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~ Vanitas ludus omnis

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Archivi Mensili: agosto 2021

Dante sogna una bella donna, anzi due; e il maestro Virgilio si congeda, a nostra insaputa. (#Dante, Purgatorio, canto XXVII, vv. 76-142)

29 domenica Ago 2021

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#Dante, arte, donne, Lia e Rachele, libertà, maestro, Paradise now, scuola, sogno, Virgilio

Lo so che sui sogni di Dante ci sarebbero tante cose da dire, cose dotte, profonde e anche un po’ esoteriche. Ne so quel poco che basta per sapere che non ne so abbastanza, ma non è per questo che non ne parlo, quanto piuttosto perché, dopo essere uscito dal fuoco dell’ultima prova in cui stava per andare a finire tutto male, come lettore sono, al pari di Dante personaggio, in modalità spensierata e fanciullesca. Durerà poco questo momento di «vita iniziale», dunque condediamoci di goderlo, «come al fanciul si fa ch’è vinto al pome» (v.45); pienamente giustificati in ciò dall’autore poiché, come nota con grande acutezza Anna Maria Chiavacci Leonardi, «la scena sorridente di Virgilio, che guarda [Dante] come si fa con un fanciullo renitente vinto dalla promessa di un frutto, non ha valore idillico, né funzione di allentamento della tensione, come è stato detto, ma ha un profondo significato teologico: la figura del fanciullo è infatti quella che più si conviene a chi è appena rinato alla vita e sta per salire al regno dei cieli». Io aggiungerei che, prima che in cielo, stiamo per entrare nel paradiso terrestre, cioè nel “luogo dell’infanzia” dell’umanità: mimando quella condizione di piacere innocente, privo di malizia e pieno di stupore, anche noi, insieme con Dante, possiamo per un po’ passeggiare gustando semplicemente le bellezze che ci vengono offerte a piene mani dal testo. Sono i cioccolatini di cui parlavo l’altra volta.

Il primo di essi è la continuazione dell’incantevole notturno alpino che già avevamo delibato nei versi 70-75. Ora in più ci sono le capre e il pastore: «Quali si stanno ruminando manse / le capre, state rapide e proterve / sovra le cime avante che sien pranse, // tacite all’ombra, mentre che ‘l sol ferve, / guardate dal pastor, che ‘n su la verga / poggiato s’è e lor di posa serve; // e quale il mandrïan che fori alberga, / lungo il pecuglio suo queto pernotta, / guardanto perché fiera non lo sperga; // tali eravamo tutti e tre allotta, / io come capra, ed ei come pastori, / fasciati quinci e quindi d’alta grotta» (vv. 76-87). Naturalmente di tutto questo c’è un’interpretazione spirituale, di antico lignaggio patristico, che qui ha la sua importanza per comprendere la ruminatio (meditazione della parola di Dio), il ruolo dei pastori, e quella sorta di rito di incubatio (cioè la predisposizione di un sonno foriero di rivelazioni soprannaturali) che la scena allestita dal poeta contiene. Ma io, come ho detto, mi voglio piuttosto godere il cielo stellato in alta montagna, ricordando magari la trepidazione della prima volta (mezzo secolo fa!, sulle Dolomiti del Brenta): «Poco parer potea lì del di fori; / ma, per quel poco, vedea io le stelle / di lor solere e più chiare e maggiori» (vv. 88-90). (Quante stelle, quante stelle, dimmi Tu la mia qual è: erano le parole di un canto scout che allora si faceva. Ed era proprio così: quante stelle!).

«Sì ruminando e sì mirando in quelle, / mi prese il sonno» (che non è un incconveniente, o peggio un fallimento, della vita spirituale, ma piuttosto un premio della meditazione …). E nel sonno, il sogno. Il terzo del nostro viaggio: gli altri due erano stati piuttosto due incubi: l’uno fulmineo e terribile (come un’aquila che «terribil come folgor discendesse / e me rapisse suso infino al foco», IX, vv. 29-30), e l’altro lentissimo, torbido e inquietante (XIX, vv. 1-33). Sogni di donne entrambi, ma nel primo si scopriva solo dopo il risveglio che l’aquila era in realtà Santa Lucia, mentre nel secondo la presenza della femmina, dapprima miserabile, poi morbosamente sensuale, alla fine diventava d’un tratto insostenibilmente ripugnante grazie all’intervento della «donna santa e presta». Sogno di donne anche questo terzo e ultimo della Commedia, in cui possiamo invece abbandonarci senza paura e senza rimorso al puro piacere di contemplare una bella donna: «giovane e bella in sogno mi parea / donna vedere andatr per una landa / cogliendo fiori; e cantando dicea» (vv. 97-99). Anzi le belle ragazze sono due, perché a farsi ammirare da noi ci sono Lia e Rachele, le due fidanzate di Giacobbe. Il libro della Genesi, senza troppi complimenti, dice che a Giacobbe piaceva Rachele, che doveva essere un gran bel pezzo di figliola, ma si dovette prendere anche Lia, che invece era bruttina (se veramente vuol dir questo l’accenno ai suoi «occhi smorti»; ma del resto non ha molta importanza: è certo che era meno bella di Rachele e, in certe cose, “meno bella” vuol dir “brutta”, e si può immaginare che cosa avrà risposto alla mamma o alla zia che per consolarla le dicevano: “anche tu sei carina”). Il racconto biblco però prosegue informandoci che, una volta sposate, Lia fu madre feconda di figli prima e ben più di Rachele. Su questa base, l’esegesi spirituale ne aveva fatto i simboli rispettivamente della vita contemplativa (bella quanto Rachele, ma di per sé, se rimane da sola, sterile di nuovi figli alla chiesa) e della vita attiva, meno attraente ma pastoralmente feconda quanto Lia. Il bello del sogno di Dante è che invece qui sono belle tutte e due, per quanto diverse nel modo di presentarsi al nostro sguardo: «i’ mi sono Lia, e vo movendo intorno / le belle mani a farmi una ghirlanda. // Per piacermi a lo specchio, qui m’addorno; // ma mia suora Rachel mai non si smaga / dal suo miraglio, e siede tutto giorno. // Ell’è d’i suoi belli occhi veder vaga / com’io de l’addornarmi con le mani; / lei lo vedere, e me l’ovrare appaga» (vv. 101-108). Il significato spirituale è trasparente ma, ripeto, qui è bello anche gustare fino in fondo la lettera.

Intanto si è fatta l’aurora («gli splendori antelucani, / che tanto a’ pellegrin surgon più grati / quanto, tornando albergan più lontani», vv. 109-111: aria di casa!) e Dante si sveglia. Le prime parole che Virgilio gli dice rievocano l’immagine del «pome» che era stata anticipata dalla similitudine del v. 45 sopra ricordata, e non possono non richiamare alla mente del lettore i buoni frutti di quel giardino dove stiamo per entrare: la felicità di una vita terrena integra, perfetta, non vulnerata dal peccato originale: «Quel dolce pome che per tanti rami / cercando va la cura de’ mortali, / oggi porrà in pace le tue fami» (vv. 115-117). Via, di corsa! Un balzo dopo l’altro, in un attimo il giovane Dante è già in cima alla montagna. (Questa baldanza, in salita!, è un altro contrassegno tipico della giovinezza, e uno dei suoi avventati e inconsapevoli piaceri. Nel Deserto dei Tartari il protagonista, ad un certo punto, si rende conto d’improvviso che la sua giovinezza è svanita da un pezzo perché si accorge che è da un bel po’ che non sale più le scale della caserma facendo i gradini due a due).

