Cinquantasette anni sono certamente una distanza temporale ancora troppo piccola per poter inquadrare in una prospettiva storica fenomeni complessi, concatenazioni di eventi, personalità umane del passato. Forse però una prima riflessione critica sulle conseguenze dirette di un determinato atto si può cominciare ad abbozzarla. Il 6 agosto 1966 papa Paolo VI, con il motu proprio Ecclesiae Sanctae, stabilì, in buona sostanza, che tutti i vescovi dovevano andare in pensione al compimento del settantacinquesimo anno. Fu una decisione rivoluzionaria, nel senso che rompeva con la quasi bimillenaria tradizione della chiesa, in cui la missione episcopale non era mai stata concepita come “temporanea”, bensì come un’investitura “a vita” (come continua ad essere nelle chiese ortodosse, che infatti storsero, e tuttora storcono, il naso di fronte all’innovazione introdotta da noi latini).
La nuova norma fu presentata come una doverosa applicazione del decreto conciliare Christus Dominus, ma ciò è vero solo in parte. (Era un periodo, quello, in cui andava di moda sostenere che si stava attuando ciò che il Concilio aveva richiesto, anche quando non era proprio così: vedi il caso della riforma liturgica). Ecco infatti che cosa avevano chiesto i padri conciliari: «Poiché il ministero pastorale dei vescovi riveste tanta importanza e comporta gravi responsabilità, si rivolge una calda preghiera ai vescovi diocesani e a coloro che sono ad essi giuridicamente equiparati, perché, qualora per la loro troppa avanzata età o per altra grave ragione, diventassero meno capaci di adempiere il loro compito, spontaneamente o dietro invito della competente autorità rassegnino le dimissioni dal loro ufficio» (Christus dominus, 21). Il senso è chiaro: se un vescovo non ha più le forze, ma ha ancora il senno, gli si chiede, per il bene della sua chiesa, di rinunciare spontaneamente a portare un fardello che non è in grado di sostenere. In questo modo, i padri conciliari sciolgono i vescovi dalle sante remore che potrebbero tenerli attaccati alla croce di un incarico divenuto troppo pesante per timore di venir meno al proprio dovere, e li esortano a non cedere alle meno sante lusinghe di quell’amor proprio che rende tutti noi un po’ restii a farci da parte quando è giunta l’ora. Se invece capita che un vescovo perde il senno, allora ci penserà la “competente autorità”, cioè la santa sede, a fare quello che lui da solo non è in condizione di decidere. Ma in entrambi i casi il principio di ragion sufficiente, se così posso dire, di un fatto “abnorme” come la rinuncia all’ufficio di vescovo è l’incapacità (che il decreto conciliare con soave eufemismo curiale chiama “minore capacità”) di adempiere al proprio compito, non la mera età anagrafica.
Ecco invece che cosa stabilisce il motu proprio di Paolo VI: «Per rendere possibile l’esecuzione della prescrizione del n. 21 del Decreto Christus Dominus, tutti i Vescovi diocesani e gli altri ad essi equiparati per diritto sono vivamente pregati di presentare spontaneamente, non più tardi dei 75 anni compiuti, la rinuncia all’ufficio all’Autorità competente, la quale, esaminati tutti gli aspetti di ogni singolo caso, provvederà» (Ecclesiae Sanctae, 11). Qui l’eufemismo è in quel «vivamente pregati», reso d’altronde necessario dai problemi giuridici che una formula meno ipocrita avrebbe comportato (erano tempi, quelli, in cui il diritto canonico ancora contava), ma la sostanza del meccanismo che viene introdotto, come questo mezzo secolo di esperienza dimostra, è quella che ho detto: a 75 anni i vescovi devono dimettersi.
Che cos’è che non va, in tutto questo? Nella dottrina cattolica, almeno per quanto ne so io, i vescovi sono considerati successori degli apostoli. Ora la funzione apostolica, come stiamo vedendo dalla lettura degli Atti degli Apostoli, è primariamente (ed essenzialmente) martiriale: si tratta cioè, in primo (ed essenziale) luogo, di garantire la testimonianza integrale della verità di Cristo ed è dentro questa vocazione fondamentale che si devono intendere i diversi munera (docendi, sanctificandi e regendi) che la caratterizzano. Non è chi non veda come un mandato del genere non può che essere “a vita“: chi ne viene investito non può scrollarselo di dosso. Non si smette mai di essere “testimoni autorevoli” di Cristo. Per questo motivo, nella storia della teologia e della spiritualità cattolica, il rapporto tra il vescovo e la “sua” chiesa è sempre stato pensato nei termini di un legame “ontologico”: di qui il costante impiego di metafore come quella paterna e quella sponsale per descriverlo. Si dirà che tutto ciò in linea di principio non viene affatto negato dalle disposizioni di cui stiamo parlando, ma anche nella chiesa i dati di fatto contano più delle belle parole che si scrivono nei documenti. Se il vescovo è uno che, quando arriva a una certa età, prende su le sue cose, lascia l’ufficio e va in pensione, è inevitabile che lo si percepisca più come un impiegato che come un padre o uno sposo.
