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Archivi Mensili: Maggio 2021

I conti della giustizia penale in Italia

30 domenica Mag 2021

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giustizia

Da cittadino della Repubblica Italiana (ammesso che esista ancora) vorrei conoscere i seguenti dati:

  1. Quanti procedimenti giudiziari vengono aperti all’anno? In che percentuale le indagini preliminari si concludono con la richiesta del rinvio a giudizio?
  2. In che percentuale di casi la richiesta del pubblico ministero viene accolta dal giudice per le indagini preliminari?
  3. In che percentuale di casi il processo di primo grado si conclude con l’assoluzione?
  4. In che percentuale di casi la sentenza di primo grado viene ribaltata nel processo di appello? E in che percentuale le condanne in primo grado diventano assoluzioni definitive in seguito all’appello confermato in cassazione?

Ho cercato queste informazioni sul sito del ministero della giustizia, ma non le ho trovate, per nessun anno passato. Può darsi che ciò sia dipeso da una mia incapacità, nel qual caso sarei veramente grato a chi, passando eventualmente di qui, mi sapesse indicare dove si possono reperire. Tuttavia, poiché non ricordo di aver mai sentito citare delle cifre in proposito nel dibattito mediatico, temo che questi dati non si conoscano affatto oppure che non siano di dominio pubblico.

Se fosse così, troverei la cosa scandalosa, perché misurazioni di quel genere sono la base imprescindibile per qualsiasi discorso minimamente serio sulla situazione della giustizia penale in Italia. E il problema della giustizia (civile e penale) è uno dei più gravi, se non il più grave che dobbiamo affrontare, se vogliamo sopravvivere come paese.

Purtroppo siamo tutti assuefatti ad accogliere le sentenze di assoluzione che arrivano dopo un lungo calvario giudiziario (comprensivo magari di un periodo di detenzione in carcere o agli arresti domiciliari) come “una buona notizia”, la prova che il sistema dopotutto funziona, o addirittura un “dono” di cui essere grati ai magistrati. Le cose semplicemente non stanno così. Se una sentenza di primo grado viene definitivamente ribaltata in appello, ciò significa che c’è stato un errore giudiziario. Non vuol dire che i primi giudici l’hanno pensata diversamente dai secondi, ma che quei giudici hanno sbagliato (ovviamente avendo come criterio di giudizio la verità processuale, ma quello è l’unico criterio a cui possiamo riferirci). Ora, se una persona viene assolta in primo grado ma poi viene condannata in appello si può dire che l’errore non è così grave, in quanto l’appello in quel caso rappresenta effettivamente un rimedio ad una precedente inefficienza della macchina giudiziaria, ma quando è un innocente a subire la condanna di primo grado la cosa, sul piano del principio generale oltre che su quello esistenziale della vittima, è gravissima. Poiché lo stato è per l’uomo e non l’uomo per lo stato, se lo stato infligge a una persona una sofferenza ingiusta, ipso facto nega la sua stessa ragion d’essere, cioè si delegittima radicalmente. Lo stato che manca di punire un colpevole è solo inefficiente, lo stato che punisce un innocente diventa anti-stato.

Capisco che, come ogni impresa umana, anche quella di “fare giustizia” sia esposta al fallimento, ma ciò non toglie che ogni fallimento, in quel campo delicatissimo, sia tragico. E poi, ripeto, non sto misurando l’errore in rapporto alla verità “vera” e alla giustizia “giusta” (quelle le conosce soltanto Dio), mi sto riferendo unicamente al sistema umano considerato nei suoi limiti. Sotto questo profilo, mi pare che valga l’analogia con l’atto terapeutico: se una prima cura (ad esempio un’operazione chirurgica), invece di giovare al paziente gli procura dei gravi danni che devono essere rimediati da un secondo intervento, questa non è la prova che “dopotutto il sistema sanitario funziona”, ma un difetto che non si tollera facilmente. Che cosa si penserebbe di un reparto ospedaliero in cui un’alta percentuale di operati deve essere rioperata perché il primo intervento risulta sbagliato?

È con questo animo che dovremmo guardare a vicende come quella dell’ex sindaco di Lodi, di cui in questi giorni un po’ si è parlato (almeno di quella, perché di tante altre simili non si parla affatto). Ed è per questo motivo che sarebbe necessario conoscere i dati di cui sopra. Essi naturalmente dovrebbero poi essere interpretati, e sull’interpretazione si aprirebbe un dibattito, ma intanto i cittadini avrebbero il diritto di conoscerli. Anche questa è un’emergenza democratica.

Dante sogna di nuovo: una femmina e una donna. (#Dante, Purgatorio, canto XIX, vv. 1-36)

27 giovedì Mag 2021

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#Dante, Beatrice, desiderio, principio femminile, sesso, sguardo, sogno, Ulisse

Forse questo è, in tutta la Commedia, il passo più affascinante. Nel senso etimologico che ha questa parola, da fascinum o fascinus che in latino è l’incantesimo malefico, la stregoneria, il malocchio (ma anche, al tempo stesso, il suo antidoto, originariamente in forma di amuleto fallico!). L’uso moderno della lingua, dal barocco in poi, incurante o ignaro di questo retaggio, ci ha disarmati nei confronti di quei poteri oscuri, abituandoci a ritenere che “affascinante” sia semplicemente colui/colei o ciò che è “molto attraente”, il che in definitiva equivale per noi a “molto bello”. Che una “bellezza affascinante” (o medusea, come un tempo si sarebbe detto) possa essere molto pericolosa, e persino mortale, ce lo siamo dimenticati da un pezzo. Ci vuole un incubo, per farci tornare a sentire quanto sia tremendo e serio il peso di una fascinazione. A tale funzione apotropaica assolve mirabilmente questo secondo sogno purgatoriale di Dante, il più impressionante dei tre. (Per il primo, chi non se lo ricordasse può andare a vedere quel che ne abbiamo detto a suo tempo, qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2020/12/29/sogni-dante-purgatorio-canto-ix-vv-13-63/).

«Ne l’ora che non può ‘l calor dïurno / intepidar più ‘l freddo de la luna, / vinto da terra, e talor da Saturno» (vv.1-3). L’attacco è simile a quello del precedente (IX, 13-14: «Ne l’ora che comincia i tristi lai / la rondinella presso a la mattina»), ma l’atmosfera è molto più desolata, come congelata in un’immobile inquietudine. Se là eravamo subito proiettati nel mondo della mitologia, qui siamo abbandonati in un’algida solitudine astrale: è sempre l’ora che precede l’alba, quella in cui avvengono i sogni “veri”, ma qui la decifrazione del significato di ciò che sta per accadere viene subliminalmente accostata a pratiche arcane, a saperi esoterici: «quando i geomanti lor Maggior Fortuna / veggioni in orïente, innanzi a l’alba, / surger per via che poco le sta bruna,» (vv. 4-6).

