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  • La chiesa e la crisi degli anni sessanta.

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~ Vanitas ludus omnis

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Archivi Mensili: Maggio 2018

Ecclesia de pantomimo.

26 sabato Mag 2018

Posted by leonardolugaresi in Cristianesimo e spettacoli, Senza categoria

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eucarestia, Giovanni Paolo II, osceno, spettacoli

Devo al blog di Aldo Maria Valli (che non so se ringraziare!) la segnalazione di questo spettacolo. È una delle cose più tristi e oscene che abbia mai visto in tutta la mia vita. Non voglio lanciare accuse alle persone: può darsi che almeno alcuni dei vescovi che sono lì siano incolpevoli (vedo sulla destra il cardinale Woelki, che all’eucarestia sembra tenerci, con un’espressione talmente afflitta da far pensare che forse lui e magari qualcun altro sta subendo un’imposizione), ma la cosa è oggettivamente oscena, nel senso tecnico della parola.

Qualcosa sul contrasto fra chiesa e spettacolo credo di averla imparata in tanti anni di ricerche. Credo che qui non siamo di fronte soltanto ad una caduta di gusto e nemmeno alle prese con un problema morale. La questione è molto più radicale e riguarda il pericolo di un’autodissoluzione della chiesa. «Ecclesia de eucharistia» è una verità fondamentale della fede cattolica, ed è anche il titolo di un’enciclica di san Giovanni Paolo II (qui: http://www.vatican.va/holy_father/special_features/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_20030417_ecclesia_eucharistia_it.html) su cui i vescovi tedeschi dovrebbero essere costretti a fare dei lunghissimi esercizi spirituali.

Qui, come si vede, siamo già passati dalla ecclesia de eucharistia alla ecclesia de pantomimo. Lo spettacolo vuole rendere irrilevante il sacrifico eucaristico. Non può riuscirci sostanzialmente, perché l’ex opere operato resiste comunque, ma può impedirne la percezione da parte degli uomini. “Osceno” –secondo un’etimologia fantasiosa e non scientifica ma che si sente spesso citare e che ora impiego perché mi fa gioco – è ciò che si pone ob scaenam, contro o davanti alla scena, impedendo di vedere ciò che c’è da vedere, la verità di quanto accade. La penosa pantomima a cui i vescovi tedeschi si prestano a fare da comprimari ha esattamente questa funzione, come può constatare chiunque guardi il video: occultare il sacramento.

Ci troviamo a leggere un libro.

25 venerdì Mag 2018

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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don Giussani, von Balthasar

Con qualche amico abbiamo pensato di trovarci ogni tanto per aiutarci ad affrontare la lettura di un “libro imperdibile”, cioè di un testo che consideriamo veramente importante ma che magari non è proprio il tipo di lettura che si fa la sera prima di addormentarsi o mentre si è nella sala d’attesa del dentista. Una  presentazione del libro e un dialogo per mettere insieme impressioni e difficoltà di lettura possono essere un modo semplice per aiutarci a riprendere una pratica, quella della formazione culturale, che oggi è sempre più necessaria e allo stesso tempo sempre più difficile da mantenere.

Vedremo se funziona. Il primo incontro lo facciamo giovedì 7 giugno alle ore 21 a Cesena, in via Serraglio presso la sede di Assiprov. Chi è interessato e vuol partecipare è il benvenuto. Qui di seguito riporto una breve scheda di presentazione del libro con cui abbiamo scelto di cominciare.

Hans Urs von Balthasar, Luigi Giussani, L’impegno del cristiano nel mondo, trad.it. Milano, Jaca Book, 20173.

Il libro raccoglie un ciclo di conferenze tenute dai due autori nel 1971 ad un gruppo di universitari svizzeri di Comunione e Liberazione.