Qui succede una cosa bellissima, per me commovente al massimo grado (io che detesto questa parola) proprio perché rifiuta di esserlo: il professor Virgilio fa la sua ultima lezione, la più bella, quella che dà compimento all’intero corso di studi. Ma non lo dice a nessuno che è l’ultima, non lo fa sapere né a Dante né a noi. Niente discorsi commemorativi, dunque, niente lacrime, elogi ufficiali e medagliette per il suo pensionamento. Finito di fare quello che doveva, semplicemente si fa da parte e poi, a un certo punto, non sappiamo nemmeno quando di preciso, se ne va senza salutare nessuno.

La lezione, proprio perché non vuole avere l’aria solenne di essere l’ultima, è molto semplice, quasi dimessa. Molto referenziale. Seguiamola: tanto per cominciare «in me ficcò Virgilio li occhi suoi» (v. 126). L’abbiamo già detto, vero, che la cosa più importante per un maestro è guardare veramente in faccia i suoi discepoli? Ecco, più di cosi … «Il temporal foco e l’etterno / veduto hai, figlio;» – questo è il programma svolto (quello che si scriveva nella relazione di fine anno), senza fronzoli e senza bugie – «e se’ venuto in parte / dov’io per me più oltre non discerno» (vv. 127-129). Che bellezza, il momento, pieno di grazia, in cui il maestro confessa al discepolo di non sapere nient’altro, più di ciò che ha già insegnato. Il momento in cui riconosce semplicemente il suo limite e lo consegna al discepolo: “io più di questo non so”.

«Tratto t’ho qui con ingegno e con arte; / lo tuo piacere omai prendi per duce; / fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ dell’arte» (vv. 130-132). Terzina fondamentale, che dice una cosa nuova al discepolo ma imprescindibile. Perché non è affatto detto che l’ultma lezione debba essere una parata riassuntiva del già detto: ci sono cose che si possono spiegare solo all’ultima lezione, non prima. Questa, in particolare, che proverei a parafrasare così, alla buona: nella vita, in nessun campo della vita, non basta mai il solo ingegno, cioè il dono che uno si ritrova per pura grazia, senza merito e senza fatica. Ci vuole, beninteso, ma non basta. Nella vita, in ogni campo della vita, occorre anche l’arte, cioè un certo modo di fare le cose, regola, disciplina, metodo, apprendistato, pazienza, umiltà … Il che implica anche costrizione, frustrazione, sottomissione al giudizio e riprovazione degli errori eccetera eccetera: tutte cose che lo spirito del tempo oggi aborre. L’arte è fatta di divieti: si fa così, non si fa cosà. Di più, la cultura è fatta di divieti. Vietato vietare è rimasto forse lo slogan più celebre del Sessantotto, e Paradise now fu il motto di una generazione che oggi sembra remota nel tempo, ma che si è riprodotta in schiere di nipoti e pronipoti, per lo più degeneri. Parole d’ordine esiziali, come si è visto, ma proprio per la parte di verità che il loro errore conteneva. Vietato vietare, infatti, se uno prova realmente ad applicarlo, distrugge ogni forma di civiltà umana. Però è vero che ogni artista aspira a superare i limiti dell’arte e che la grande arte se ne frega dei divieti. E volere il Paradiso è la cosa più sensata che ci sia. Ma non adesso. Fin dall’inizio, il cammino di Dante è stato costellato di divieti e di obblighi imposti dal suo maestro – e questo sarebbe il momento di ripercorrerli tutti, se ne avessimo il tempo. Senza quelle «erte vie» non sarebbe arrivato fin qui. Ma ora tutto questo è finito. Fa’ quel che ti pare è finalmente la norma unica della morale.

I versi successivi (vv. 133-142) sembra che non facciano che dettagliare questo insegnamento nuovo e rivoluzionario, parlando di erbette, fiori e arbuscelli tra cui l’ex discepolo ormai potrà vagare a suo piacimento, ma in realtà contengono un messaggio ulteriore: «Mentre che vegnan lieti li occhi belli / che, lagrimando, a te venir mi fenno, / seder ti puoi e puoi andar tra elli» (vv. 136-138). Terzina decisiva, che significa quanto segue: ok, Dante ha preso la maturità, anzi si è laureato; è stato bravo perché ha diligentemente applicato le regole dell’arte, ha seguito le lezioni e fatto tutti i compiti, ma il merito non è principalmente suo (né tanto meno del professore): all’origine di tutto ci sono «li occhi belli» che hanno pianto per lui. Grazia di una misericordia. Inoltre, sì per adesso ci sono le vacanze, e il giovane Dante può fare come gli pare, ma dureranno poco perché quando arriveranno «li occhi belli» sarà un’altra storia. La libertà appena conquistata dovrà essere sussunta e trascesa in una superiore ubbidienza. Non a un altro maestro, ma alla donna amata. Non più magistero, ma relazione amorosa.

Il prof., in ogni caso, il suo lavoro l’ha finito: «Non aspettar mio dir più né mio cenno; / libero, dritto e sano è tuo arbitrio, / e fallo fora non fare a suo senno: // perch’io te sovra te corono e mitrio» (vv. 139-142). 110 e lode.

A cosa serve il presidente degli Stati Uniti?

27 venerdì Ago 2021

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Biden, politica, rappresentazione, teatro

Io di preciso non lo so, perché non sono un esperto di politica americana. Ricordo che ad ogni elezione gli esperti del ramo ci spiegano che non è così importante chi sia l’inquilino della Casa Bianca perché sì, lui è il presidente ma poi lo staff, l’apparato, il deep state, il sistema checks and balances eccetera eccetera eccetera. Immagino che un pochino conti anche lui, nel complesso gioco dei fattori decisionali, ma so che comunque c’è una cosa che spetta solo a lui personalmente, una cosa che può e deve fare solo lui. Nei momenti cruciali della vita della nazione (e, ahimé, del mondo), la sua vera e peculiare funzione è quella di andare in televisione e “fare una certa impressione”. Svolgere (il che significa, letteralmente, recitare) la parte del commander in chief. Proprio come dicono i versi della marcetta che accompagna le apparizioni pubbliche del Potus (come lo chiamano loro):

Hail to the Chief we have chosen for the nation,
Hail to the Chief! We salute him, one and all.
Hail to the Chief, as we pledge cooperation
In proud fulfillment of a great, noble call.

Un ruolo meramente attoriale, si dirà. Sia pure, purché lo si dica col massimo rispetto, e avendo almeno un’idea del fisico che ci vuole per fare l’attore (io ce l’ho perché, pur non avendo mai calcato la scena ho fatto l’insegnante per quarant’anni e un’ora di lezione è un’ora di performance). La rappresentazione in politica è molto, per non dire quasi tutto, e non a caso uno come Augusto, che non si può dire che non ne capisse, in punto di morte chiese agli astanti di fargli un applauso se aveva recitato bene il mimo della vita.