È notte, è freddo, non capiamo e siamo inquieti … ecco che accade qualcosa: «mi venne in sogno una femmina balba, / ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta, / con le man monche, e di colore scialba.» (vv. 7-9). Questa è una cupa parodia dell’adventus della donna vagheggiata dalla lirica amorosa stilnovista (spesso colta nell’atto di venire: «chi è questa che vèn ch’ogn’om la mira, / che fa tremar di chiaritate l’âre»). Esibita da subito la propria identità sessuale («una femmina»), essa accumula sfrontatamente su di sé e ostenta senza pudore tutte le caratteristiche che ne fanno l’antitesi della donna idealizzata dai poeti d’amore: si noti come la descrizione dantesca, nel momento stesso in cui sembra spogliarla di ogni attrattiva erotica, la “spoglia” appunto nel senso che ce la fa vedere e incatena il nostro sguardo a quel corpo di femmina, così brutto che non riusciamo a staccarle gli occhi di dosso.

«Io la mirava» – nella musicalità di questo attacco sentiamo già intonarsi un canto ammaliante, dolce e letale come quello delle Sirene, che sarà evocato tra qualche verso – «e come ‘l sol conforta / le fredde membra che la notte aggrava, / così lo sguardo mio le facea scorta // la lingua, e poscia tutta la drizzava / in poco d’ora, e lo smarrito volto, / com’amor vuol, così le colorava» (vv. 10-15). In due terzine, una teoria dell’eros ben più solida ed esplicativa dei vaneggiamenti di Francesca (Amor … Amor … Amor). Non un’inesistente ipostasi dell’Amore (peraltro anche qui richiamata: «com’amor vuol»), ma lo sguardo desiderante del soggetto individuale è colui che fa tutto, compiendo perfino magie come questa di trasformare il corpo deforme e turpe della femmina balba nell’oggetto del proprio desiderio. Desiderandolo, lo rende desiderabile.

Un oggetto, però, che appena “creato” ribalta i rapporti, prende il posto del soggetto che lo ha fatto esistere desiderandolo, e lo domina: «Poi ch’ell’avea ‘l parlar così disciolto, / cominciava a cantar sì, che con pena / da lei avrei mio intento rivolto. // “Io son”, cantava» – questa pausa, anzi questa cesura del discorso diretto, che Dante ha voluto interrompere con l’inserimendo del verbo che lo introduce, stavolta non la sospettiamo noi lettori, come altrove: è esplicita, voluta … attende solo un lettore che se ne accorga e si ricordi che «Io sono» è il nome che Dio si attribuisce rivelandosi a Mosè (Es 3,14) e che il Figlio di Dio tante volte richiama nel vangelo di Giovanni (8,24; 8,28; 8,58; 13,19; 18,5) – «io son dolce serena, / che ‘ marinari in mezzo mar dismago;» – mai il vortice di una serie allitterante fu così capace di rapire e di affondare colui che la pronuncia nel gorgo di una ripetizione infinita dello stesso suono (“m“, “m“, “m“: come labbra che si aprono e si chiudono senza emettere parola, poiché ormai parla, anzi canta, solo lei …) – «tanto son di piacere a sentir piena!» – mai fu scritto un verso tanto pieno di orgoglio sessuale, mai ci fu autocelebrazione tanto impudente di una potenza femminile, non però generativa ma distruttiva, che si vanta della propria capacità di annientare ogni principio virile. «Io volsi Ulisse del suo cammin vago / al canto mio;» – qui si notino due cose: la prima è che in fondo Ulisse ce lo aspettavamo, perché il fonosimbolismo del v. 21 ci aveva già nascostamente evocato il gorgo in cui si perde la sua nave (Inf. XXVI, vv. 136-142), e poco conta che quell’eroe, che aveva trascurato «’l debito amore / lo qual dovea Penelopé far lieta» per andar dietro al suo virile sogno di conoscenza trascendente, fosse stato alla fine travolto da un «turbo» mentre qui i marinari dismagati in mezzo mar dalla sirena sono piuttosto sfibrati da una bonaccia che non ha fine: entrambi infatti si perdono, sono vite che fanno naufragio. La seconda osservazione da non perdere è che qui Dante ci presenta – in un verso e mezzo! – un altro Ulisse, di cui nessuno parla perché tutti sono presi da quello del canto XXVI dell’Inferno. Del tutto indifferente al tema patristico di Ulisse legato all’albero della nava che vince la tentazione delle Sirene come allegoria del cristiano che, stando attaccato alla croce di Cristo, affronta e vince tutte le seduzioni del mondo, la femmina balba divenuta Sirena racconta un’altra storia, quella di un Ulisse “che ci sta”, e lo fa in mdo sublime con un solo tocco (un’anfibolia per chi sa di retorica): quel «vago», che significa “desideroso, attratto” e che può riferirsi sia a «del suo cammino» che lo precede sia a «al canto mio» che lo segue (con l’enjambement a creare uno spazio di sospensione, in cui ci chiediamo come andrà a finire!). Dice la femmina balba divenuta Sirena: “sono stata io a far deviare Ulisse, che pure era così desideroso di fare il suo viaggio, verso il mio canto”; ma dice anche: “io ho deviato Ulisse dal suo cammino, rendendolo desideroso di sentire il mio canto”. Sempre di “vaghezza”, cioè di desiderio errante, si tratta. Ciò che avevamo intuito nella lettura del canto XXVI, e cioè che la libidine di Ulisse non fosse in fondo così diversa da quella di Francesca, troverebbe qui una conferma – «e qual meco s’ausa, / rado sen parte; si tutto l’appago!» (vv. 16-24). Questi ultimi due versi riprendono e sviluppano sino ad una tensione insopportabile la celebrazione del trionfo sessuale della femmina che risuonava già nel v. 21. “Chi viene con me, non se ne va più perché lo appago completamente”: la formula satanica di ogni dipendenza. Schiavitù del sesso, della droga, del potere, dei soldi o di qualsiasi altro “oggetto del desiderio” che diviene “soggetto dominante”.