Non è, come si potrebbe pensare dal titolo, un libro su “cristianesimo e società” o “cristianesimo e politica”, un libro incentrato sull’etica, cioè su come il cristiano deve agire nella società e nella politica. Il fulcro del libro è nell’approfondimento della natura dell’impegno di Dio con il mondo e del rapporto teologico tra l’impegno di Dio e l’impegno del cristiano. Cioè nell’incontro tra due libertà. La rilevanza del tema della libertà, come osserva anche Carrón nella sua prefazione, è essenziale per comprendere il discorso dei due autori.

La libertà del cristiano, però, è costituita dalla libertà di Dio, si radica nella sua azione liberante: «La nostra libertà è inseparabile dall’essere stati liberati» (p.33). Questo aspetto è quello fondamentale: ciò di cui Balthasar e Giussani parlano è la radice e la “sostanza teologica” dell’agire cristiano. Ed è su questo che la lettura di questo libro può risultare perticolarmente importante per noi oggi, a distanza di quasi cinquant’anni. Il pericolo di separare i due piani, quello della teologia e quello della morale e della politica, è infatti oggi più grande che mai e lo si riscontra in entrambe le posizioni che si affrontano nel dibattito aperto nella chiesa: sia in quella di chi, giustamente preoccupato di difendere i principi della morale cristiana e, in senso più ampio, i contenuti e le strutture della civiltà o dell’antropologia cristiana, finisce però per correre il rischio di ridurre la fede nella persona di Gesù Cristo ad un presupposto da cui partire per concentrarsi su ciò che viene percepito come più determinante: i valori della cultura cristiana; sia nella posizione contraria di chi, proprio per evitare questo pericolo, vuole sì concentrarsi sul rapporto personale con Cristo e sulla corrispondenza del cuore all’incontro con lui, correndo però il rischio di rinunciare di fatto ad affrontare – nell’esperienza, il che significa attraverso l’esercizio del giudizio (senza del quale non si dà esperienza) la realtà concreta del mondo, in tutta la complessità dei suoi fattori.

Invece il punto a cui questo libro ci richiama è proprio quello dell’unità, che non può che essere teologica, tra l’impegno di Dio verso il mondo – che è Grazia, atto assolutamente libero e gratuito di Dio il quale, a partire dalla Creazione sceglie irrevocabilmente di coinvolgersi con il mondo – e la risposta, altrettanto assolutamente libera, del cristiano, che accetta di essere “preso dentro” l’iniziativa di Dio e di diventarne lo strumento.

È solo nell’intima connessione con l’iniziativa di Dio («permanere nella sorgente» è la bella immagine di Balthasar) che ogni divisione ed antitesi si ricompone in unità: a partire da quella per cui è vero che Dio ama, vuole salvo e in certo modo si rivela a tutto il mondo ben al di là dei confini visibili della chiesa (qui Balthasar riprende criticamente la nozione di “cristianesimo anonimo” di Rahner), ma questo non significa affatto che la chiesa diventi superflua perché Dio sceglie un popolo per portare a tutti la salvezza. Allo stesso modo, anche la contrapposizione tra persona e comunità è tolta dal fatto che Dio sceglie un popolo, ma il suo rapporto con il popolo passa attraverso il rapporto con le singole persone (Abramo, Mosé, Davide e soprattutto Maria). Lo stesso può dirsi per altre apparenti antinomie che vengono toccate nel libro, come quella tra Legge e libertà, quella tra contemplazione e azione e così via.

Qui mi pare che ci sia una chiave di lettura fondamentale per comprendere il testo. In questa prospettiva, Balthasar e Giussani dicono cose illuminanti su molti temi che potremo riprendere insieme quando ci incontreremo, come ad esempio il ruolo della chiesa nel mondo (pp.43-45; 92-94) o il problema del rapporto tra natura e grazia (pp.68-71).

Data la difficoltà del testo, penso che sia molto utile se chi lo ha già letto o lo sta leggendo indichi i passi che desidera che vengano ripresi e possibilmente chiariti attraverso il lavoro comune. Per lo stesso motivo, è opportuno che chi è intenzionato a leggerlo se lo procuri prima dell’incontro, in modo da averlo sottomano quando ci lavoreremo insieme.

