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Chiusa la cella di Ugolino, epitome del male assoluto, e sfogato in qualche modo il nostro disperato senso di oppressione maledicendo i Pisani, il canto potrebbe anche finire qui. Ma sarebbe troppo corto (Dante alle proporzioni e all’ordine ci tiene), e soprattutto abbiamo ancora un paio di pratiche da sbrigare: Cocito, infatti, di zone ne ha altre due e dopo i traditori dei parenti e della patria dobbiamo ancora vedercela con i traditori degli ospiti e quelli dei benefattori. I quali, in punta di logica dantesca, secondo la tassonomia del suo inferno, sarebbero ancora peggiori degli altri due, poiché tradiscono un amore ancor più gratuito e puro (nel senso di non necessitato dai legami di sangue e di appartenenza civica). Ma che dire di più, anzi di meno, o di peggio, dopo il “grado zero” a cui siamo giunti con Ugolino?
Bisogna inventarsi qualcosa, e il nostro poeta non si tira indietro. La prima trovata è l’antipianto. «Noi passammo oltre, là ‘ve la gelata / ruvidamente un’altra gente fascia, / non volta in giù, ma tutta riversata. // Lo pianto stesso lì pianger non lascia …» (vv.91-99). Veniamo dal pianto postumo preannunciato da Ugolino (v.9: «parlare e lagrimar vedrai insieme»), da quello imposto con cui ha ricattato Dante e noi lettori (v.42: «e se non piangi, di che pianger suoli?»), da quello assente nella torre della fame (v. 49: «io non piangëa, sì dentro impetrai» e v.52: «Perciò non lagrimai né rispuos’io») e ora siamo in un posto in cui il pianto stesso impedisce di piangere. Il pianto è non-pianto. Siamo oltre.
Poi si sente un vento freddo, che non si sa da dove venga. Dante chiede spiegazioni al maestro, che risponde evasivamente: “tra poco vedrai tu stesso”. A questo punto, accorgendosi di loro perché ha sentito lo scambio di battute, «un de’ tristi de la fredda crosta» (v.109) chiede a quelle che per lui sono «anime crudeli» di dannati che stanno andando alla Giudecca, cioè a due presunti traditori dei benefattori!, di fargli un favore: liberarlo per delle croste gelate che gli serrano gli occhi sì che, almeno per un istante, possa godere del beneficio di piangere. L’assurdità della richiesta è oltre ogni limite, come ognuno può facilmente capire.
Dante non fa una piega e, con la naturalezza istintiva di un consumato truffatore, accetta immediatamente facendogli la più farlocca delle promesse: «Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna, / dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo, / al fondo de la ghiaccia ir mi convegna» (vv.115-117). L’altro abbocca e declina le generalità: è uno di Faenza, un frate godente (un altro!) di nome Alberigo Manfredi, di una famiglia che contava molto tra i guelfi della città, il quale una volta invitò a pranzo certi suoi parenti con cui ce l’avevaa morte e al momento del dessert li fece sbudellare. Niente di che: una cosa da mafiosi che abbiamo visto in tanti film e ormai non ci fa più effetto (Machiavelli, invece, andava in visibilio per questo genere di astuzie sopraffine). In effetti Alberigo ne parla in tono dimesso, quasi con un certo buonumore romagnolo, senza alcun orrore di se stesso: «i’ son quel da le frutta del mal orto, / che qui riprendo dattero per figo» (vv. 119-120. Per uno delle nostre parti equivale a dire: “sì, lo so, ho fatto una patacata; ma cosa vuoi farci, è andata così”).
Ma l’ospite è sacro. Così Dante per questi traditori si inventa una cosa che non sta in piedi da nessun punto di vista (logico, teologico, antropologico …) ma che poeticamente funziona eccome. A lui, che di cose di Romagna è esperto, non risulta affatto che Alberigo sia morto. Dunque? Dunque veniamo a sapere che «questa Tolomea» ha la particolarità che appena un uomo vivente commette il peccato nefando di tradire l’ospite, la sua anima ci finsce immediatamente ed è fottuta per l’eternità. Sembra vivo, ma è morto: nel corpo che rimane “apparentemente vivo” sulla terra si installa, al posto dell’anima umana, un demonio «che poscia il governa». Questo ci spiega Alberigo, aggiungendo che di zombie come lui al mondo ce ne sono molti altri: Branca Doria, tanto per dirne uno. Nelle parole con cui Dante reagisce a questa notizia troviamo, io credo, il cuore di un’invenzione inconsistente, ripeto, dal punto di vista di qualsiasi ragionamento di teologia morale ma poeticamente vivissima: «“Io credo”, diss’io lui, “che tu m’inganni; / ché Branca Doria non morì unquanche, / e mangia e bee e dorme e veste panni”» (vv. 139-141). Quest’ultimo verso è la sintesi geniale di ogni esistenza che sembra viva ma tale non è: «e mangia e bee e dorme e veste panni». Di quanti ci verrebbe la tentazione di dirlo! Non possiamo, ovviamente, giacché finchè l’uomo è vivo è anche libero e finché è libero può pentirsi del male e riaccogliere l’amore di Dio. Fino all’ultimo battito del cuore, l’ultimo atto respiratorio, l’ultimo barlume della coscienza. È gloria precipua di Dante averci illustrato questa verità, nel modo più affascinante e persuasivo, con i racconti dei pentiti dell’ultima ora, nel III e nel V canto del Purgatorio.
Ma qui c’è da dire un’altra verità, di ordine e rango diverso, ma pur sempre vera: il peccato mortale è una vera morte dell’anima. Chi lo commette, finché non ne risuscita con il pentimento e la richiesta del perdono a Dio, è veramente morto dentro, «e mangia e bee e dorme e veste panni». C’è qualcosa di agghiacciante, in questa diagnosi, che non dipende tanto dall’infausta prognosi quoad vitam aeternam (che, come abbiamo appena ripetuto, con buona pace di Dante non si può emettere finché il paziente è vivo) quanto dalla stessa constatazione di una condizione attuale di vita apparente. Ci viene in mente, con un brivido, la confidenza del diavolo circa Guido da Montefeltro, che «diede ‘l consiglio frodolente, / dal quale in qua stato li sono a’ crini» (XXVII, 116-117).
Uno ha il diavolo appollaiato sulle spalle e se ne torna la suo convento a dire le orazioni. Un altro è morto perché ha tradito «e mangia e bee e dorme e veste panni». Zombie. Chissà quanti ce n’è.
Post scriptum. Dopo aver detto a Dante tutto quel che voleva sapere e anche di più, frate Alberigo gli chiede di mantenere la promessa e aprirgli gli occhi: «E io non gliel’apersi; / e cortesia fu lui esser villano» (vv.149-150). Lo scatto della mossa dantesca è così brillante dispettoso e maligno che dovremmo resterne colpiti come da una puntura di vespa, ma ormai, scafati come siamo, direi che non ci fa molta impressione. Il canto finalmente finisce con una dissolvenza sul poeta che si allontana borbottando una maledizioncina contro i Genovesi, che è una sorta di ripetizione in sedicesimo di quella dedicata ai Pisani: «Ahi Genovesi, uomini diversi / d’ogne costume e pien d’ogne magagna, / perché non siete voi del mondo spersi?» (vv. 151-153).
Ora c’è Satana.