Dante l’ha messa giù dura, con una visione così violenta e disperata del rapporto tra i sessi che oggi gli tirerebbe addosso l’universale esecrazione dei lettori snowflake e una probabile condanna alla morte civile, però la potenza di questi versi è davvero impressionante: anche noi siamo presi e dismagati dalla Sirena, anche noi non riusciamo, nostro malgrado, a toglierle gli occhi di dosso, anche noi sentiamo che vogliamo e non vogliamo essere suoi schiavi e anche noi oscuramente preghiamo che qualcuno ci salvi. Ma il meglio deve ancora venire. «Ancor non era sua bocca richiusa, / quand’una donna apparve santa e presta / lunghesso me per far colei confusa» (vv. 25-27). Una donna! Ecco chi ci vuole, ci vuole una donna. L’altra è una femmina, ed il salto lessicale qui è fondamentale; occorre inoltre che sia «santa e presta» cioè piena di grazia e attiva, forte, persino pragmatica e senza scrupoli nel combattere la rivale. Occorre infine che sia al fianco dell’uomo («lunghesso me») e che sia ben decisa a regolare i conti con l’altra («per far colei confusa»).

Chi è questa donna? Trascrivo la nota di Anna Maria Chiavacci Leonardi, da cui – per una volta! – dissento: «non è chiaramente individuata. Gli antichi pensavano alla Ragione, o alla Filosofia, ma questo è il ruolo proprio di Virgilio. Molti vi vedono Beatrice o Lucia, altri la Giustizia, o la Temperanza, virtù opposte alla cupidigia e aconcupiscenza. Sembra da escludere Beatrice, che Dante avrebbe ben altrimenti introdotto in scena, e che egli rivede per la prima volta nella grande apparizione del paradiso terrestre». Sono convinto invece che sia Beatrice, per un particolare che dirò tra un momento. L’obiezione che Dante non l’avrebbe introdotta così mi pare che non tenga conto del fatto che questo è un sogno, e in un sogno le persone sono e non sono allo stesso tempo. È decisivo ciò che dice questa donna: «O Virgilio, Virgilio, chi è questa?» (v. 28). Ecco il sigillo, la prova che si tratta di Beatrice: quel «chi è questa?», che è l’espressione inconfondibile della fiera avversione della donna (la “signora legittima”, colei che ha un vero diritto sul cuore dell’uomo, Penelope … dunque nell’universo della Commedia, solo Beatrice!), nei confronti dell’altra: “quell’altra”, “quella là”, la femmina che usurpa il suo posto e che ha schifo persino di nominare. Intanto però facciamo un’altra scoperta sorprendente, sulla quale dobbiamo riflettere: Virgilio c’era! Ma al tempo stesso non c’era, come appunto succede nei sogni. Virgilio era lì, ma non faceva niente, non diceva niente, stava zitto e inerte, di nessun aiuto. Il professore! Con tutta la sua cultura, la saggezza secolare, gli argomenti della sua ragione. Anche lui imbambolato davanti a quella puttana?

Il punto è che, arrivati a questo punto, ci vuole proprio una donna. In realtà, quello che qui Dante sfiora è un altro tema patristico fondamentale, quello del rapporto tra Eva e Maria, l’idea cioè che se per il tramite di una donna si è compiuta la caduta iniziale dell’umanità, è per il tramite di una donna che avviene la salvezza. Il “principio femminile” della storia della salvezza qui viene riproposto, in una concentratissima miniatura, con questa scena che – meravigliosamente – è al tempo stesso un’alta meditazione sul mistero del peccato e della grazia redentrice e una vicenda volgare, da strada, lo scontro tra una donna gelosa e l’amante del suo uomo. La ragione virile di Virgilio, inerte e inutile fino ad un attimo prima, è come riaccesa dal brusco appello (o rimprovero?) della donna santa e presta, vero motore di tutta l’azione: ai suoi ordini, il maestro si fa avanti «con gli occhi fitti pur in quella onesta» (v. 30) – perché per riuscire a non guardare la Sirena (e ricascarci) bisogna avere una donna migliore da contemplare e non staccare mai lo sguardo da lei – e agisce: «L’altra prendea» – l’arrivo della donna l’ha ridotta al rango secondario de “l’altra”: è finito l’esclusivismo del “Io sono” di prima – «e dinanzi l’apria / fendendo i drappi, e mostravami ‘l ventre; / quel mi svegliò col puzzo che n’uscia» (vv. 31-33). La violenza di questa conclusione (sembra quasi uno stupro) mi atterrisce e cedo le armi esegetiche. Chi è più ferrato di me nell’interpretazione dei sogni può aiutarmi, se vuole. Per quanto mi riguarda, registro che anche Dante autore sembra ansioso di uscire dall’incubo (che pur era necessario raccontare), regalandoci il sollievo che si prova quando ci si risveglia e si ritrova la realtà di tutti i giorni: «Io mossi li occhi, e ‘l buon maestro: “Almen tre / voci t’ho messe!”, dicea» (vv. 34-35). Ci ricorda la mamma quando ci svegliava da ragazzi: “Son tre volte che ti chiamo, dormiglione!”. Per un attimo è come tornare sotto le coltri domestiche, dopo la straniante solitudine e il freddo di questo terribile sogno.

La santa fretta. (#Dante, Purgatorio, canto XVIII, vv. 100-105)

23 domenica Mag 2021

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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#Dante, Abramo, accidia, Maria, santa fretta

All’accidia, il quarto peccato capitale, è dedicata solo la parte finale del canto XVIII, ed è un peccato, perché noi in proposito avremmo un gran bisogno che Dante ci facesse scuola. Mi pare infatti che proprio l’accidia, cioè la mancanza di vigore nell’amare il bene, sia la principale malattia spirituale che oggi ci affligge. Più (e prima) che bramosi di schifezze e porcherie, siamo inappetenti del cibo buono e sano che ci farebbe vivere. Le nostre tanto vantate libidini, di sesso purchessia o di soldi o di potere, sono in realtà una ben misera cosa, del tutto secondaria alla nostra frigidità verso il Bello, il Buono, il Vero. Troppo poco cupidi del paradiso, è per questo che rischieremmo l’inferno (se non fosse per quella faccenda della Bontà infinita che ha sì gran braccia …). In fin dei conti c’è pure una parola di Gesù che dice che il regno dei cieli è dei violenti e di chi se ne impadronisce con la forza (Mt 11,12), e fra le tante possibili interpretazioni di quel controverso versetto, forse ci può stare anche questa: bisogna volerlo molto, amarlo sino alla violenza, il Paradiso, per andarci subito.