A proposito di curriculum.

24 giovedì Mag 2018

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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Si è molto parlato in questi ultimi giorni del curriculum di 28 pagine (!) del professor Conte, presidente del consiglio dei ministri incaricato, che ha fatto sorridere per l’ipertrofia, e anche per qualche millanteria, come quella dei pluriennali perfezionamenti estivi («per periodi non inferiori a un mese») presso la New York University, che pare siano consistiti nel semplice accesso alla biblioteca di quell’ateneo. Non mi interessa molto il caso personale: certo, non è cosa che ispiri particolare simpatia (e tanto meno ammirazione) per questo nuovo personaggio che si affaccia alla ribalta della politica nazionale, ma le aspettative che avevamo non erano alte e i problemi che ci sovrastano sono ben più gravi.

Vorrei invece far notare che il curriculum “gonfiato” (ma anche quello lardellato di qualifiche effettivamente riscontrabili “sulle carte”, ma volte soprattutto a impressionare) è un costume accademico che è il frutto di un modo di concepire la valutazione dell’attività scientifica e la caratura intellettuale e culturale dei ricercatori profondamente degenerato, che si è ormai imposto dappertutto e detta legge. Si tratta di un sistema essenzialmente quantitativo, basato sulla misurazione dei prodotti ma incapace di verificarne la qualità. Per dirla tutta, un sistema che guarda all’apparenza e non alla sostanza.

Ormai ci siamo assuefatti e lo consideriamo come un dato di natura, immodificabile. Ma Dio fa l’opposto. Nella “valutazione comparativa per un posto da re d’Israele”, i cui atti si leggono in 1 Sam 16, la scelta del candidato con meno titoli (e che per giunta non si era nemmeno presentato al concorso) Lui come presidente della commissione la motiva così al segretario Samuele: «io non guardo ciò che guarda l’uomo. L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore» (1 Sam 16, 7-8). (Direte che gli è andata bene perché allora non c’era il TAR e nessuno ha potuto fare ricorso, e ve ne do atto).

Noi invece, sempre più incapaci di giudicare, ci limitiamo a misurare (e tante volte non sappiamo fare nemmeno quello). E allora, sotto a moltiplicare i corsi, i diplomi, le certificazioni, i titoli, le pubblicazioni … vere o fasulle che siano.

Che Conte, per contare, allestisca un curriculum di 28 pagine mettendoci dentro anche le volte che è stato in biblioteca a New York è un epifenomeno forse trascurabile di questa malattia dello spirito, ma potrebbe forse ispirarci qualche spunto di autocritica non banale.

P.S. Un tratto aggiuntivo molto italiano, e a mio modo di vedere abbastanza grottesco, della vicenda è poi quello dell’esterofilia. New York, New York! (Anche se uno si occupa di diritto privato italiano, cioè di una disciplina che, presumibilmente, ha i suoi principali centri di studio in Italia). Ma vuoi mettere? D’altra parte, ormai ci siamo ridotti a vedere convegni, poniamo di italianistica, che si svolgono in Italia e con un pubblico in gran parte italofono, in cui studiosi italiani,  tengono relazioni in inglese (!) perché così “valgono di più”!

Dottrina vs pastorale? Una divisione “diabolica”.

21 lunedì Mag 2018

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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cultura, dottrina, giudizio, Padri, pastorale, von Balthasar

Un amico mi manda una pagina di Avvenire di ieri che riporta la prefazione dell’arcivescovo di Bologna mons. Zuppi all’edizione italiana di un libro del gesuita James Martin, intitolato Un ponte da costruire. Una relazione nuova tra Chiesa e persone LGBT.

Non entro nel merito del libro e della questione di cui si occupa. Trovo che oggi nella chiesa se ne parli continuamente e spesso senza costrutto, con l’effetto di dare l’idea di una chiesa “omossessionata”.

