grazia, in cui il maestro confessa al discepolo di non sapere nient’altro, più di ciò che ha già insegnato. Il momento in cui riconosce semplicemente il suo limite e lo consegna al discepolo: “io più di questo non so”.
«Tratto t’ho qui con ingegno e con arte; / lo tuo piacere omai prendi per duce; / fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ dell’arte» (vv. 130-132). Terzina fondamentale, che dice una cosa nuova al discepolo ma imprescindibile. Perché non è affatto detto che l’ultma lezione debba essere una parata riassuntiva del già detto: ci sono cose che si possono spiegare solo all’ultima lezione, non prima. Questa, in particolare, che proverei a parafrasare così, alla buona: nella vita, in nessun campo della vita, non basta mai il solo ingegno, cioè il dono che uno si ritrova per pura grazia, senza merito e senza fatica. Ci vuole, beninteso, ma non basta. Nella vita, in ogni campo della vita, occorre anche l’arte, cioè un certo modo di fare le cose, regola, disciplina, metodo, apprendistato, pazienza, umiltà … Il che implica anche costrizione, frustrazione, sottomissione al giudizio e riprovazione degli errori eccetera eccetera: tutte cose che lo spirito del tempo oggi aborre. L’arte è fatta di divieti: si fa così, non si fa cosà. Di più, la cultura è fatta di divieti. Vietato vietare è rimasto forse lo slogan più celebre del Sessantotto, e Paradise now fu il motto di una generazione che oggi sembra remota nel tempo, ma che si è riprodotta in schiere di nipoti e pronipoti, per lo più degeneri. Parole d’ordine esiziali, come si è visto, ma proprio per la parte di verità che il loro errore conteneva. Vietato vietare, infatti, se uno prova realmente ad applicarlo, distrugge ogni forma di civiltà umana. Però è vero che ogni artista aspira a superare i limiti dell’arte e che la grande arte se ne frega dei divieti. E volere il Paradiso è la cosa più sensata che ci sia. Ma non adesso. Fin dall’inizio, il cammino di Dante è stato costellato di divieti e di obblighi imposti dal suo maestro – e questo sarebbe il momento di ripercorrerli tutti, se ne avessimo il tempo. Senza quelle «erte vie» non sarebbe arrivato fin qui. Ma ora tutto questo è finito. Fa’ quel che ti pare è finalmente la norma unica della morale.
I versi successivi (vv. 133-142) sembra che non facciano che dettagliare questo insegnamento nuovo e rivoluzionario, parlando di erbette, fiori e arbuscelli tra cui l’ex discepolo ormai potrà vagare a suo piacimento, ma in realtà contengono un messaggio ulteriore: «Mentre che vegnan lieti li occhi belli / che, lagrimando, a te venir mi fenno, / seder ti puoi e puoi andar tra elli» (vv. 136-138). Terzina decisiva, che significa quanto segue: ok, Dante ha preso la maturità, anzi si è laureato; è stato bravo perché ha diligentemente applicato le regole dell’arte, ha seguito le lezioni e fatto tutti i compiti, ma il merito non è principalmente suo (né tanto meno del professore): all’origine di tutto ci sono «li occhi belli» che hanno pianto per lui. Grazia di una misericordia. Inoltre, sì per adesso ci sono le vacanze, e il giovane Dante può fare come gli pare, ma dureranno poco perché quando arriveranno «li occhi belli» sarà un’altra storia. La libertà appena conquistata dovrà essere sussunta e trascesa in una superiore ubbidienza. Non a un altro maestro, ma alla donna amata. Non più magistero, ma relazione amorosa.
Il prof., in ogni caso, il suo lavoro l’ha finito: «Non aspettar mio dir più né mio cenno; / libero, dritto e sano è tuo arbitrio, / e fallo fora non fare a suo senno: // perch’io te sovra te corono e mitrio» (vv. 139-142). 110 e lode.