Purtroppo però questa volta Dante ci delude: dell’accidia parla pochissimo, quasi per dovere d’ufficio (un po’ come nell’Inferno se l’era sbrigata con la gola) e anche in questo caso può darsi che dipenda dal fatto che si tratta di un peccato che gli è profondamente estraneo. E forse non solo a lui: sarò ingenuo, ma mi sono sempre immaginato la società medievale come un mondo di forti passioni, un mondo molto “giovane” e molto colorato rispetto al nostro (“secoli bui” proprio no!). Un mondo in cui l’accidia era piuttosto una sorta di “malattia professionale” dei monaci: quella specie di inverno dello spirito, di aridità della mente e del cuore ben conosciuto da tutti i contemplativi, che i trattati di ascetica conoscono e analizzano con grande finezza, sin dai primi secoli cristiani; il «demone meridiano» che paralizza il monaco nella sua cella, e su cui la letteratura monastica ha scritto pagine preziose – che molto servirebbero anche a noi moderni (Foucault, ad esempio, lo sa bene), così proni ad una banale medicalizzazione dell’accidia, spesso confusa con la depressione (“prendi il litio e ti passa”). Di tutto questo, però, il laico Dante non ci dice nulla, anche se la scelta di un monaco, anzi di un abate (l’abate di San Zeno a Verona), non nominato e perciò non identificabile per noi, come unico accidioso che venga presentato in questa cornice (cfr. vv. 118-120), mi pare che sia un indizio abbastanza chiaro del fatto che lui quel “discorso monastico sull’accidia” lo conosce bene e, se volesse, ce ne potrebbe parlare a lungo.

Non lo fa, e amen. Però se uno è un genio, anche quando non si impegna c’è caso che qualcosa di geniale gli esca fuori pure per sbaglio. A scuola dicevo agli studenti: se avessimo una lista della spesa scritta da Dante o da Leopardi magari sarebbe un capolavoro. Così, anche in questo angolino poco frequentato della Commedia a stare attenti si trova una perla preziosa da raccogliere e da mettere nella nostra bisaccia di viaggiatori. È il tema della santa fretta.

Gli accidiosi corrono a rotta di collo lungo la loro cornice (ma non senza senso, come gli ignavi dell’antinferno!), e mentre corrono gridano esempi della virtù contraria al loro peccato: «“Maria corse con fretta a la montagna”; / e “Cesare, per soggiogare Ilerda, / punse Marsilia e poi corse in Ispagna”. // “Ratto, ratto, che ‘l tempo non si perda / per poco amor”, gridavan gli altri appresso, / “che studio di ben far grazia rinverda”» (vv. 100-105). L’accostamento della Vergine Maria con Giulio Cesare, che sembra fatto apposta per scandalizzare le anime belle e politicamente corrette di oggi, meriterebbe una sua riflessione che però tralasciamo. Concentriamoci sulla fretta.

Avere fretta, in linea di massima, non è una buona cosa. Tutt’altro. Questa è una dottrina talmente universale che sfonda nel luogo comune e non c’è bisogno che spendiamo parole per ribadirla o illustrarla. Lo sanno tutti che “la gatta frettolosa fa i gattini ciechi” e tutti ci lamentiamo della fretta con cui viviamo oggi le nostre convulse giornate (senza peraltro far nulla per rimediare). Qui però Dante attira la nostra attenzione su un filo rosso che percorre tutta la storia: la storia della salvezza in primo luogo, ma poi anche la storia delle imprese umane. È quello di una fretta che è santa e inderogabile perché richiesta da Dio stesso. Una storia della santa fretta dovrebbe cominciare almeno con Abramo, il quale, quando Dio gli apparve alle querce di Mamre, «mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno» (l’ora dell’accidia, del demone meridiano di cui sopra!), «andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: “Presto, tre sea di fior di farina, impastala e fanne focacce”» (Gen 18,6) e poi corse lui stesso a prendere un vitello da macellare e lo diede al servo che si affrettò a prepararlo (18,7). Lo stesso Abramo che quando Dio gli chiese in olocausto Isacco, «si alzò di buon mattino» (Gen 22,3) per affrettarsi ad eseguire quell’ordine atroce e assurdo. Qual è il tempo in cui eseguire il comando di Dio? Ora. Il tempo di Dio è ora. Questo è il fondamento della santa fretta. La fretta di Maria che si mette in viaggio per andare da sua cugina Elisabetta e lo fa μετὰ σπουδῆς, dice Luca (1,39), cioè con premura, senza perder tempo. La fretta con cui i chiamati da Gesù «subito» (εὐθὺς), lasciate le reti o qualunque altra cosa, si alzano e lo seguono. Subito.

Qual è il tempo di rispondere a Dio che ci chiama? Adesso. Questo principio generale, privo di eccezioni, che governa la storia della salvezza, vale anche, come si diceva, per le imprese degli uomini. Qual è il tempo di fare ciò che va fatto? Adesso. Questo vale in tutti i campi. Nella storia militare, ad esempio (dunque nella storia meno salvifica che si potrebbe immaginare, sotto un certo aspetto) il principio della “santa fretta” trova innumerevoli conferme: il Giulio Cesare qui non a caso citato da Dante e tanti altri grandi condottieri prima e dopo di lui furono vincitori in quanto furono tempestivi nel fare ciò che dovevano. E persero le battaglie per un ritardo, una sosta, un’esitazione intempestiva. O peggio, per accidia.

«Ratto, ratto, che ‘l tempo non si perda / per poco amor»: io, di mio, sarei della razza di Belacqua, ma questo ritornello sento che mi fa bene.

Ringrazio il mio vescovo, che parla cristiano.

20 giovedì Mag 2021

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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chiesa e mondo, coraggio, libertà, proposta di legge Zan, vescovi

Lo ringrazio di vero cuore perché nei giorni scorsi ha pubblicato una lettera, indirizzata a tutti i fedeli della sua diocesi (quindi anche a me), in cui esprime un giudizio, basato sulla dottrina della chiesa cattolica, a proposito di alcune gravi e scottanti questioni della nostra vita sociale e politica: la proposta di legge Zan, il problema della denatalità e il mercato delle armi. In altri tempi, anche non troppo lontani, non ce ne sarebbe forse stato bisogno e/o sarebbe stato scontato che un vescovo lo facesse. Oggi non è più così.

Tra le molte cose cristiane contenute nella lettera, che invito a leggere, qui: http://www.diocesicesenasarsina.it/wp-content/uploads/sites/2/2021/05/per-amore-del-mio-popolo.pdf, ce n’è una che mi ha particolarmente colpito. Richiamando i principi della dottrina cristiana sulla sessualità, mons. Regattieri cita, quasi per esteso, nel corpo della lettera, il paragrafo 2357 del Catechismo della Chiesa cattolica, che anch’io sulla sua scorta qui copiaincollo: «[Appoggiandosi sulla Sacra Scrittura, che presenta le relazioni omosessuali come gravi depravazioni], la Tradizione ha sempre dichiarato che “gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati”. Sono contrari alla legge naturale. Precludono all’atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati». Capite? Non si è limitato a farvi un pudico cenno in nota, abbastanza criptico da non essere capito da nessuno se non da pochi addetti ai lavori. Lo ha ripetuto ad alta voce, così com’è (solo evitando di riportare la prima parte della frase, relativa alle «gravi depravazioni» di cui parla la Scrittura): lo ha ridetto papale papale (anzi no … direi piuttosto “episcopale episcopale”).