Voglio invece dire qualcosa su una frase contenuta nella prefazione di mons. Zuppi che mi ha colpito perché, a mio parere, tocca il vero problema della chiesa. La isolo dal contesto perché la prendo come formula emblematica di un certo modo di pensare oggi molto diffuso (senza perciò attribuirlo in particolare a lui).  Scrive ad un certo punto l’arcivescovo di Bologna: «Nessun autentico cammino di crescita spirituale e morale può prescindere dalla verità del Vangelo e della dottrina; ma la carità e la verità evangelica nella pastorale esigono la disponibilità e la capacità al dialogo».

La prima parte è “divina”, la seconda pure; il ma che le congiunge è “diabolico”. Infatti nella prima affermazione, se viene rettamente intesa, c’è già tutto il cristianesimo: «Nessun autentico cammino di crescita spirituale e morale può prescindere dalla verità del Vangelo e della dottrina». Si potrebbe (e forse si dovrebbe) mettere il punto. Infatti, se la chiesa annuncia e testimonia questo agli uomini, credendoci veramente, ha già compiuto per intero il suo servizio di amore al mondo. Che «la carità e la verità evangelica esigano la disponibilità e la capacità al dialogo» è vero sempre: appartiene intrinsecamente alla dottrina, non è un’aggiunta della pastorale (anzi, se fosse tale sarebbe falsa). Dico che quel ma è diabolico perché introduce una divisione/opposizione che non c’è e svela un’idea di “verità del Vangelo e di dottrina” che non è quella della grande tradizione teologica dai Padri a san Tommaso.

Come scrive molto bene Hans Urs von Balthasar, «nel senso della Rivelazione divina non c’è affatto alcuna autentica verità, che non si debba incarnare in un atto, in un modo di condursi, a tal punto che l’incarnazione di Cristo diviene criterio di ogni effettiva verità, e che “camminare nella verità” è la modalità in cui i credenti sono in possesso della verità. […] Noi dunque non ci stupiano che nei primi secoli l’unione personale tra il ministero del dottore e quello del pastore costituisca la normalità. […] In breve, queste colonne della Chiesa sono personalità totali: ciò che insegnano lo vivono in un’unità così diretta, per non dire nativa e ingenua, che il dualismo tra dogmatica e spiritualità, tipico del periodo successivo, è loro ignoto». Questa unità abolisce anche l’artificiosa distinzione tra un “dentro” e un “fuori” della chiesa, che oggi invece tanto ci affligge (e che, detto per inciso, sottende anche all’infelice titolo del libro di Martin). «Se un Ireneo, un Basilio, Gregorio di Nazianzo e Agostino parlano con i loro avversari, non lo fanno fermandosi quasi in un atrio della teologia, ma entrano nel sacrario del suo cuore. Non possono rispondere altrimenti che con la pienezza e profondità della Rivelazione nel suo centro. Per parlare verso “l’esterno” non assumono altro atteggiamento da quello preso là dove parlano verso “l’interno”» [H.U.von Balthasar, Teologia e santità, in Verbum caro, trad.it. Brescia 1975, pp.201-202].

Il problema fondamentale è che per troppi di noi (ma forse, se siamo onesti, dovremmo dire per tutti noi, in misura più o meno grande) la dottrina non è più cultura. Cioè non è più giudizio che investe, anima, dà senso e gusto alla vita. Senza giudizio non c’è esperienza, quindi non c’è vita autenticamente umana. Per questo è assurdo ed esiziale il leit-motiv di una certa linea ecclesiastica che in sostanza non fa che ripetere: “la dottrina non si tocca, ma la vita è un’altra cosa e la pastorale deve adeguarsi”.

