Forse questo è, in tutta la Commedia, il passo più affascinante. Nel senso etimologico che ha questa parola, da fascinum o fascinus che in latino è l’incantesimo malefico, la stregoneria, il malocchio (ma anche, al tempo stesso, il suo antidoto, originariamente in forma di amuleto fallico!). L’uso moderno della lingua, dal barocco in poi, incurante o ignaro di questo retaggio, ci ha disarmati nei confronti di quei poteri oscuri, abituandoci a ritenere che “affascinante” sia semplicemente colui/colei o ciò che è “molto attraente”, il che in definitiva equivale per noi a “molto bello”. Che una “bellezza affascinante” (o medusea, come un tempo si sarebbe detto) possa essere molto pericolosa, e persino mortale, ce lo siamo dimenticati da un pezzo. Ci vuole un incubo, per farci tornare a sentire quanto sia tremendo e serio il peso di una fascinazione. A tale funzione apotropaica assolve mirabilmente questo secondo sogno purgatoriale di Dante, il più impressionante dei tre. (Per il primo, chi non se lo ricordasse può andare a vedere quel che ne abbiamo detto a suo tempo, qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2020/12/29/sogni-dante-purgatorio-canto-ix-vv-13-63/).
«Ne l’ora che non può ‘l calor dïurno / intepidar più ‘l freddo de la luna, / vinto da terra, e talor da Saturno» (vv.1-3). L’attacco è simile a quello del precedente (IX, 13-14: «Ne l’ora che comincia i tristi lai / la rondinella presso a la mattina»), ma l’atmosfera è molto più desolata, come congelata in un’immobile inquietudine. Se là eravamo subito proiettati nel mondo della mitologia, qui siamo abbandonati in un’algida solitudine astrale: è sempre l’ora che precede l’alba, quella in cui avvengono i sogni “veri”, ma qui la decifrazione del significato di ciò che sta per accadere viene subliminalmente accostata a pratiche arcane, a saperi esoterici: «quando i geomanti lor Maggior Fortuna / veggioni in orïente, innanzi a l’alba, / surger per via che poco le sta bruna,» (vv. 4-6).
È notte, è freddo, non capiamo e siamo inquieti … ecco che accade qualcosa: «mi venne in sogno una femmina balba, / ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta, / con le man monche, e di colore scialba.» (vv. 7-9). Questa è una cupa parodia dell’adventus della donna vagheggiata dalla lirica amorosa stilnovista (spesso colta nell’atto di venire: «chi è questa che vèn ch’ogn’om la mira, / che fa tremar di chiaritate l’âre»). Esibita da subito la propria identità sessuale («una femmina»), essa accumula sfrontatamente su di sé e ostenta senza pudore tutte le caratteristiche che ne fanno l’antitesi della donna idealizzata dai poeti d’amore: si noti come la descrizione dantesca, nel momento stesso in cui sembra spogliarla di ogni attrattiva erotica, la “spoglia” appunto nel senso che ce la fa vedere e incatena il nostro sguardo a quel corpo di femmina, così brutto che non riusciamo a staccarle gli occhi di dosso.
«Io la mirava» – nella musicalità di questo attacco sentiamo già intonarsi un canto ammaliante, dolce e letale come quello delle Sirene, che sarà evocato tra qualche verso – «e come ‘l sol conforta / le fredde membra che la notte aggrava, / così lo sguardo mio le facea scorta // la lingua, e poscia tutta la drizzava / in poco d’ora, e lo smarrito volto, / com’amor vuol, così le colorava» (vv. 10-15). In due terzine, una teoria dell’eros ben più solida ed esplicativa dei vaneggiamenti di Francesca (Amor … Amor … Amor). Non un’inesistente ipostasi dell’Amore (peraltro anche qui richiamata: «com’amor vuol»), ma lo sguardo desiderante del soggetto individuale è colui che fa tutto, compiendo perfino magie come questa di trasformare il corpo deforme e turpe della femmina balba nell’oggetto del proprio desiderio. Desiderandolo, lo rende desiderabile.