Credo che purtroppo si debba riconoscere che questo è un atto di coraggio. Non dovrebbe esserlo, ma lo è. C’è da temere, infatti, che quel punto del catechismo – che pure non fa altro che ripetere ciò che la chiesa ha sempre ininterrottamente creduto e insegnato per due millenni, ritenendo di seguire l’insegnamento del suo Maestro – oggi una parte considerevole dell’episcopato e del clero, più o meno segretamente, lo aborra (ed è lecito il sospetto che in molti casi lo faccia pro domo sua), mentre è sicuro che un’altra parte ancor più ampia fa finta di ignorarlo e lo mette tra parentesi, come una cosa che sì, sarà anche vera, ma di cui è assolutamente inopportuno parlare.

Vigente la legge Zan, come il mio vescovo sa bene, la semplice enunciazione pubblica di quella parte del catechismo gli costerebbe, con un elevatissimo grado di probabilità, una denuncia penale, a cui seguirebbe immediatamente – per il necessario ossequio al feticcio della cosiddetta «obbligatorietà dell’azione penale» – l’apertura di un procedimento giudiziario. L’andamento e l’esito del quale dipenderebbero poi quasi totalmente dall’arbitrio dei magistrati a cui capitasse di occuparsene, ma coi tempi che corrono è sensato prevedere che si arriverebbe, sia pure con un minore grado di probabilità, al rinvio a giudizio. In giudizio poi, l’assoluzione sarebbe più probabile della condanna, ma dopo un lasso di tempo e un tale carico di fastidi e di “danni collaterali” che basterebbero a indurre qualunque “persona prudente” a non mettersi nei guai. I buoni argomenti non mancherebbero, ma di fatto si avrebbe una censura (un’autocensura) della parola di Dio. Un altro po’ di lampada sotto il moggio.

Ma anche adesso, senza ancora la legge Zan (che Dio ce la risparmi, anche se non ce lo meritiamo), il mio vescovo ha compiuto un atto di coraggio, ripetendo pubblicamente quelle parole, perché ciò basta a qualificarlo, agli occhi di molti, come un “nemico”. Né vale, a scagionarlo, che subito prima egli abbia doverosamente ricordato il fermo rifiuto della chiesa nei riguardi di ogni discriminazione personale. Per questo coraggio, dunque, gli sono molto grato.

Di aver paura, infatti, ciascuno di noi è capace da solo. Non mi serve il vescovo, so essere pusillanime per conto mio. Per aver coraggio, invece, noi pecore abbiamo bisogno di pastori che “diano la vita” per il gregge. Capisco che per loro sia dura. Ma è l’ora delle tenebre. Sono tempi da lupi.

Al cuore si comanda. (#Dante, Purgatorio, canto XVIII, vv. 46-75)

17 lunedì Mag 2021

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi, Senza categoria

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#Dante, amore, Beatrice, Giovanni Battista, libertà, scuola

L’ultima volta l’ho fatta grossa: ho interrotto a metà la lezione di Virgilio. L’ho fatto per non tirarla troppo per le lunghe. Anche a scuola, per timore di sforare quando suonava la campanella, qualunque cosa stessi facendo, smettevo subito, raccoglievo le mie cianfrusaglie e me ne andavo dall’aula per non portar via tempo ai colleghi. Però qualche volta lo dicevo ai ragazzi che la scuola idealmente non dovrebbe funzionare così, divisa e parcellizzata in tante scatolette di un’ora. Se una mattina si sta con Dante, piuttosto che con Euclide o con Michelangelo, bisognerebbe poterci stare per tutto il tempo che serve, senza essere incalzati da altro, con agio, senza infliggere alle menti dei sedicenni, quell’improbabile ginnastica che la fa ballare, nell’arco di cinque ore, da un capo all’altro dello scibile. Ma questi sono sogni.

Qui però non siamo a scuola: legge chi vuole, come vuole e per quanto vuole. Va bene non farla troppo lunga, ma, come mi è stato fatto giustamente osservare, tagliata come l’ho tagliata io, la lezione di Virgilio non si capisce. È vero però che uno snodo, al punto in cui mi sono fermato l’altro giorno, è lui stesso a metterlo, quando, alla opportuna domanda dell’allievo che abbiamo già riferito (“«Le tue parole e ‘l mio seguace ingegno» mi hanno fatto capire tutto dell’amore, però non ho capito niente: e l’amore vien da fuori e l’animo non può che aderirvi, che colpa o che merito c’è nell’amare, in qualunque modo si ami? Non ha dunque ragione Francesca, e quelli del Love is love?”), risponde in questa maniera: «Quanto ragion qui vede, / dir ti poss’io; da indi in là t’aspetta / pur a Beatrice, ch’è opera di fede» (vv. 46-48). Abbiamo già lodato questo allargar di braccia, dichiarare il proprio limite e affidare l’impresa ad un altro (un’altra). L’archetipo dell’umana grandezza è Giovanni Battista, che non per niente Gesù ha autorevolmente definito «il più grande tra i nati di donna» (Mt 11,11). Ora, chi è Giovanni Battista? Colui che dice: «Bisogna che Lui cresca e io diminuisca» (Gv 3, 30). Avverto i miei compagni di viaggio che da ora in poi dovremo prestare attenzione a questa dimensione dell’agire di Virgilio, che culminerà in un’uscita di scena inaspettata e mirabile.

Comunque, «quanto ragion qui vede» è presto detto (e detto bene): ogni anima umana ha in sé la facoltà di intendere e di volere, ma l’uomo se ne rende conto solo nel momento in cui la usa. Da dove gli venga «lo ‘ntelletto / de le prime notizie» (vv. 55-56), cioè i principi della conoscenza, e «de’ primi appetibili l’affetto» (v. 57) cioè l’attrazione verso i beni primari, l’uomo non lo sa. In questo è come l’ape che ha la tendenza a fare il miele e non vi è né merito né biasimo in tutto ciò (cfr. vv. 58-60). Però nell’uomo, affinché ogni desiderio concreto sia coerente e non in contrasto con tale fondamentale tendenza al bene di cui è strutturalmente dotato, c’è anche «la virtù che consiglia / e de l’assenso de’ tener la soglia» (vv. 62-63), cioè il giudizio. Dunque la libertà esiste. Questo è il punto cruciale di tutta la faccenda, ed anche il punto dolente, il cuore della battaglia che specialmente oggi ferocemente si combatte; la pietra dello scandalo, la pretesa che il mondo (tutto il mondo: di sinistra, di destra e di centro) non accetta assolutamente; la cosa che sta a cuore solamente a Dio: la libertà esiste. Non è vero, quindi, che “al cuor non si comanda”, come tutto il mondo, mentendo a se stesso, ripete da sempre. Al cuore si comanda, eccome; se si vuole. E questo, dice il pagano Virgilio, «color che ragionando andaro al fondo» l’hanno sempre saputo: «s’accorser d’esta innata libertate; / però moralità lasciaro al mondo. // Onde, poniam che di necessitate / surga ogne amor che dentro a voi s’accende, / di ritenerlo è in voi la podestate» (vv. 67-72).