Più cristianesimo, per il bene dell’economia. (Parole cristiane, 4)

17 giovedì Mag 2018

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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economia, Tertulliano

Concludiamo il nostro piccolo percorso su Tertulliano “economista” (le puntate precedenti sono uscite il 3, il 6 e il 12 maggio). Nel capitolo 43 dell’Apologeticum, confutando la tesi che i cristiani siano infructuosi negotiis, egli ammette che sì, ci sono dei settori dell’economia che soffrono, e molto, per colpa loro, ma quali sono? A non averli tra i loro clienti sono «i lenoni, i corruttori, i mezzani; quindi i sicari, gli avvelenatori, i maghi; poi anche gli aruspici, gli indovini, gli astrologi» (43, 1). Tutta gente, diremmo noi, che non rilascia fattura (anche se i maghi le fatture dicono di farle e come!); tutto lavoro “in nero” (e anche qui la polisemia del termine, che può riferirsi sia all’evasione fiscale che alla sostanza criminale delle attività, è istruttiva). A tutti costoro, i cristiani non fanno guadagnare nulla, ma «his infructuosos esse magnus est fructus» (43,2), non farli guadagnare è un grande guadagno. Per tutti.

Nei nostri termini, il problema potrebbere essere posto così: si può razionalmente sostenere che attività economiche come il traffico di stupefacenti, la prostituzione e la pornografia, il gioco d’azzardo e simili – che pure sviluppano un enorme giro di affari e quindi di fatto contribuiscono in misura cospicua al sistema mondiale di produzione della ricchezza, a prescindere dal fatto che siano o meno conteggiati nelle statistiche ufficiali – sono un bene per l’economia?

Eppure, facendo un ragionamento meramente quantitativo, se tutti facessero come i cristiani (i veri cristiani, intende Tertulliano, quelli che fanno sul serio), qualcosa, anzi molto verrebbe a mancare ai conti: il malaffare significa comunque posti di lavoro, redditi, consumi … Chi ripaga queste perdite?

Tertulliano invita i suoi interlocutori pagani a guardare all’altro piatto della bilancia: che cosa apporta al sistema economico la presenza dei cristiani? Lasciamo pur stare le preghiere al vero Dio, perché chi non ci crede non dà ad esse nessun “prezzo”. (Attenzione: questo implicitamente significa che invece, per chi crede, la preghiera ha un valore, anche economico e politico! Pensiero stupendo, profondamente trasgressivo e urticante per la mentalità corrente, da brandire come arma contundente contro l’ottusità del pregiudizio anticristiano). Ma quanto siete disposti a stimare il fatto di avere nella società «delle persone da cui non avete nulla da temere?» (43,2).

Ecco il “valore aggiunto” che la presenza dei cristiani apporta alla società, e «il vero e grande danno per lo stato (detrimentum rei publicae) che nessuno considera» è proprio il fatto che questa presenza viene repressa e combattuta (44,1). Il cristianesimo conviene, anche a chi non è cristiano. Prosegue Tertulliano: «Il carcere rigurgita sempre dei vostri, è dei vostri che le miniere risuonano di sospiri, è dei vostri che sempre si ingrassano le belve, è dai vostri che gli organizzatori degli spettacoli reclutano le greggi di malfattori che essi nutrono. Lì non c’è nessun cristiano, se non soltato per questo, per il fatto di essere cristiano; altrimenti, se c’è anche per un altro motivo, non è più cristiano» (44,3).

Il cardinale Kasper e l’uso corretto delle fonti.

14 lunedì Mag 2018

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eucarestia

Vorrei suggerire a chi avesse letto l’intervista al cardinale Walter Kasper sul problema della comunione eucaristica ai protestanti pubblicata da Vatican Insider col titolo «Il Concilio e due encicliche ammettono casi di eucaristia ai protestanti» (qui: http://www.lastampa.it/2018/05/13/vaticaninsider/il-concilio-e-due-encicliche-ammettono-casi-di-eucaristia-ai-protestanti-Lw2EujZtAqdCqK4UpaM6IP/pagina.html), di leggere anche l’articolo di don Nicola Bux pubblicato sulla Nuova Bussola Quotidiana (qui: http://www.lanuovabq.it/it/intercomunione-il-card-kasper-trucca-le-carte).