Da questo punto di vista, parziale e ristretto ma non irrilevante, oggi tutti misurano le conseguenze tragiche di aver messo a fare la parte di presidente degli Stati Uniti un uomo nelle condizioni di Joe Biden. Non ne faccio banalmente una questione di età (anche perché io, per solidarietà anagrafica, sono molto favorevole ai vecchi): se a fare il discorso che ieri doveva fare il Potus, ci fosse stato Clint Eastwood credo che sarebbe andato benissimo. Ma Clint, il Clint di Gran Torino, è un vecchio meraviglioso. Biden … è quello che è. E che tutti vedono.

Si rifletta un attimo sul modo in cui egli è diventato presidente: praticamente senza fare la campagna elettorale, né per le primarie né per la sfida contro Trump. Al suo posto, hanno fatto tutto i giornali, le televisioni e i padroni della rete. Questa è un’anomalia così enorme, rispetto al sistema politico americano, che chiunque poteva vederla, anche un ignorante come me. Tanto che ne scrissi qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2020/11/05/cio-che-sarebbe-meglio-per-biden/ , ed era il 5 novembre 2020, e qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2021/03/18/biden-e-putin-poveri-noi/, il 18 marzo scorso.

Perché dico che il problema sta nella campagna elettorale del tutto anomala che si è svolta, con la scusa del covid, l’anno scorso negli USA? Perché in quel paese il vero banco di prova della sostenibilità del ruolo presidenziale da parte dei candidati è proprio e solo quella. Vi è infatti la consuetudine di eleggere presidente, con un sistema elettorale ridicolo, personaggi spesso privi di un adeguato cursus honorum e quasi sempre digiuni di politica internazionale. E non sto pensando solo a Trump: il mitico Obama, per esempio, aveva solo tre anni da senatore e per il resto aveva fatto il community organizer, ma non aveva governamo mai niente; Clinton era governatore dell’Arkansas, che ha meno di tre milioni di abitanti; Carter lo era stato della Georgia e prima coltivava le noccioline, eccetera. Lasciamo stare gli studi, che spesso sono improbabili … Però per arrivare in fondo alle primarie e diventare candidato di uno dei due partiti, e poi per battere l’altro candidato, bisogna farsi un mazzo così, avere un bel po’ di pelo sullo stomaco, una buona dose di culo e un bel paio di palle. Cioè le physique du rôle per fare il presidente degli Stati Uniti. (Per il resto c’è Mastercard: cioè lo staff, l’apparato, il deep state, il sistema checks and balances e tutto quello che ci spiegano gli esperti).

La sgrammaticatura smaccata che è stata compiuta l’ultima volta è che, avendo “qualcuno” deciso che la sola cosa che contava era cacciare via il Puzzone e che il nome di Biden era il più funzionale allo scopo, si è voluto azzerare tutto questo, cioè l’unico elemento realmente agonistico e vagamente democratico del sistema: il predestinato è rimasto praticamente nascosto per tutta la durata della campagna elettorale, protetto da una cortina di ferro mediatica che ha letteralmente impedito, tra le altre cose, di porre il problema, oggettivo ed evidente, delle sue condizioni di salute (un tema a cui l’opinione pubblica americana era abituata ad essere attenta in modo quasi paranoico!), mentre l’altro si sbatteva per farsi rieleggere. Questo è, politicamente, un errore da matita blu, più grave degli eventuali brogli elettorali, ormai indimostrabili e di cui è inutile parlare (a parte il fatto che i brogli, a loro modo, fanno parte del gioco elettorale da sempre).

Il problema è che le sgrammaticature si pagano, in generale nella vita, ma a teatro e in politica in modo particolare.

Lo scandalo dei vescovi (e l’ombra di una chiesa che non ha “il coraggio di dire io”).

24 martedì Ago 2021

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chiesa e mondo, chiesa e potere politico, scandalo, vescovi

Qualche giorno fa si è dimesso un vescovo brasiliano, a quanto pare perché era circolato in rete un video, da lui stesso ripreso e originariamente mandato credo ad un suo amante, in cui appariva nudo mentre si masturbava. Che dire? Molta pena per lui, perché uno così dev’essere conciato proprio male. Dal punto di vista umano, molta perplessità riguardo al modo in cui la chiesa cattolica, come organizzazione, seleziona i suoi quadri. Tanto più se fosse vero che, come ho letto, precedenti segnalazioni del comportamento immorale di quel vescovo erano cadute nel vuoto perché egli era “della corrente giusta”. Sorgono alla mente di noi semplici fedeli molte domande che non si possono tacitare col solito discorso della “mela marcia” che c’è sempre in ogni collettivo (“anche tra i Dodici, benché li avesse scelti Gesù stesso”). Quello del prelato brasiliano di cui sopra, infatti, non è un caso isolato: negli ultimi anni (o forse dovrei dire negli ultimi decenni), quante sono state le dimissioni “strane” (e in qualche caso le rimozioni vere e proprie) di vescovi non ancora giunti al compimento dei 75 anni, di cui non è stata quasi mai chiarita in modo trasparente la motivazione, ma dietro alle quali si sono intravisti gravi problemi di carattere morale, legati quasi sempre al sesso e ai soldi, o di carattere dottrinale? Se di mele marce vogliamo continuare a parlare, forse è ormai necessario interrogarsi sulla salute complessiva del canestro e sui criteri con cui viene composto.

Ma questo non è il peggio. Che la chiesa abbia non uno, ma diverse decine (e, a questo punto, chi può dire che non siano centinaia?) di vescovi indegni, per dottrina o per morale o per entrambe, è di certo un gran male, ma non è la cosa peggiore che possa capitarle.

Forse ieri, in Spagna, è accaduto qualcosa di ancor più preoccupante, con le dimissioni dell’ancor giovane vescovo di Solsona, mons. Xaiver Gomell Novà. Io non so quanto credito si possa dare alle fonti giornalistiche, comunque questo è il modo in cui l’Ansa ha dato la notizia: https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2021/08/23/rimosso-il-vescovo-spagnolo-novell-contestato-per-frasi-sui-gay_8f81f4be-077d-4493-b1e2-df16a40b99b2.html.

Il titolo è sbagliato, perché formalmente non di rimozione si tratta bensì di dimissioni, ma il senso della notizia è chiaro. Quel vescovo se ne sarebbe andato perché “dava fastidio”. E dava fastidio perché “parlava cristiano”. Possibile che sia così? Il sito della diocesi di Solsona, che è per ora l’unica fonte ufficiale a cui si possa attingere, contiene solo una nota de prensa molto stringata in cui viene detto soltanto che le dimissioni il vescovo le ha «libremente presentado por razones estrictamente personales». Spiegazione risibile, che da un lato ricorda le giustificazioni delle assenze scolastiche di certi alunni, a cui una mia vecchia e cara preside obiettava argutamente che per forza i motivi dell’assenza erano personali, visto che a farla erano stati loro personalmente e non qualcun altro; e dall’altro mostra una totale noncuranza di che cosa rappresenti un vescovo per la sua chiesa. Un vescovo è un successore degli apostoli, il pastore del suo gregge, uno che ha un rapporto quasi-sponsale e quasi-paterno con la sua chiesa, come ci hanno sempre insegnato, o dobbiamo considerarlo piuttosto un funzionario, qualcosa di simile al direttore di una filiale? Ora, se il vescovo è più simile a un padre che ad un burocrate intercambiabile, un padre che decide di andarsene di casa può forse cavarsela dicendo ai figli che lo fa “per ragioni strettamente personali”? Il comunicato della diocesi di Solsona aggiunge che il vescovo, dopo un periodo di riflessione, discernimento e preghiera «ha espontáneamente presentado al Santo Padre su propia situación y su dimisión», il che sarà anche la pura verità, ma il fatto che questa “spontaneità” si sia sentito il bisogno di ribadirla due volte, in un testo di poche righe, fa pensare che anche a chi l’ha scritto suonasse poco credibile.