Teoricamente non fa una grinza. Però qui noi tocchiamo con mano la differenza tra dimostrare e convincere. Sentiamo così compromessa, nei fatti, la nostra libertà, che la dimostrazione della sua esistenza non riesce a persuaderci veramente. E l’andar d’accordo, su questa percezione, di uno come Ovidio («video meliora proboque, sed deteriora sequor») e di uno come san Paolo («faccio non quello che voglio, ma quello che detesto») ci pare che abbia un gran peso nell’avvalorarla. Dunque?

Dunque Virgilio, che lo sa, ripete per la seconda volta il gesto di umiltà (e di grandezza) che abbiamo già rilevato, e “chiama” Beatrice: «La nobile virtù Beatrice intende / per libero arbitrio, e però guarda / che l’abbi a mente, s’a parlar ten prende» (vv. 73-75).

Si noti che leggendo o ancor meglio recitando, il verso 73, poiché le parole possono uscire solo una alla volta noi, prima di completarlo, siamo obbligati a pronunciare «La nobile virtù Beatrice …»: sintagma che, per una frazione di secondo, fa balenare alla nostra mente un significato diverso da quello che nell’enunciato propriamente gli compete e che, per quanto provvisorio e immediatamente destinato ad essere corretto (nobile virtù non è apposizione di Beatrice ma complemento oggetto di intende), pure schiude, su un altro piano, l’accesso ad una verità più profonda. Una lucina da niente, si capisce, rispetto ai fulgori del Paradiso.

Viva il piacere! Ma se siamo nati per quello, e lo cerchiamo dove ci pare, che colpa ne abbiamo? (#Dante, Purgatorio, canto XVIII, vv. 19-45)

15 sabato Mag 2021

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#Dante, amore, desiderio, piacere

Con le belle premesse di cui s’è detto l’altro giorno, la lezione del maestro Virgilio non potrà che riuscire bene, ma proprio perché è ben fatta essa vede da se stessa la propria insufficienza e la dichiara (il genio di Dante, quando ci visita così, non finisce di sbalordirci): per ben due volte in questo canto quel gran docente, al culmine della sua impresa didattica, ne confessa il limite e invoca un altro (ben più alto) magistero, quello di Beatrice, il cui santo nome nel Purgatorio era stato pronunciato finora solo altre due volte, nel sesto e nel quindicesimo. (Nessuna lezione esaurisce l’argomento, ma la più completa è quella che rende il discepolo consapevole dell’ignoranza sua e del maestro).

«L’animo, ch’è creato ad amar presto, / ad ogni cosa è mobile che piace, / tosto che dal piacere in atto è desto» (vv. 19-21). Il professore comincia con il riassunto delle puntate precedenti, sintetizzando ciò che abbiamo già appreso nel canto XVI circa la natura umana, creata ”con piacere e per piacere” da un Dio amante e perciò costitutivamente tesa al piacere. Il primato del piacere non l’abbiamo mica scoperto noi moderni all’inizio del XX secolo, e se pensassimo di sbandierarlo in faccia al vecchio Dante, medievale e cattolico, come insegna della nostra superiorità, faremmo una ben magra figura e finiremmo stritolati, noi e il nostro Lustprinzip, perché lui lo sa benissimo che la prima (anzi la sola) cosa di cui siamo dotati quando veniamo al mondo è l’attrazione per il piacere, e che il principio di realtà viene solo un bel po’ dopo (quando viene) a dargli una regolata. E se lo provocassimo dicendo che per noi (come per Leopardi) “piacere” è il nome concreto della “felicità” e che pertanto noi ci sentiamo fatti per il piacere e non per la virtù, non lo scandalizzeremmo più di tanto. Lui però sa anche qualcosa che noi invece ignoriamo, cioè che l’origine del principio di piacere non sta in basso, come crediamo noi; non è nelle viscere, nella materia carnale e nell’apparente gioco insensato delle sue pulsioni sotto il quale si nasconde in realtà il ferreo determinismo delle reazioni biochimiche … No, l’origine è in alto, è addirittura in una matrice teologica, che consiste, come abbiamo osservato già più volte, appunto nel piacere divino che informa tutto il processo della nostra creazione («l’animo, ch’è creato ad amar presto»). Dunque, si noti bene, in una libertà assoluta, non in una necessità. Il che chiama radicalmente in causa, sin dall’origine, la questione della responsabilità, cioè la morale. Che l’amore fosse una necessità lo pensavano in tanti, al tempo di Dante: era l’acquisto fondamentale della teoria dell’amore cortese, condiviso da tutti i poeti suoi amici; era la dottrina a cui aveva fatto propaganda un’ultima volta Francesca, in quel suo primo discorso («Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende […] Amor ch’a nullo amato amar perdona») che aveva così poco convinto il poeta. Perché tutti gli intellettuali laici la pensavano così, ma Dante no. Non più.

Naturalmente, quelle raffinate analisi dell’amore su cui si erano affaticati pensatori e poeti dell’antichità e dei tempi suoi contenevano anche molte parti di verità, e le due terzine successive (vv. 22-27) descrivono la fenomenologia dell’amore esponendo i contenuti di tale dottrina comune: la facoltà conoscitiva trae, dalla cosa esterna che colpisce i sensi, un’immagine e la dispiega all’interno della mente umana. L’animo si volge ad essa «e se, rivolto, inver’ di lei si piega, // quel piegare è amor» (vv. 26-27). Prendiamo nota: che cos’è l’amore? Innanzitutto una piega. C’è, nel “materialismo” di questa definizione, qualcosa di straordinariamente acuto, che meriterebbe una prolungata riflessione da parte nostra. Non c’è nulla di “aereo” e di volatile, e perciò di ineffabile, nell’amore (c’è forse nel suo travisamento, come simboleggiano gli spiriti del canto V dell’Inferno nel loro volteggiare al vento, ma non nell’amore in quanto tale). L’amore, dice Dante, fondamentalmente è piuttosto una piega che l’animo prende. Un assetto, una postura, un orientamento. Una sorta di fenomeno fisico.