Non entro nel merito dei molti temi e problemi toccati nell’intervista del cardinale, perché la questione è complessa e delicatissima e ci vorrebbero competenze che io non ho, però sul piano del metodo scientifico un rilievo mi sento in dovere di farlo. Il cardinale cita a sostegno della sua argomentazione un passo del Decreto conciliare sull’ecumenismo Unitatis Redintegratio (al n.8) e due encicliche di san Giovanni Paolo II, la Ut unum sint e la Ecclesia de Eucharistia (di qui il titolo altisonante e ad effetto dato dalla testata), ma il punto è che l’uso che egli fa delle fonti è scorretto, nel senso che fa dire ai testi ciò che essi, con tutta evidenza, non dicono. Chi si prenda la minima briga di leggerli in originale (io l’ho fatto) non può non vederlo. In particolare, è del tutto chiaro che il capitolo 8 del decreto conciliare parla della «unione nella preghiera», non della celebrazione del sacrificio eucaristico.

Questa disinvolta interpretazione (o manipolazione) dei testi del magistero, da parte di un cardinale e di un rinomato teologo come Kasper, fa pensare.

Ascensione.

13 domenica Mag 2018

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Ascensione, Chiesa

Dalla colletta della messa di oggi: «nel tuo Figlio asceso al cielo
la nostra umanità è innalzata accanto a te,
e noi, membra del suo corpo,
viviamo nella speranza
di raggiungere Cristo,
nostro capo, nella gloria».

Con il capo in cielo e il resto del corpo in terra, la chiesa non starà mai comoda.

Il cristianesimo è scomodo.

Quanto valgono i cristiani per il PIL? (Parole cristiane sull’economia, 3)

12 sabato Mag 2018

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economia, Tertulliano

Proseguendo nella sua risposta all’accusa rivolta ai cristiani di essere infructuosi negotiis, cioè improduttivi per l’economia, nel capitolo 42 dell’Apologeticum Tertulliano riconosce che certe cose loro non le fanno: non partecipano alle feste religiose pagane e agli spettacoli e di conseguenza non sostengono le spese relative. Ma questo non si traduce affatto in un danno per il sistema economico, perché anche i cristiani consumano, in altro modo e per altri fini, i beni che vengono impiegati per il culto e per i ludi. Non si mettono corone sul capo (come si faceva nelle cerimonie pagane), ma i fiori li comprano ugualmente; non acquistano incenso da bruciare in onore degli dèi, ma ne usano forse di più e a più caro prezzo (pluriores et cariores) per i loro riti funebri, e così via.

In termini quantitativi, dunque, i conti tornano, ma è la qualità della spesa che fa la differenza. «Certo – voi dite – ogni giorno le entrate dei templi diminuiscono (templorum vectigalia cottidie decoquunt): quanto pochi sono ormai coloro che vi gettano delle monete! Non abbiamo risorse sufficienti per dare soccorso sia agli uomini che ai vostri dèi mendicanti (Non enim sufficimus et hominibus et deis vestris mendicantibus opem ferre), e non crediamo che si debba elargire ad altri che a quelli che domandano. Insomma, che Giove tenda la mano e riceva, dato che dispensa più la nostra carità distribuita nel territorio che la vostra religione [chiusa] nei templi (plus nostra misericordia insumit vicatim quam vestra religio templatim)» [42,8].

Formidabile. E io direi inappuntabile anche dal punto di vista della moderna teoria economica (ma non me ne intendo, e se c’è qualche competente, tra i lettori di questo piccolo blog, che vuole correggermi o darmi una mano, ben venga). Poiché le risorse sono limitate, ciò che veramente conta è come sono allocate: certo anche i versamenti al tesoro dei templi entrano nel calcolo del PIL, ma il loro moltiplicatore keynesiano è praticamente nullo perché in gran parte vengono tesaurizzati e restano inerti; invece “l’economia di carità” che le comunità cristiane stanno inaugurando – con una distribuzione di aiuti economici diffusa sul territorio (vicatim vuol dire quartiere per quartiere) ed elettivamente diretta alla fascia più bassa della popolazione, che a quel tempo non era protetta da nessun intervento di welfare specificamente rivolto ad essa – produce effetti molto più positivi sul sistema economico nel suo complesso, perché incrementa, direttamente o indirettamente, i consumi dei poveri, con un effetto di moltiplicazione sicuramente molto più elevato.