Perché dico che qui ci potrebbe essere uno scandalo ben maggiore di quello di un vescovo che si fa i video porno? Perché se fosse vero che l’ostilità del mondo, causata da prese di posizione del tutto coerenti con la dottrina cattolica, è ormai un motivo sufficiente per fare sì che un vescovo si dimetta (per quanto libremente ed espontáneamente, come no), senza che ciò provochi alcuna reazione nell’organismo ecclesiale, beh ci sarebbe da temere per la vitalità di quel corpo. E ci sarebbe da augurarsi, paradossalmente, che il giovane vescovo spagnolo (52 anni!) avesse pure lui qualche scheletro nell’armadio e le ragioni delle dimissioni fossero altre da quelle che sembrano. Se così fosse, ne sarei molto addolorato per lui, ma si tratterebbe “soltanto” di un altro caso che si aggiunge alla fila. Ma se invece davvero un vescovo della chiesa cattolica potesse essere impunemente indotto a dimettersi a causa delle pressioni subite da parte di poteri mondani “nemici della croce di Cristo”, e nessuno degli altri cinquemila e passa vescovi del mondo, col papa in testa, avesse niente da ridire in difesa della libertas ecclesiae… beh, francamente questo mi sembrerebbe molto più grave.

La libertas ecclesiae infatti è un valore supremo, da difendere ad ogni costo. Una chiesa che non difende più la propria libertà è una chiesa che non ha “il coraggio di dire io”. in faccia al mondo. Anzi, ancor meglio: non ha “il coraggio di dire noi”. Una chiesa così, a me pare che sarebbe messa peggio anche di una chiesa piena di vescovi fornicatori.

È andato tutto bene. E d’ora in avanti sarà tutta una festa. (#Dante, Purgatorio, canto XXVII, vv. 49-75)

23 lunedì Ago 2021

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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#Dante, festa di paradiso, piacere

Entrati nel fuoco (prima Virgilio, che «dentro al foco innanzi mi si mise», in mezzo Dante e dietro Stazio a chiudere la fila), è proprio come aveva detto il maestro: un gran bruciore, tanta sofferenza, ma nessun danno. «Lo dolce padre mio, per confortarmi, / pur di Beatrice ragionando andava, / dicendo: “Li occhi suoi già veder parmi”» (vv. 52-54). Preciso a come fa un babbo (o più verosimilmente la mamma) col bambino che ha un gran febbrone o deve tener duro in qualche prova dolorosa: favoleggia di qualcosa di bello, che lo incanta e non gli fa pensare al male.

Usciti dal fuoco, è come un altro mondo. Sta cambiando tutto, nella Commedia, ed è meraviglioso che accada così, in modo quasi inavvertito, senza fanfare. (Del resto Dio stesso, al profeta Elia, apparve non nella tempesta, non nel terremoto, non nel fuoco, ma «nel mormorio di un vento leggero»). Nella vita, le cose importanti accadono e noi lì per lì non ce ne accorgiamo neanche. Siamo ancora in viaggio, siamo ancora sul monte del Purgatorio, mancano ancora sei canti e mezzo per completare la seconda cantica, eppure con quell’ultimo sì che Dante ha appena detto è avvenuto un fatto che cambia per sempre il mondo. D’ora in avanti sarà tutta e solo una goduria, tutto sarà bello, tutto sarà piacevole, anche il contatto con il dolore e la durezza saranno edificanti perché illuminati da un’ultima letizia. (Così sarà, in particolare, delle lacrime che Dante tra non molto verserà, ad opera di Beatrice!). La «festa di paradiso», come la chiama lui, ha i suoi modesti anticipi terreni sin d’ora, in un’esistenza redenta dal sì alla grazia di Dio e perciò fiorita di doni.

Di bei piaceri, o di dolci bellezze se preferite, questo canto XVII è pieno come una scatola di cioccolatini. Scartiamoli uno alla volta, per gustarli meglio. Il primo è quello, ben noto a tutti gli amanti della montagna, di arrampicarsi, di accamparsi in quota e passare la notte sotto le stelle. Mai è stata cantata meglio, io credo, la bellezza di un pernottamento in parete (per giunta da uno che di alpinisimo non ne aveva mai fatto, perché ai suoi tempi non si faceva): «Dritta salia la via per entro il sasso / verso tal parte ch’io toglieva i raggi / dinanzi a me del sol ch’era già basso. // E di pochi scaglion levammo i saggi, / che ‘l sol corcar, per l’ombra che si spense, / sentimmo dietro e io e li miei saggi. // E pria che ‘n tutte le sue parti immense / fosse orizzonte fatto d’uno aspetto, / e notte avesse tutte sue dispense, // ciascun di noi d’un grado fece letto» (vv. 64-72).

“Andrà tutto male!”: il nostro viaggio sta per fallire. A meno che … (#Dante, Purgatorio, canto XXVII, vv. 1-45)

21 sabato Ago 2021

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#Dante, Agostino, Beatrice, caso serio, delectatio victrix, dimostrazione, persuasione

In tutta la Commedia non c’è un punto tanto drammatico come quello che dobbiamo affrontare adesso. È il momento della krisis, nel senso etimologico desunto dal linguaggio medico: quello in cui si discerne se la malattia evolve verso la guarigione oppure verso la morte. Questo passo è dunque decisivo quanto quello iniziale che aveva fatto uscire Dante dallo smarrimento della selva oscura; eppure, mentre tutti a scuola hanno letto il I canto dell’Inferno, chi mai ha in mente il XXVII del Purgatorio? Il fatto è che se le cose andassero male ora, tutto quello che è accaduto sin qui, a partire dalla scelta iniziale di mettersi in cammino, non conterebbe nulla. Tutto ciò che il pellegrino ha imparato (e noi dietro di lui); gli incontri fatti, i luoghi visti e meditati, le fatiche e i sacrifici affrontati, i pericoli scampati, la scuola di Virgilio e poi di Stazio … tutto per niente.