Poi però l’amore – dice sempre la dottrina comune – si perfeziona in un desiderio. Non basta all’animo piegarsi verso l’oggetto amato: come il fuoco «movesi in altura / per la sua forma ch’è nata a salire» (vv. 28-29), così l’animo, preso dall’amore, «entra in disire, / ch’è moto spiritale» (vv. 31-32) e non si ferma finché non si unisce alla cosa amata. Dopo la piega, il moto (siamo sempre nella fisica, più precisamente dalle parti della meccanica). Non basta all’uomo piegarsi a ciò che gli piace, deve raggiungerlo, mettergli le mani addosso, possederlo, il che – si noti bene anche questo – significa di solito anche consumarlo. (È ciò che, subliminalmente, ci suggerisce anche la scelta della similtudine del fuoco). “Guardare ma non toccare”, che è la regola base che saggiamente si insegna ai bambini, sotto questo profilo appare come la più assurda ed inumana che ci sia.

“Ma allora”, dirà chi mi ha seguito fin qui, “Dante la pensa esattamente come tutti noi! Love is love”. Aveva ragione Francesca e tutti gli altri: l’amore è una necessità. In amore tutto va sempre come deve andare, ogni amore è naturale e perciò santo e benedetto. Hanno ragione quei preti in Germania che l’altro giorno li hanno benedetti tutti, gli amori. Tale è la conseguenza che trarremmo noi, avendo seguito con attenzione (e credendo di averla compresa) la lezione del professor Virgilio. Il quale, invece, ci spiazza concludendo il suo ragionamento all’opposto: «Or ti puote apparer quant’è nascosa / la veritate a la gente ch’avvera / ciascun amore in sé laudabil cosa;» – oggigiorno vuol dire praticamente tutti all’infuori dei cristiani ma, ahimé, troppi anche dentro la chiesa, preti e vescovi compresi – «però che forse appar la sua matera / sempre esser buona, ma non ciascun segno / è buono, ancor che buona sia la cera» (vv. 34-39). I concetti di materia e di forma sono ormai sconosciuti ai più e banditi dal discorso comune, quindi non stupisce che noi non comprendiamo che cosa Dante autore ci sta dicendo Per fortuna c’è Dante personaggio che si incarica di formulare il dubbio che noi abbiamo dentro e magari non sapremmo sciogliere: «s’amore è di fuori a noi offerto / e l’anima non va con altro piede, / se dritta o torta va, non è suo merto» (vv. 43-45). Ecco, questo sì che lo capiamo perfettamente, e non c’è alcun bisogno che io espliciti l’assoluta, stringente aderenza della questione al dibattito attuale (anche in questi giorni in cui l’orrida legge Zan incombe su di noi). (continua)

Poesia della scuola. Inizia la terza e ultima parte della grande lezione sull’amore (#Dante, Purgatorio, canto XVIII, vv. 1-18)

13 giovedì Mag 2021

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#Dante, didattica, maestro, scuola

L’ouverture, per chi conosce e ama la scuola, è incantevole (ed io ora mi stupisco e mi rammarico di averlo fatto notare così poco, quando ero a scuola: non si apprezza mai abbastanza ciò che si fa tutti i giorni). È un momento di pura contemplazione della bellezza dell’insegnare e dell’apprendere, “poesia della scuola” allo stato puro. «Posto avea fine al suo ragionamento / l’alto dottore, e attento guardava / ne la mia vista s’io parea contento» (vv. 1-3). Contento, certe volte, può essere più di felice, per la solida concretezza della soddisfazione che indica. Quale maestro, dopo che ha finito di parlare, guarda attentamente l’allievo per capire se è contento? Il vero maestro. Colui che, terminata la lezione, passa ad altro come se niente fosse o se ne va per i fatti suoi, non compie un vero atto di amore: il suo è onanismo didattico (una contraddizione in termini). Triste l’insegnante che quando fa lezione guarda solo il suo libro, i suoi appunti, il suo registro (e oggi, ahimé, il computer che ingombra la sua cattedra), meschine protesi dei suo io. Vero maestro, mi pare, è solo colui che sa guardare i discepoli. Guardare gli alunni – e “vederli”, che è la cosa più difficile! – è una parte essenziale dell’arte di fare scuola: guardare le facce, decifrare gli sguardi, la mimica dei volti e le posture; perfino captare i commenti bisbigliati al compagno di banco; intuire chi è presente a ciò che egli sta dicendo e chi invece è fuori, perso da tutt’altra parte; scovare le obiezioni inespresse o addirittura inconsapevoli: questo è ciò che deve saper fare il maestro (e solo chi non sa nulla di tutto ciò può parlare seriamente di “didattica a distanza”!). È impegnativo, ma non difficile, conoscere bene la materia che si insegna; non è poi così arduo nemmeno spiegarla in modo efficace e accattivante, se si è portati per la comunicazione verbale; ma per essere capaci di “vedere” gli alunni, tutti gli alunni, occorre una grazia, un dono speciale che esige, per essere meritato, molto amore e molta umiltà. Io non li ho avuti, ma almeno capisco che ci sarebbero voluti, perché il compito è quasi sovrumano. Virgilio qui ha un solo discepolo: cor ad cor loquitur, e benché nemmeno in questo caso l’attenzione sia garantita (questa meravigliosa terzina ce lo fa capire bene, “costringendoci” a contemplare una pausa che pausa non è, bensì il cuore di tutto il processo formativo), ci sembra per così dire più naturale che il maestro ce l’abbia. Ma in una scuola normale, un maestro ha davanti venticinque studenti. Quanti ne “vede”, e quanti gli restano invisibili? (Se ci fosse un mezzo per contarli, questo sarebbe il vero indicatore per valutare la qualità degli insegnanti e magari differenziare gli stipendi).

Segue «e io, cui nova sete ancor frugava,» (v. 4): altro che “contento”! Una buona lezione lascia il buon discepolo felicemente insoddisfatto; «di fuor tacea, e dentro dicea: “Forse / lo troppo dimandar ch’io fo li grava”» (vv. 5-6): due versi che valgono più di un’intera biblioteca pedagogica. Io ho insegnato solo nelle scuole superiori e all’università e posso dire che “fuor tacea” è quello che ogni studente che arriva fin lì ha immancabilmente imparato dal suo percorso precedente. Allineati e coperti. Stare bassi e scamparla. “Dentro dicea” è dove il maestro dovrebbe riuscire ad arrivare. Delle volte è un continente, più spesso un’isoletta, comunque terra incognita per la maggior parte di noi che stiamo in cattedra. “Forse / lo troppo dimandar ch’io fo li grava” è l’epitome di tutti gli equivoci che si annidano nella relazione educativa, la aduggiano e la soffocano. Così la “scuola” diventa il luogo in cui si danno quintali di risposte a domande che non ci sono.

