Che cos’era il matrimonio indissolubile, l’unico esistente in Italia fino al 1970 (io c’ero e me lo ricordo)? Non una cosa naturale, un “oggetto mondano” come tanti altri, piuttosto “una cosa dell’altro mondo”. Anche se non sembrava. Una cosa dell’altro mondo in questo mondo, avrebbe detto don Giussani. Non un prodotto della natura, perlomeno della natura lapsa, corrotta dal peccato originale, che è l’unica storicamente conosciuta, ma un impegnativo e scomodo frutto della grazia.
Qui per spiegarlo bene ci vorrebbe ben altra testa e ben altra penna che la mia: faccio quello che posso, tagliando i concetti con l’accetta e formulandoli alla buona. Il punto fondamentale è che noi e Dio la pensiamo molto diversamente sull’uomo. Lui ne ha un concezione stratosferica (“divina” sarebbe più corretto dire), noi un’idea molto bassa, direi terra terra. Quando Gesù Cristo, il Figlio di Dio, che è anche il vero uomo (il “secondo Adamo”: cfr. Rom 5, 14), rivela la verità sull’uomo, consegna ai suoi un insegnamento nuovo, inusitato e sconvolgente: «avete inteso che fu detto … ma io vi dico». Noi non siamo affatto convinti, ma il punto, di nuovo, è che lo sa meglio Lui di noi chi siamo e come siamo fatti, per la semplice e inoppugnabile ragione che ci ha fatti Lui, per giunta «a sua immagine e somiglianza». Quindi: Lui ha ragione e noi abbiamo torto. Fine del discorso: essere cristiani significa questo. Fra tutte le verità che Cristo insegna su di noi, forse la più incredibile è quella che riguarda la sessualità. Noi, di nostro, avremmo una concezione piuttosto animalesca della faccenda (dove, per dirne una, il coito non è che «ginnastica coronata da un grugnito» come diceva Cioran), benché non sappiamo bene come spiegarci le sue evidenti complicazioni, che sono tipiche dell’uomo e ignote agli animali (metà della letteratura universale parla del rapporto tra sesso e amore, senza venirne a capo); Dio invece ne ha una stima altissima, così impegnativa che ne faremmo volentieri a meno. Ci aveva già detto che «creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (Gen 1, 27: il versetto oggi più insopportabile della Bibbia, quello che fa dar di matto tanta gente disturbata) e anche che «per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne» (2, 24: pure qui oggi sono in tanti a digrignare i denti). Ma Gesù ci ha messo il carico da novanta: «“Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto”. Gli domandarono: “Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di ripudiarla?”. Rispose loro: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli; all’inizio però non fu così. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima, e ne sposa un’altra, commette adulterio”» (Mt 19, 6-9). Altro che legge naturale scolpita nelle coscienze e nei cuori che il diritto positivo deve solo ricalcare: persino Mosè, che era Mosè!, dovette acconciarsi a tener conto del cuore indurito dell’uomo e normare un matrimonio “divorziabile”. Ma ora Gesù comanda di fare una cosa dell’altro mondo (tant’è che i discepoli ne traggono la ragionevole conclusione che se è così «non conviene sposarsi»).
Ereditando un mandato del genere, che poteva fare la Chiesa, se non mettersi d’impegno per implementare quella cosa dell’altro mondo in questo mondo? E lo ha fatto: ci ha messo secoli e secoli, avrà commesso un milione di sbagli o perfino di delitti nel farlo, ma lo ha fatto. Ha inventato una cosa che non si era mai vista: il matrimonio cristiano. Un sacramento, non un contratto; una cosa che riguarda Dio e noi, non un affare tra uomini (maschi e femmine) e basta. Una cosa essenzialmente diversa da tutto quanto c’era prima, anche dal matrimonio del diritto romano, di cui pure la Chiesa si è giovata per dotarsi degli strumenti canonistici che le sono serviti nel corso dei secoli. La materia umana con cui ha dovuto lavorare era quella che era, carnale, greve e informe e plasmarla è stato duro. Ancora nella seconda metà del IV secolo, per fare un esempio arcinoto, ecco una mamma cattolicissima come santa Monica, che quando il suo amato “figlio di tante lacrime” va a convivere con una donna (senza sposarla, ovviamente) e mette su una famiglia di fatto (con tanto di prole) è tutta contenta perché così almeno lo scapestrato non va a combinare guai in giro. Poi, anni dopo, quando il figliolo geniale sta facendo carriera a Milano, progetta insieme a lui un matrimonio (di quelli alla romana, per intenderci) con una figlia di famiglia altolocata (bisognerà aspettare un po’ per celebrare le nozze, perché è ancora una bambina, ma intanto ci si porta avanti) e allora i due, madre e figlio, congedano la “compagna” di Agostino (che doveva essere di umili origini e della quale nelle Confessioni lui non fa neppure il nome!), staccandola dal figlio Adeodato, e la rimandano in Africa. Nessuno scandalo anacronistico, nessuna indignazione moralistica da parte mia: questa era l’umanità del quarto secolo, ai suoi livelli alti! E non è che dopo siamo andati molto meglio. Dunque, ripeto, ci sono voluti secoli e secoli