Purtroppo noi leggiamo la Commedia, ma anche il Vangelo, spoilerati (se mi passate la doppia ingiuria del neologismo barbarico e dell’uso attivo del participio passato): abbiamo già visto il film o ce l’hanno raccontato e sappiamo già che “va a finir bene”. Così non capiamo, davvero non capiamo, l’angoscia di Gesù quando, nell’imminenza del suo spaventoso macello, chiede al Padre: “se è possibile, passi da me questo calice”. “Ma tanto lo sapeva che poi sarebbe risorto!”, pensiamo noi sotto sotto, e così la sua verissima agonia – dramma autentico, cioè azione seria, agone per la vita o per la morte dall’esito non predeterminato – diventa inevitabilmente recitazione, teatro. Meditativo, devoto, sacro fin che si voglia, ma teatro. La stessa cosa rischiamo di farla ora: lo sanno tutti che Dante in paradiso ci arriva, quindi non c’è nulla di drammatico: “andrà tutto bene”. Perché mai dovremmo avere realmente paura di un fallimento, arrivati a un passo dal paradiso terrestre?

Perché nella vita tale possibilità è del tutto reale. Non si è garantiti di nulla, nella vita (di nulla di ultimo, beninteso: per le cose penultime o terzultime ci sono le polizze assicurative). Un’esistenza specchiata, un lungo e paziente allenamento al dominio di sé, la sequela intelligente e umile di un valido magistero spirituale, la custodia degli insegnamenti ricevuti e delle esperienze fatte … insomma tutti gli apprestamenti che un uomo prudente può fare per arrivare alla fine del suo viaggio sano e salvo, certamente sono di grande aiuto, ma non danno a nessuno la certezza che la barca non incappi in un fortunale e vada a fondo, magari proprio quando è in vista del porto.

È quello che sta per succedere qui e ora al nostro pellegrino e, vi prego, fate uno sforzo per prenderlo sul serio, se volete capirci qualcosa. Seguiamo il testo compitandone le terzine come se tenessimo il dito sotto ad ogni parola. Il sole sta per tramontare, appare un angelo di Dio che se ne sta «lieto» al bordo esterno della cornice, «fuor de la fiamma» e canta la beatitudine della castità (Beati mundo corde!). È una visione dolcissima, quasi già paradisiaca … Ma ecco ciò che dice: «Più non si va, se pria non morde, / anime sante, il foco: intrate in esso» (vv. 10-11). Due note telegrafiche: 1) a volte, nella vita, le prove più dure possono presentarsi con un volto mite. La difficoltà è oggettiva, non c’è bisogno di gridarla: l’angelo annuncia che bisogna entrare nel fuoco, ma lo fa col sorriso sulle labbra e chiamando «anime sante» i tre poeti. 2) Noi siamo abituati a pensare che nella vita ci sia sempre quello che dai film d’azione abbiamo imparato a chiamare il piano B. Molte volte, in effetti c’è, e Manzoni direbbe forse che «è una delle facoltà singolari e incominicabili della religione cristiana» aiutare l’uomo a trovarlo anche nelle peggiori situazioni; ma ciò non toglie che nella vita esista anche quell’altra situazione che Gesù chiama porta stretta o cruna dell’ago: il passaggio ineludibile, il caso serio che non ammette di essere evitato o surrogato in alcun modo. Qui non esiste alcun piano B. È questo il duro messaggio che porta, con soave indefettibilità, l’angelo della castità dell’ultima cornice.

Ecco l’effetto su Dante: «io divenni tal, quando lo ‘ntesi, / qual è colui che ne la fossa è messo. // In su le man commesse mi protesi, / guardando il foco e imaginando forte / umani corpi già veduti accesi» (vv. 14-18). Tutto, ma non questo! L’uomo prudente e saggio di cui sopra, persino l’asceta di lungo corso che si è allenato per una vita ad accettare ogni sacrificio, ha però un punto vitale a cui è attaccato, un dettaglio esistenziale magari piccolissimo ma che egli non può accettare di perdere. Tutto, ma non questo! L’unico sacrificio a cui non siamo disposti: ecco, è proprio e solo quello che viene richiesto. Visto che qui siamo nella cornice dei lussuriosi, per stemperare la tensione potremmo ricordare il giovane Agostino che, già incamminato sulla via della conversione, pregava Dio di renderlo casto, ma non subito (Conf. VIII, 7, 17): tutto, ma non questo. Ma c’è poco da sorridere: Dante è già sconfitto, sepolto vivo dal terrore («qual è colui che ne la fossa è messo»). Tutto, ma non gettersi nel fuoco, perché io di gente bruciata viva ne ho vista e quell’orrore è per me assolutamente insuperabile. D’un balzo, è come se il nostro poeta fosse tornato indietro di cinquantotto canti: quell’«imaginando forte» (bellissimo: vi eravate mai accorti della differenza che c’è tra “immaginare” e “immaginare forte”?) richiama direttamente l’onanismo mentale in cui egli si era impantanato nel II dell’Inferno («perché, pensando, consumai la ‘mpresa», v. 41). Possibile che, dopo tutta la strada percorsa, siamo di nuovo lì? Possibilissimo, perché è esattamente quello che sta succedendo. Andrà tutto male.

Quello che segue è il compendio più brillante e sintetico che io conosca di tutta la trattatistica sulla conoscenza e la persuasione. Le «buone scorte», cioè i suoi docenti professor Virgilio e professor Stazio, si volgono immediatamente verso di lui e Virgilio gli squaderna, nell’ordine, i seguenti argomenti:

  1. «Figliuol mio, / qui può esser tormento, ma non morte» (vv. 20-21). (Si noti il tono ancora distaccato, ancora un po’ cattedratico e condiscendente). Questo è more geometrico demonstratum: l’unica cosa di cui si deve aver paura è la morte, nel Purgatorio non si muore, noi siamo nel Purgatorio, ergo … Ergo niente. (Quando spiegavo questi versi a scuola, suggerivo sempre ai ragazzi di immaginare Dante a testa bassa che sta lì come stanno loro certe volte mentre i genitori gli fanno la predica, e di sentire una pausa di silenzio, piena di sospensione, tra un argomento e l’altro).
  2. «Ricorditi, ricorditi! E se io / sovresso Gerïon ti guidai salvo, / che farò ora presso più a Dio?» (vv. 22-24). Qui oltre a un po’ di pathos retorico («Ricorditi, ricorditi!», la reiterazione che incalza e mette fretta), c’è soprattutto il ricorso all’argomento “storico” dell’esperienza, la garanzia personale («se io / […] ti guidai salvo») e di nuovo il richiamo alla condizione oggettiva di “già salvato” che spetta a chi si trova in Purgatorio. Il maestro mette in gioco il suo prestigio, ma lo vedete Dante che continua a non fare un piega, lo sentite il suo silenzio arroccato in difesa?
  3. «Credi per certo che se dentro a l’alvo / di questa fiamma stessi ben mille anni, / non ti potrebbe far d’un capel calvo.» (vv. 25-27). Beh, qui siamo alla retorica pura. Abbandonato ogni sforzo di dimostrare, vanificato il ricorso al principio di autorità, Virgilio si riduce a voler soltanto persuadere e usa le volgari tecniche dell’imbonitore pubblicitario: come l’iperbole che ci convince ad acquistare quel capo d’abbigliamento che temiamo sia poco resistente solo perché il negoziante giura che “lei questo lo può portare per mille anni, gli può fare qualsiasi cosa e rimane così com’è!”. Chiacchiere che vanno bene per farci comprare un vestito o un’automobile, non per salvarci la vita.
  4. «E se tu forse credi ch’io t’inganni» (la sentiamo la malinconia, forse vera e forse finta ma comunque usata come forma di ricatto affettivo, di questo dubbio?) «fatti ver lei, e fatti far credenza / con le tue mani al lembo d’i tuoi panni. (vv. 28-30). Siamo tornati alla dimostrazione, ma non a quella deduttiva di prima, bensì a quella induttiva ed empirica del metodo sperimentale. Se non credi alla mia auctoritas, se rifiiuti di dar retta alla logica, fa’ la prova tu stesso: metti un lembo della veste nel fuoco e vedrai se si brucia oppure no. Nemmeno questo fa il discepolo, ormai catatonico.
  5. «Pon giù omai, pon giù ogne temenza; / volgiti in qua e vieni: entra sicuro!» (vv. 31-32). Qui siamo oltre la persuasione, all’ultima spiaggia di un uso meramente conativo della lingua. Sono parole che non significano niente, non dimostrano né convincono, vogliono solo “far fare”; conta il modo (cinque imperativi di fila!) non la semantica. È l’equivalente verbale di prendere uno per il braccio e provare a portarlo dove non vuole andare. O trascinare un mulo.