Un oggetto, però, che appena “creato” ribalta i rapporti, prende il posto del soggetto che lo ha fatto esistere desiderandolo, e lo domina: «Poi ch’ell’avea ‘l parlar così disciolto, / cominciava a cantar sì, che con pena / da lei avrei mio intento rivolto. // “Io son”, cantava» – questa pausa, anzi questa cesura del discorso diretto, che Dante ha voluto interrompere con l’inserimendo del verbo che lo introduce, stavolta non la sospettiamo noi lettori, come altrove: è esplicita, voluta … attende solo un lettore che se ne accorga e si ricordi che «Io sono» è il nome che Dio si attribuisce rivelandosi a Mosè (Es 3,14) e che il Figlio di Dio tante volte richiama nel vangelo di Giovanni (8,24; 8,28; 8,58; 13,19; 18,5) – «io son dolce serena, / che ‘ marinari in mezzo mar dismago;» – mai il vortice di una serie allitterante fu così capace di rapire e di affondare colui che la pronuncia nel gorgo di una ripetizione infinita dello stesso suono (“m“, “m“, “m“: come labbra che si aprono e si chiudono senza emettere parola, poiché ormai parla, anzi canta, solo lei …) – «tanto son di piacere a sentir piena!» – mai fu scritto un verso tanto pieno di orgoglio sessuale, mai ci fu autocelebrazione tanto impudente di una potenza femminile, non però generativa ma distruttiva, che si vanta della propria capacità di annientare ogni principio virile. «Io volsi Ulisse del suo cammin vago / al canto mio;» – qui si notino due cose: la prima è che in fondo Ulisse ce lo aspettavamo, perché il fonosimbolismo del v. 21 ci aveva già nascostamente evocato il gorgo in cui si perde la sua nave (Inf. XXVI, vv. 136-142), e poco conta che quell’eroe, che aveva trascurato «’l debito amore / lo qual dovea Penelopé far lieta» per andar dietro al suo virile sogno di conoscenza trascendente, fosse stato alla fine travolto da un «turbo» mentre qui i marinari dismagati in mezzo mar dalla sirena sono piuttosto sfibrati da una bonaccia che non ha fine: entrambi infatti si perdono, sono vite che fanno naufragio. La seconda osservazione da non perdere è che qui Dante ci presenta – in un verso e mezzo! – un altro Ulisse, di cui nessuno parla perché tutti sono presi da quello del canto XXVI dell’Inferno. Del tutto indifferente al tema patristico di Ulisse legato all’albero della nava che vince la tentazione delle Sirene come allegoria del cristiano che, stando attaccato alla croce di Cristo, affronta e vince tutte le seduzioni del mondo, la femmina balba divenuta Sirena racconta un’altra storia, quella di un Ulisse “che ci sta”, e lo fa in mdo sublime con un solo tocco (un’anfibolia per chi sa di retorica): quel «vago», che significa “desideroso, attratto” e che può riferirsi sia a «del suo cammino» che lo precede sia a «al canto mio» che lo segue (con l’enjambement a creare uno spazio di sospensione, in cui ci chiediamo come andrà a finire!). Dice la femmina balba divenuta Sirena: “sono stata io a far deviare Ulisse, che pure era così desideroso di fare il suo viaggio, verso il mio canto”; ma dice anche: “io ho deviato Ulisse dal suo cammino, rendendolo desideroso di sentire il mio canto”. Sempre di “vaghezza”, cioè di desiderio errante, si tratta. Ciò che avevamo intuito nella lettura del canto XXVI, e cioè che la libidine di Ulisse non fosse in fondo così diversa da quella di Francesca, troverebbe qui una conferma – «e qual meco s’ausa, / rado sen parte; si tutto l’appago!» (vv. 16-24). Questi ultimi due versi riprendono e sviluppano sino ad una tensione insopportabile la celebrazione del trionfo sessuale della femmina che risuonava già nel v. 21. “Chi viene con me, non se ne va più perché lo appago completamente”: la formula satanica di ogni dipendenza. Schiavitù del sesso, della droga, del potere, dei soldi o di qualsiasi altro “oggetto del desiderio” che diviene “soggetto dominante”.
Dante l’ha messa giù dura, con una visione così violenta e disperata del rapporto tra i sessi che oggi gli tirerebbe addosso l’universale esecrazione dei lettori snowflake e una probabile condanna alla morte civile, però la potenza di questi versi è davvero impressionante: anche noi siamo presi e dismagati dalla Sirena, anche noi non riusciamo, nostro malgrado, a toglierle gli occhi di dosso, anche noi sentiamo che vogliamo e non vogliamo essere suoi schiavi e anche noi oscuramente preghiamo che qualcuno ci salvi. Ma il meglio deve ancora venire. «Ancor non era sua bocca richiusa, / quand’una donna apparve santa e presta / lunghesso me per far colei confusa» (vv. 25-27). Una donna! Ecco chi ci vuole, ci vuole una donna. L’altra è una femmina, ed il salto lessicale qui è fondamentale; occorre inoltre che sia «santa e presta» cioè piena di grazia e attiva, forte, persino pragmatica e senza scrupoli nel combattere la rivale. Occorre infine che sia al fianco dell’uomo («lunghesso me») e che sia ben decisa a regolare i conti con l’altra («per far colei confusa»).