Subito dopo, Tertulliano replica ad una obiezione: «Sì, ma tutte le altre imposte [si intende: quelle che gravano sui beni e servizi di cui voi non usufruite] vengono danneggiate (Sed cetera vectigalia laeduntur)» [42,9]. Attualizzata, potrebbe suonare così: «Eh, vabbé, ma se non giocate d’azzardo, non fumate, non bevete superalcolici eccetera eccetera, lo stato ci rimette». Di nuovo, la sua risposta fa leva su una considerazione che  superficialmente pare quantitativa, ma che, a ben vedere, implica una concezione qualitativa (molto moderna, direi) delle grandezze economiche. Infatti Tertulliano controargomenta che lo stato dovrebbe piuttosto ringraziare i cristiani che pagano le tasse onestamente e si astengono dal frodare gli altri, «sicché, se si calcolasse quanto va perduto per le entrate a causa della frode e delle menzogne delle vostre dichiarazioni, il conto potrebbe tornare facilmente, dato che la lamentela riguardante un solo aspetto viene compensata dalla sicurezza delle altre entrate (Sufficit si gratias Christianis agunt ex fide dependentibus debitum, qua alieno fraudando abstinemus, ut, si ineatur, quantum publico pereat fraude et mendacio vestrarum professionum, facile ratio haberi possit, unius speciei querela compensata pro ceterarum rationum securitate)» [42,9]

In altre parole: quanto vale, per il PIL di una nazione (e ancor di più per un indicatore economico che meno rozzamente desse conto del benessere economico, includendo la qualità della vita della popolazione), il fatto che una parte dei soggetti economici in essa presenti agisca in modo moralmente più giusto a causa della sua fede cristiana? Al di là di un mero conto di perdite e profitti per il fisco, quanto vale per l’economia generale la ceterarum rationum securitas, cioè la stabilità e la razionalità dei comportamenti economici che una “vita buona” cristianamente intesa porta con sé?

[Penultima puntata. Nei prossimi giorni finiamo]

In Olanda c’è un cardinale.

09 mercoledì Mag 2018

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eucarestia

In Olanda, una terra in cui – a quando pare – il cristianesimo è ormai quasi sparito, c’è un cardinale. È l’arcivescovo di Utrecht Wilelm Jacobus Eijk, che nei giorni scorsi ha preso pubblicamente posizione sulla delicatissima questione dell’ammissione dei protestanti all’eucaristia, sollevata dalla conferenza episcopale tedesca e –a quanto pare – sostanzialmente non risolta dalla Santa Sede. La sua dichiarazione si può leggere qui:

http://lanuovabq.it/it/il-papa-non-puo-ammettere-lintercomunione

Sono parole durissime, addirittura sconvolgenti, e ci sarebbe da stupirsi del fatto che abbiano sollevato relativamente poco scalpore e non ci sia stata – a quanto pare – alcuna risposta dal Vaticano. Eppure quel che egli dice è gravissimo, sia che abbia ragione sia che abbia torto.

In natura, se un corpo non dà alcun segno di reazione neppure ad una provocazione così forte, c’è da temere che non sia più vitale. Siamo già al rigor mortis?

Intanto, nel nostro piccolo, quel che possiamo fare noi è di riflettere attentamente sulle parole del cardinale, che sono parole “pesanti”: non uno sfogo, ma il frutto di una dolorsa meditazione.

Un libriccino appena uscito.

07 lunedì Mag 2018

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Eccolo. Filone, Realtà e metafora dello spettacolo

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