Risultato del dispiegamento di tutta questa panoplia argomentativa? «E io pur fermo e contra coscienza» (v. 33: da imparare a memoria). Ecco, in negativo, la formula definitiva della nostra libertà, nel suo aspetto più plumbeo e opaco, di inerzia resistente ad ogni stimolo e ad ogni movente. Perché libertà non è, come siamo portati a pensare noi, solo dinamismo, movimento, impeto magari maldiretto ma vivo. L’altra sua faccia, ineliminabile, è quella del suo rifiuto di estrinsecarsi nell’azione, della scelta di consumarsi nella stasi, dell’immobilità che sfida ogni appello della ragione. Questo verso, duro e pesante come un macigno, dice la verità triste che l’intellettualismo greco più ingenuo (quello di matrice socratica) non voleva vedere (illudendosi che gli uomini facciano il male solo perché non conoscono il bene), ma i pagani più smaliziati sì (video meliora proboque, sed deteriora sequor), e che faceva dire a Paolo «faccio non quello che voglio, ma quello che detesto» (Rm 7, 15).

«E io pur fermo e contra coscienza»: il viaggio finisce qui. È stato bello crederci, ma non è servito a nulla. Andrà tutto male. Ripeto, prendiamo sul serio questa cosa. Disperazione della salvezza, il peccato contro lo Spirito, che non può essere perdonato.

A meno che …

«Quando mi vide star pur fermo e duro» (il maestro contempla il suo fallimento educativo), «turbato un poco disse: “Or vedi, figlio: / tra Bëatrice e te è questo muro”» (vv. 34-36). Beatrice! Che è poi l’unica cosa che dovremmo dire, in fin dei conti, tutti noi genitori, nonni, maestri, professori, preti, formatori eccetera eccetera, ai nostri ragazzi quando stanno così, incrodati sulla parete senza andare né avani né indietro, «fermi e duri». Ragazzo, sono fatti tuoi, la vita è tua: «tra Beatrice e te è questo muro».

Quanto è stato drammatico e teso fino all’insopportabile fino a qui, tanto ora il racconto si scioglie in una piacevolezza ilare e perfino scherzosa, e l’effetto musicale per noi lettori è semplicemente delizioso: «Come al nome di Tisbe aperse il ciglio / Piramo in su la morte, e riguardolla, / allor che ‘l gelso diventò vermiglio; // così, la mia durezza fatta solla, / mi volsi al savio duca, udendo il nome / che ne la mente sempre mi rampolla. // Ond’ei crollò la fronte e disse: “Come! / volenci star di qua?”; indi sorrise / come al fanciul si fa ch’è vinto al pome» (vv. 37-45).

Delectatio victrix la chiamava Agostino, che se ne intendeva. Nel momento decisivo, i professori servono a poco: ci vuole un’amante.

Lo stato italiano.

20 venerdì Ago 2021

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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Mi pare che uno dei commentatori più acuti (se non addirittura il più adeguato) della cronaca politica e di certi aspetti del costume italiano sia Osho. La sua lettura dell’episodio del raduno di massa di Viterbo e del comportamento dell’autorità preposta al mantenimento dell’ordine pubblico, sintetizzata in questa immagine, è definitiva. Direi che non c’è nient’altro da aggiungere.

In paradiso Dante vuole andarci coi suoi amici. (#Dante, Purgatorio, canto XXVI, vv. 91-148)

18 mercoledì Ago 2021

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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#Dante, amicizia, poeti

Forse ho capito, in quest’ultima lettura, la “ragione affettiva” (e perciò anche effettiva ma segreta) di tutto questo affollarsi di poeti nella parte finale del purgatorio, che prima non mi aveva mai impressionato particolarmente, forse perché non faccio parte della categoria e me ne tengo anzi ad una certa rispettosa distanza.

«Son Guido Guinizzelli»: bastano queste parole per scatenare in Dante un’emozione entusiastica, tanto più intensa quanto più è tenuta dentro: «Quali ne la tristizia di Ligurgo / si fer due figli a riveder la madre, / tal mi fec’io, ma non a tanto insurgo, // quand’io odo nomar sé stesso il padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d’amore usar dolci e leggiadre; // e sanza udire e dir pensoso andai / lunga fïata rimirando lui, / né, per lo foco, in là più m’appressai» (vv. 94-102). Che Guinizzelli sia “il padre dello stilnovo” può essere una stanca formula scolastica che qualunque annoiato professore di liceo può ripetere in automatico, anche alla quinta ora e ad una classe di adolescenti totalmente indifferenti e ignari, senza che essa significhi nulla né per chi la pronuncia né per chi (non) la ascolta. Ma qui «il padre / mio» (senti la convenienza e la forza di questo enjambement?) «e de li altri miei miglior che mai / rime d’amore usar dolci e leggiadre» è detto tremendamente sul serio, e chi non sente il calore dell’affezione vuol dire che è sotto anestesia. Direte che è tutta maniera, che in fondo gli incontri coi poeti e tra i poeti nella Commedia sono sempre così: grandi complimenti, grandi manifestazioni di affetto, sin da quello primigenio, avvenuto ancor prima di cominciare il viaggio, là nella selva oscura (quando, se non ricordo male, non ci eravamo risparmiati qualche ironia verso i salamelecchi del poeta moderno al venerato maestro della classicità …). Direte anche che in realtà Dante quel poeta bolognese morto quando lui aveva undici anni non lo aveva mai conosciuto, e che si sa come vanno prese queste “figliolanze letterarie” tanto spesso vantate dagli scrittori.