Per quanto bene intenzionata, presumo da preoccupazioni relative all’efficienza, la decisione di Paolo VI ha contribuito dunque, suo malgrado – in una misura che ora è difficile da determinare ma non è certamente irrilevante – a quella degradazione del ruolo dei vescovi che non è di certo l’ultimo dei problemi della chiesa di oggi. Può anche darsi che, quando essa fu presa, ci sia entrato anche il calcolo di poter procedere così ad un più rapido rinnovamento del ceto episcopale in senso “conciliare”, ma, se mai ci fu, un calcolo del genere alla lunga si è rivelato assai miope. Non mi soffermo ora sui “danni collaterali”, di carattere pratico, che ne derivarono: il fatto, ad esempio, che il vescovo “in scadenza” tende a diventare un’anatra zoppa, come dicono gli americani dei loro presidenti a fine mandato, perché tanto si sa che di lì a poco se ne andrà; oppure la crescente difficoltà di provvedere, in modo qualitativamente adeguato, alla continua necessità di dare alle chiese nuovi pastori, mentre parallelamente cresce l’esercito dei cosiddetti “vescovi emeriti”. Questi, infatti, sono aspetti di efficienza del sistema; quello che ho indicato sopra è più grave, perché produce uno slittamento nella concezione “effettiva” del ministero episcopale: più che successori degli apostoli, oggi i vescovi sembrano i dirigenti delle filiali di una multinazionale, preoccupati essenzialmente di non dispiacere alla direzione generale. Ciò dipende anche da una “asimmetria”, difficilmente comprensibile, che quella norma introdusse nella struttura della gerarchia ecclesiastica: mentre tutti i vescovi a 75 anni se ne devono andare, quello di Roma no. Tutti i vescovi sono ”a tempo”, perché si presume ope legis una loro ridotta capacità al compimento dei 75 anni; il papa invece è “a vita”, come se per lui non potesse mai accadere di diventare “meno capace” di adempiere al proprio compito in seguito all’avanzare dell’età. Era impregiudicata allora, infatti, e tale resta tutt’oggi, a più di mezzo secolo di distanza, la questione di come si debba procedere nel caso che il papa sia impedito dall’esercitare le sue funzioni.
Analoga contraddizione, in forma ancor più eclatante, si deve purtroppo registrare in una seconda decisione presa da quel santo pontefice qualche anno dopo. Con il motu proprio Ingravescentem Aetatem (un titolo che denuncia da solo la preoccupazione per i danni della vecchiaia che lo angosciava), Paolo VI il 21 novembre 1970 decise che i cardinali, al compimento dell’ottantesimo anno di età, dovevano perdere la principale delle loro prerogative, cioè il diritto di partecipare alla elezione del papa. Restano sì cardinali, ma diventano per così dire dei “cardinali dimezzati”, come il visconte di Calvino; anche in questo caso, ciò avviene automaticamente, a prescindere dal loro stato di salute fisica e mentale. In una norma del genere è ancor più difficile trovare una ratio; tanto più che, superata quella fatidica e del tutto arbitraria soglia anagrafica, essa vieta a chiunque di poter concorrere all’elezione del papa, ma non vieta a nessuno di poter invece essere eletto al soglio pontificio. Quindi da più di mezzo secolo, la chiesa cattolica va avanti con uno strano sistema in cui a 75 anni si è considerati inabili all’episcopato, ma si può diventare vescovo di Roma (e tutto il resto che c’è scritto sulla prima pagina dell’annuario pontificio: mica una bazzecola!) a 78, come Ratzinger, o a 76 passati, come Bergoglio. Come se non bastasse, mentre a 80 anni si viene tassativamente considerati non più in grado di “fare il papa” (nel senso di eleggerlo), si può invece tranquillamente fare il papa, nel senso di esercitare quel “mestiere” con tutte le fatiche che comporta, quando di anni se ne hanno 81 (come Montini) o 85 (come Wojtyla), 86 (come Ratzinger), o addirittura quasi 87, come l’attuale pontefice.
A questo proposito, una conseguenza particolarmente delicata di quella decisione di Paolo VI, non so quanto da lui prevista, è che alla fine ogni pontificato, a meno che non sia stato molto breve, il collegio cardinalizio che conta, cioè quello dei cardinli elettori, si trova ad essere composto in grande maggioranza da cardinali nominati dall’ultimo papa … E qui mi fermo, perché, come si dice: intelligenti pauca.