di lavoro, con grande fatica e tra mille contraddizioni, per arrivare a far sembrare normale una cosa che è straordinaria: il matrimonio indissolubile, e dunque la famiglia indissolubile. A quella materia informe che è la vita umana carnale lasciata a se stessa fu data una forma (adopero qui il termine nel senso e con lo spessore che ha nell’estetica teologica di Balthasar). Una forma bella, solida e feconda. Proclamando che gli uomini, tutti gli uomini, sono fatti per Dio (fecisti nos ad te, dice Agostino), la Chiesa su mandato divino li ha tutti consacrati, cioè dotati di una forma nella quale risplende la gloria di Dio (gloria Dei vivens homo, dice Ireneo). Gli uni li ha consacrati nella forma sacramentale del matrimonio, gli altri nella forma della verginità (gli happy few a cui è dato capirne la maggiore convenienza). Tertium, propriamente, non datur, se non al prezzo di uscire dall’estetica della forma divinoumana e abbandonarsi all’informe di un’esistenza casuale. Fattore comune di entrambe le vie è la consegna permanente e irrevocabile di sé alla forma a cui si è vocati. Così solamente può realizzarsi quel per sempre a cui il cuore umano anela (anche nella condizione della natura decaduta). Ora fatemi pure tutta la casistica che volete dei tanti matrimoni andati a male, delle feroci infelicità o delle vere e proprie torture che hanno provocato, degli abusi e delle macanze che hanno racchiuso e coperto: ascolterò con rispetto, accoglierò tutto e lo metterò dove deve stare, cioè sul nostro conto. Ma nulla può negare la bellezza, la solidità, la feconda vitalità di quella forma. (“Famiglie, vi odio!” è già stato detto, e chi l’ha detto non mi pare da prendere ad esempio.
Ci ha messo secoli, la Chiesa, per realizzare questa impresa: far sì che tutti, almeno dalle nostre parti, pensassero il matrimonio su questo modello, su questa impronta, con questa mentalità, anche se a Dio, e dunque al sacramento, non ci credevano più. L’impronta di “sovrumana serietà” del matrimonio cristiano restò per un certo tempo nel matrimonio tout court, anche in quello civile, quando gli stati moderni cominciarono ad officiarli in concorrenza con la Chiesa. Ecco perché inizialmente lo si pensò indissolubile. C’è un fatto di cronaca degli anni cinquanta che mi piace ogni tanto ricordare perché illustra perfettamente quanto sto dicendo: nel 1956 (io c’ero già, ma avevo solo due anni e quindi non posso ricordarmelo) mons. Pietro Fiordelli, giovane e zelante vescovo di Prato, fu condannato in primo grado per diffamazione, per aver pubblicamente definito “pubblici peccatori e concubini” i coniugi Bellandi, due suoi diocesani che avevano contratto matrimonio civile, i quali comprensibilmente si sentirono offesi perché si consideravano (e civilmente erano) a tutti gli effetti marito e moglie. Nell’Italia di allora, in cui la chiesa cattolica contava ancora parecchio, si levò un putiferio e poi il presule fu assolto in appello. Anche in questo caso, non voglio giudicare anacronisticamente un fatto che appartiene a un’epoca storica così diversa dalla nostra: quello che mi interessa far notare è che, in un certo senso, del matrimonio cristiano pensavano meglio loro del vescovo. Mentre per mons. Fiordelli era matrimonio solo quello sacramentale,, come se il manto della sua forma finisse lì, i coniugi Bellandi pensavano in termini di matrimonio indissolubile, more christiano, anche la propria unione civile. Come tutti gli italiani di quel tempo, si pensavano “marito” e “moglie” a immagine e somiglianza di quelli uniti all’altare davanti al ministro della Chiesa, anche se erano andati dal sindaco anziché dal parroco a “pubblicare” il loro amore.
In cinquant’anni, che sono un tempo brevissimo in termini storici, tutta quella grandiosa costruzione è crollata, si è come polverizzata. Dalla centralità della forma cristiana del matrimonio si è passati alla sua quasi completa marginalizzazione, ma in questo processo è accaduto di peggio, perché con la fine del matrimonio indissolubile si è avviata la crisi della forma-matrimonio in quanto tale. Dall’egemonia della forma del matrimonio indissolubile si è passati prima alla sua declinazione pluralistica (e relativistica), poi all’anarchia delle forme (in cui qualsiasi tipo di unione si pretende “matrimonio”), infine alla “dittatura dell’informe”, in cui è la forma ad essere spinta nell’angolo, osteggiata e quasi criminalizzata: è la fase terminale nella quale siamo entrati da qualche anno.
Al referendum di cinquant’anni fa era inevitabile, e in un certo senso persino giusto che le cose andassero come andarono: in quanto istituzione giuridica il matrimonio indissolubile era come un vestito che non si adattava più al corpo ormai sformato della società italiana. Ma se i cattolici fossero stati più consapevoli della vera posta in gioco, avrebbero comunque sentito il dovere di schierarsi compatti dalla parte del sì. Cosa che non fecero affatto. Dei cattolici del no e di altre cose parleremo forse domani nella terza e ultima puntata di questo ricordo.