Per quanto sia forte quel «padre» scolpito in fine di verso, che poi si inarca nel possessivo con cui si apre il verso dopo, credo che la chiave della risposta alle obiezioni, che anche a me sarebbero venute, stia soprattutto in quel che segue: «padre», Guinizzelli lo è non solo di Dante ma anche e soprattutto «de li altri miei miglior che mai / rime d’amore usar dolci e leggiadre». La compagnia dei poeti d’amore, l’amicizia di cui Dante sin dalla giovinezza ha voluto con tutte le forze fare parte (voluto e sognato: «Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io …»), una comitiva a cui ora vuol ascrivere anche chi in vita magari l’aveva avversata, come Cino da Pistoia (questo il senso di XXIV, vv. 55-63); chi, come appunto Guido Guinizzelli, era già morto e però le aveva preparate, quelle rime d’amore dolci e leggiadre; ed anche chi, come Arnaut Daniel che incontreremo tra un momento, aveva poetato in altra lingua e in altro luogo. Tutti insieme, tutti amici in quanto poeti, dagli antichi maestri come Stazio fino ai compagni di bagordi come Forese: tutti incamminati, realmente o idealmente per mezzo di Dante ,verso il paradiso … (Non tutti, in verità: di quell’altro Guido, il «primo de li miei amici»!, che forse «ebbe a disdegno» la grazia divina, Dante sa già che lo dovrà lasciare al suo destino; ed il silenzio su di lui, in questa lunga galleria che va dal XXI al XXVI, in cui, se avesse voluto, il modo di nominarlo l’avrebbe certamente trovato, dice tutto quel che c’è da sapere).

Tutti amici in quanto poeti, ho appena detto; ma bisogna aggiungere “poeti d’amore”, cioè autori di quelle rime dolci e leggiadre e di quei «versi d’amore e prose di romanzi» (v. 118) la cui intrinseca ambiguità e il cui mortale pericolo abbiamo imparato a conoscere sin dal V canto dell’Inferno. Quel retaggio, affettuoso e fatale, dobbiamo ancora finire di purificarlo, come vedremo presto, ma Dante lo ha portato fin qui anche per tutti gli altri, e lo porterà in paradiso anche per i suoi amici poeti. Tale sua funzione viene resa esplicita, nel modo più semplice ed umile, nel dialogo che segue: «Poi che di riguardar pasciuto fui, / tutto m’offersi pronto al suo servigio / con l’affermar che fa credere altrui. […] “Or se tu hai sì ampio privilegio, / che licito ti sia l’andare al chiostro / nel quale è Cristo abate del collegio, // falli per me un dir d’un paternostro» (vv. 127-130). Per il padre Guido, e per tutti gli amici poeti, questo può fare Dante, e solo lui: dire un padrenostro davanti a Dio.

Tutti amici in quanto poeti: un sogno puerile, un’ingenua utopia, dirà colui che conosce abbastanza le storie della letterura da sapere di quante invidie, gelosie, cattiverie e ipocrisie siano intrise le vicende biografiche dei poeti. E sia, nel mondo funziona così: del resto ci aveva già avvertito Oderisi da Gubbio («Ben non sare’ io stato sì cortese / mentre ch’io vissi», XI, vv. 85-86). Ma qui, alla fine del Purgatorio, quando di peccati da scontare resta solo la lussuria, i poeti tra loro possono ben essere veri amici, di quelli che godono di più della lode altrui che della propria. Ecco allora che Guido Guinizzelli, gratificato da Dante di un elogio del genere: «li dolci detti vostri, / che, quanto durerà l’uso moderno, / faranno cari ancora i loro incostri» (vv. 112-114), non se ne crogiola neanche un po’ ma glissa con grazia verso un altro poeta, che «fu miglior fabbro del parlar materno» (questa formula squisita, se non ricordo male, fu applicata da Eliot a Pound, in segno di gratitudine per avergli riscritto The Waste Land). E qui Dante autore, per non essere da meno, rende ad Arnaut un omaggio straordinario: lo fa parlare, unico personaggio di tutta la Commedia, nella propria lingua e non in italiano (facendoci anche sapere, già che c’è, che lui Dante, se avesse voluto, la Commedia sarebbe stato anche capace di scriverla tutta in provenzale!).

Io, da infimo scudiero, non posso fare altro che copiaincollare questo, per festeggiare anche musicalmente quel poeta che Dante stima tanto e io conosco così poco:

Esportare la #democrazia e importare il suo contrario.

17 martedì Ago 2021

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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democrazia, diritti umani, ius soli, mondo occidentale

Figurarsi se mi intendo di politica internazionale io, che esco malvolentieri di casa e non vado mai da nessuna parte. Tuttavia mi pare di aver capito che in questo momento tutti, ma proprio tutti, stiano dicendo che “non si può esportare la democrazia” e tutto l’insieme di quei “diritti umani” che ne sono il fondamento. Molti sostengono anzi che è del tutto sbagliato tentare di farlo e che bisogna prendere atto che quelli che noi chiamiamo “diritti umani”, attribuendo loro una valenza universale, sono in realtà “diritti occidentali”, sconosciuti e incomprensibili o quantomeno irrilevanti al di fuori del “nostro mondo”. Così per esempio ho sentito dire in modo perentorio ieri mattina, mentre facevo colazione, da un analista molto noto e stimato come Dario Fabbri in una trasmissione televisiva in cui nessuno degli altri ospiti ha avuto nulla da eccepire in proposito.

Va bene. Osservo però che sarebbe opportuno, se le cose stanno così, trarne almeno due conseguenze, che invece non mi sembra vengano abbastanza rilevate. La prima è che sarebbe meglio smettere di parlare del “mondo” come se ce ne fosse soltanto uno. In un certo senso, ovviamente è così, ma la retorica pubblica di questi ultimi decenni ha spinto in modo fortissimo perché tutti considerassimo sempre e solo questo aspetto. Causa ed effetto al tempo stesso della globalizzazione, come si usa dire. In un altro senso, non meno valido, di mondi ce ne sono però almeno due: il “nostro” (ammesso che questo noi significhi ancora qualcosa, il che è tutto da vedere) e quello degli altri. Ora, che gli “altri” esistano è una verità che la cronaca di questi giorni si incarica di ricordarci, se mai ce ne fosse bisogno. Trovo interessante, per esempio, che iin questo momento tutti, ma proprio tutti, parlino dei talebani dell’Afghanistan come “altri” da noi. È implicito, ma chiarissimo in tutti i discorsi che si sentono: i talebani sono “gli altri”. E gli “altri”, quando si presentano evidentemente come tali, comportano necessariamente un “noi” che siamo perlomeno sfidati a riconoscere (e a ritrovare se l’abbiamo smarrito). Detto in termini ancor più semplici, quasi infantili: nessuno è contento che siano tornati al potere, nessuno (o quasi) è indifferente. Perché? Evidentemente perché tutti li consideriamo “altri da noi”.

La seconda conseguenza, che nelle chiacchiere di questi giorni non ho sentito trarre (ma non è che le abbia seguite poi così tanto), mi pare che sia questa: va bene non esportare la democrazia, ma almeno evitiamo di importare il suo contrario. Se di mondi ce sono almeno due (in realtà sono probabilmente molti di più, ma non complichiamo le cose), e al nostro ci teniamo perché lo consideriamo migliore dell’altro, come mai da decenni non esercitiamo più nessuna difesa (non dico militare, ma politica, giuridica, sociale e soprattutto culturale) contro l’invasione di quell’altro mondo nel nostro? Per quale motivo le regole del discorso pubblico vietano ormai da tempo di porre in discussione l’apertura indiscriminata delle frontiere, la formazione all’interno delle nostre società di minoranze sempre crescenti che non condividono affatto il sistema di valori “occidentali” (a cui pure, fino a tempi recenti, noi attribuivamo valenza universale), la rinuncia a esigere, come condizione per la permanenza stabile nel “nostro mondo”, l’adesione ai principi su cui si regge?