Chi è questa donna? Trascrivo la nota di Anna Maria Chiavacci Leonardi, da cui – per una volta! – dissento: «non è chiaramente individuata. Gli antichi pensavano alla Ragione, o alla Filosofia, ma questo è il ruolo proprio di Virgilio. Molti vi vedono Beatrice o Lucia, altri la Giustizia, o la Temperanza, virtù opposte alla cupidigia e aconcupiscenza. Sembra da escludere Beatrice, che Dante avrebbe ben altrimenti introdotto in scena, e che egli rivede per la prima volta nella grande apparizione del paradiso terrestre». Sono convinto invece che sia Beatrice, per un particolare che dirò tra un momento. L’obiezione che Dante non l’avrebbe introdotta così mi pare che non tenga conto del fatto che questo è un sogno, e in un sogno le persone sono e non sono allo stesso tempo. È decisivo ciò che dice questa donna: «O Virgilio, Virgilio, chi è questa?» (v. 28). Ecco il sigillo, la prova che si tratta di Beatrice: quel «chi è questa?», che è l’espressione inconfondibile della fiera avversione della donna (la “signora legittima”, colei che ha un vero diritto sul cuore dell’uomo, Penelope … dunque nell’universo della Commedia, solo Beatrice!), nei confronti dell’altra: “quell’altra”, “quella là”, la femmina che usurpa il suo posto e che ha schifo persino di nominare. Intanto però facciamo un’altra scoperta sorprendente, sulla quale dobbiamo riflettere: Virgilio c’era! Ma al tempo stesso non c’era, come appunto succede nei sogni. Virgilio era lì, ma non faceva niente, non diceva niente, stava zitto e inerte, di nessun aiuto. Il professore! Con tutta la sua cultura, la saggezza secolare, gli argomenti della sua ragione. Anche lui imbambolato davanti a quella puttana?
Il punto è che, arrivati a questo punto, ci vuole proprio una donna. In realtà, quello che qui Dante sfiora è un altro tema patristico fondamentale, quello del rapporto tra Eva e Maria, l’idea cioè che se per il tramite di una donna si è compiuta la caduta iniziale dell’umanità, è per il tramite di una donna che avviene la salvezza. Il “principio femminile” della storia della salvezza qui viene riproposto, in una concentratissima miniatura, con questa scena che – meravigliosamente – è al tempo stesso un’alta meditazione sul mistero del peccato e della grazia redentrice e una vicenda volgare, da strada, lo scontro tra una donna gelosa e l’amante del suo uomo. La ragione virile di Virgilio, inerte e inutile fino ad un attimo prima, è come riaccesa dal brusco appello (o rimprovero?) della donna santa e presta, vero motore di tutta l’azione: ai suoi ordini, il maestro si fa avanti «con gli occhi fitti pur in quella onesta» (v. 30) – perché per riuscire a non guardare la Sirena (e ricascarci) bisogna avere una donna migliore da contemplare e non staccare mai lo sguardo da lei – e agisce: «L’altra prendea» – l’arrivo della donna l’ha ridotta al rango secondario de “l’altra”: è finito l’esclusivismo del “Io sono” di prima – «e dinanzi l’apria / fendendo i drappi, e mostravami ‘l ventre; / quel mi svegliò col puzzo che n’uscia» (vv. 31-33). La violenza di questa conclusione (sembra quasi uno stupro) mi atterrisce e cedo le armi esegetiche. Chi è più ferrato di me nell’interpretazione dei sogni può aiutarmi, se vuole. Per quanto mi riguarda, registro che anche Dante autore sembra ansioso di uscire dall’incubo (che pur era necessario raccontare), regalandoci il sollievo che si prova quando ci si risveglia e si ritrova la realtà di tutti i giorni: «Io mossi li occhi, e ‘l buon maestro: “Almen tre / voci t’ho messe!”, dicea» (vv. 34-35). Ci ricorda la mamma quando ci svegliava da ragazzi: “Son tre volte che ti chiamo, dormiglione!”. Per un attimo è come tornare sotto le coltri domestiche, dopo la straniante solitudine e il freddo di questo terribile sogno.