Ricordo che qualche giorno fa, prima che l’Afghanistan irrompesse sulla scena (vediamo quanto ci sta!), qui nel Belpaese in cartellone c’era l’Olimpiade e, inebriati per qualche medaglia, eravamo tornati a baloccarci con lo ius soli. Nonostante il bel nome latino, lo ius soli è una scemenza insostenibile. Adottarlo vorrebbe dire infatti che “Italia” è una mera espressione geografica (come sosteneva, allora con delle ragioni, un ottimo cancelliere asburgico del XIX secolo) su cui insiste una struttura statuale di valore meramente formale. Facendo dipendere la cittadinanza dal luogo di nascita, lo ius soli prescrive, tanto per fare un esempio, che un talebanino figlio di talebani, se nasce anche per caso entro il perimetro dello Stivale e delle sue isole, ipso facto è un italiano. Ora, se chiunque può essere italiano, è evidente che nessuno lo è più, perché essere italiano non significa più nulla. In altre parole l’Italia non c’è più. Siamo sicuri di volere proprio questo?

Pensierino per la festa dell’Assunta

15 domenica Ago 2021

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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Assunzione, carne gloriosa e santa, corpo

Alla luce dell’Assunzione di Maria Vergine lo si vede meglio: per noi cristiani, nulla di ciò che riguarda il corpo è banale. Se oggi contempliamo il corpo glorioso della Madre di Dio, preservato dalla corruzione della morte, è anche per ricordarci che la carne dell’uomo, per Dio, è (destinata ad essere) «gloriosa e santa», come dice Dante con una iunctura poetica di inarrivabile forza. Quella carne che il Figlio non ha disdegnato di assumere, dal grembo di Maria.

Nei giorni scorsi qui si è scritto di sesso (il 12 agosto) e di vaccini (ieri). Rileggo ciò che ho scritto nella festa dell’Assunzione e lo capisco meglio. C’è un legame, nascosto ma reale; come un sottofondo oscuro che occulta la radice di tanti nostri errori: la banalizzazione del corpo. Non è mai banale “fare sesso” (come banalmente si dice); non è mai banale farsi inoculare qualcosa; ma non è banale neanche mangiare e bere, se si è uomini. Per questo san Paolo può dire: «sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio» (1 Cor 10,31). Chi di noi mangia in modo “glorioso”, cioè tale che Dio ne abbia gloria?

La banalità del corpo è forse il più grande peccato del mondo moderno.

Gli ultimi giorni dell’umanità.

14 sabato Ago 2021

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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#coronavirus, bambini, vaccinazione

Vedo che sta aumentando la pressione mediatica per sottoporre a vaccinazione di massa antiCovid anche i bambini, finora esclusi. Da ignorante quale sono, chiedo lumi ad un amico, già primario ospedaliero di pediatria con un curriculum professionale di alto livello, della cui onestà intellettuale e competenza scientifica mi fido assolutamente. Egli mi conferma il suo totale disaccordo da tale misura perché in una stima dei costi e dei benefici essa appare chiaramente svantaggiosa per i bambini, e si rammarica che le associazioni mediche di settore, che finora avevano tenuto questa linea, stiano ora cambiando orientamento per ragioni non scientifiche.

In sostanza ciò significa, dico io, che se si vogliono vaccinare i bambini non è per il bene dei bambini – a cui quel virus, a quanto pare, fa ben poco danno e che rischiano invece, per esempio, di andare incontro a miocarditi da vaccino 4-5 volte più frequentemente (o meno infrequentemente, se preferite) degli adulti – ma per il successo complessivo della campagna vaccinale, cioè in definitiva “per il bene della società”. La ragionevolezza della vaccinazione – conclamata nel caso degli adulti e degli anziani, per i quali, a mio avviso, se lo stato lo ritiene necessario sarebbe assolutamente auspicabile l’obbligo legale invece dell’orrendo pastrocchio giuridico del passaporto vaccinale – dipende infatti dalla sua vantaggiosità in termini di costi-benefici e quindi si riduce in funzione dell’età, mentre inversamente acquista maggiore rilevanza l’elemento imponderabile dell’incognita di effetti indesiderati a lungo termine, improbabili ma non impossibili. Insomma, per farla breve: si espone il bambino ad un potenziale sacrificio non per un suo maggiore vantaggio, ma per il bene degli adulti, e soprattutto dei vecchi.

Ecco, questa mi pare una cosa nuova. Si narra che un tempo, nei naufragi o in altre emergenze simili, la parola d’ordine fosse: Prima le donne e i bambini! Chissà se era proprio così: l’egoismo individuale (il cui motto è: si salvi chi può, cioè io se possibile) è sempre stato un fattore di cruciale importanza nella storia dell’umanità ed ha sempre premiato i forti a spese dei deboli. D’altro canto, la brutalità e il disprezzo verso i bambini che altre età, meno ipocrite della nostra, esibivano senza complessi, oggi farebbe inorridire la maggior parte di noi, che siamo quasi tutti “anime belle”. Quando Gesù prendeva un bambino, da una torma di mocciosi che gli apostoli (come si usava) stavano diligentemente cacciando via a pedate, lo metteva in mezzo e lo proponeva come modello a tutti quelli che volevano diventare suoi discepoli, sapeva benissimo quello che stava facendo: non una ruffianeria con la mascotte del villaggio, una trovata pubblicitaria per rendersi simpatico, come farebbe un qualsiasi politico (o papa) dei nostri giorni, bensì un gesto scandaloso ed eversivo, l’inizio di una rivoluzione culturale che ribalta la scala dei valori. Sceglie infatti colui che è nessuno, uno che di per sé non conta nulla e non vale nulla ma ha il solo esclusivo dovere di sbrigarsi a diventare adulto prima possibile, e dice a tutti che bisogna diventare come lui. Roba da matti. (Per dirla in modo sgradevole: il bambino era allora quello che oggi è il feto). Però anche in quei tempi brutali, e sempre, sin dall’inizio della (prei)storia umana, tale potente fattore di egoismo dei potenti (per lo più maschi adulti o vecchi) era controbilanciato dalla coscienza sociale universale che i bambini (e le donne che li partoriscono) sono il futuro dell’umanità. Senza donne e senza bambini, l’umanità finisce. Sacrificarsi era il compito degli anziani. Questo lo sapevano tutti, in tutte le epoche e in tutti i luoghi. Per questo si diceva “prima le donne e i bambini”.

Oggi invece – lasciando perdere le donne che, come è noto, in base alle leggi del discorso pubblico consentito non possono più esistere se non come percezione soggettiva – pare che le cose stiano cambiando. Un numero sempre maggiore di brave persone (spesso dotate di cani ma non di bambini) non batte ciglio all’idea che si possa sottoporre ad una vaccinazione di massa tutta la popolazione infantile non per il suo bene, ma per il bene degli adulti e soprattutto dei vecchi.

Ripeto che questa mi pare una novità culturale. E, se posso dirlo, una cosa da “ultimi giorni dell’umanità”.

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