Non qui. «Ma quel padre verace, che s’accorse / del timido voler che non s’apriva» – è proprio del padre accorgersi del bisogno del figlio – «parlando, di parlar ardir mi porse» (vv. 7-9). La parola magistrale: non una parola che dice tutto e lascia l’altro ammutolito, ma una parola che parlando porge “di parlar ardir”. Parola che dà la parola.

«Ond’io: “Maestro, il mio veder s’avviva / sì nel tuo lume, ch’io discerno chiaro / quanto la tua ragion parta o descriva» (vv. 10-12): la luminosità dei versi certifica che il discepolo ha davvero capito la spiegazione del maestro. Quando uno ha chiara una cosa, sa anche dirla, e di solito la dice bene. «Però ti prego, dolce padre caro, / che mi dimostri amore, a cui reduci / ogni buono operare e ‘l suo contrario» (vv. 13-15). “Dimostrare l’amore” è stupefacente. Chiedere che sull’amore si dica con la stessa adamantina chiarezza con cui si dimostra un teorema! Eppure questa pretesa, così assurdamente euclidea da poter sbocciare soltanto da una una mente ed un cuore giovane, non sgomenta il buon maestro (o padre, come insistentemente l’altro lo chiama): «”Drizza”, disse, “ ver’ me l’agute luci / de lo ‘ntelletto, e fierti manifesto / l’error de’ ciechi che si fanno duci» (vv. 15-18). Una scuola così è esigente, ardimentosa e anche un po’ sprezzante dell’ignoranza dei falsi maestri.

Con questo piglio, comincia la terza e ultima parte della grande lezione sulla libertà e sull’amore che Dante mette al centro della Commedia.

Dalla scuola all’ospedale psichiatrico, per direttissima. A voi sembra normale?

09 domenica Mag 2021

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Italia, libertà

Per come la sappiamo noi – ma il fatto che non siano giunte forti e convincenti smentite è già di per sé indicativo ed inquietante – la vicenda si sarebbe svolta così. Un ragazzo di diciotto anni, studente in una scuola superiore di Fano, si è rifiutato di indossare la mascherina in classe e per protesta si è incatenato al banco. Il sindaco di Fano ha disposto per lui il Trattamento Sanitario Obbligatorio e il ragazzo è stato immediatamente prelevato da scuola e coattivamente rinchiuso nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Pesaro, dove resterà presumibilmente fino a mercoledì prossimo, quando scade il limite di sette giorni previsto dalla legge.

Sia ben chiaro: qui non è in questione il torto o la ragione della sua protesta, ma esclusivamente il modo con cui l’autorità pubblica, scolastica prima, sanitaria (il T.S.O. deve essere avallato da due medici) e politica poi, hanno trattato questo ragazzo di diciotto anni. Diamo pure per assodato che abbia sbagliato: vi sembra normale, vi sembra accettabile che una scuola (una scuola!), di fronte ad un atto di protesta, che certo configurava una violazione del suo ordinamento interno ma che, a quanto risulta, non metteva in pericolo l’incolumità di alcuno e nemmeno produceva danni alle cose, abbia reagito – una volta esaurite le possibilità di dialogo educativo, che vogliamo sperare siano state esperite tutte! – non con dei provvedimenti disciplinari proporzionati (ad esempio una sospensione) ma con il ricorso alla forza pubblica? Vi sembra normale, vi sembra accettabile che, a sua volta, il sindaco abbia disposto una misura estrema quale il T.S.O – che, ricordiamolo, rappresenta una deroga eccezionale al principio garantito dall’art. 32 della Costituzione, giustificabile quando non vi siano alternative – in una situazione in cui, a quanto si sa, non si era in presenza di un comportamento violento e incontenibile? Davvero non c’erano soluzioni diverse dall’internamento in ospedale psichiatrico? A quanto riferisce il deputato Armando Siri, che meritoriamente è andato a visitare il ragazzo per informarsi direttamente della situazione, egli non viene attualmente trattato con psicofarmaci, ma solo trattenuto in reparto, il che mi pare un ulteriore indizio che non vi fosse e non vi sia una “emergenza psichiatrica” da tamponare d’urgenza. Dunque?

Ma la cosa in assoluto più grave è che su una vicenda come questa non si sia fino ad ora sollevata nel paese quasi nessuna reazione. Che cosa siamo diventati? I paesi in cui i dissidenti andavano in manicomio, una volta, erano altri. E qui da noi si protestava anche per loro. Arrivata la notizia che una cosa del genere era successa in un liceo italiano, una volta nelle scuole di tutta Italia la reazione ci sarebbe stata e come, e le autorità sarebbero state costrette a rendere ragione del loro operato. L’idea stessa della forza pubblica che entra a scuola, prende uno studente e lo porta in ospedale psichiatrico ci avrebbe fatto orrore.

Magari le autorità hanno ragione, magari possono dimostrare che quello era l’unico modo di agire. Però si devono giustificare, devono render conto, come è giusto che sia in una democrazia. La libertà dei cittadini è il bene più prezioso che, insieme alla vita, lo stato deve tutelare. Se si può prendere un ragazzo da scuola e schiaffarlo in ospedale psichiatrico senza che nessuno dica niente è proprio finita.

Lo scisma.

07 venerdì Mag 2021

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Chiesa, scisma

Se avverrà, lo scisma tedesco che alcuni prevedono, sarà un grande male. Uno scisma nella chiesa è sempre una cosa terribile perché non è semplicemente la rottura di una umana aggregazione, la separazione di un gruppo da un altro, la fine di una società: è la lacerazione del corpo di Cristo. L’unità della chiesa, infatti, non è opera delle nostre mani, ma un dono di Dio e di conseguenza una nostra responsabilità. Romperla significa disprezzare e rifiutare quel dono. Lo scisma, ogni scisma, sotto questo aspetto è dunque un’offesa a Dio, quali che siano le “buone ragioni” che può avere. Scisma non è una parola che si possa pronunciare a cuor leggero, e augurarselo è addirittura una bestemmia.

Tuttavia, se lo scisma tedesco non ci sarà, come altri pensano e come anche a mio modesto avviso è più probabile, sarà ancora peggio perché non significherà che la chiesa avrà recuperato l’unità della comunione di fede speranza e carità, ma piuttosto che si farà finta di niente. Gli ecclesiastici, i funzionari e gli impiegati stipendiati della chiesa in Germania (perché di costoro, in buona sostanza, si tratta: a questo pare infatti che si sia ridotta gran parte di quella chiesa, tanto ricca di soldi quanto povera di fedeli) andranno avanti per la loro strada, in pieno contrasto e plateale disprezzo della dottrina che la chiesa ha sempre affermato di avere ricevuto dal Signore, e il papa farà finta di niente. Ora, “far finta di niente” è una pratica che, entro certi limiti, si è sempre usata nella chiesa, talvolta perfino con buone ragioni. Stavolta però, se le cose andranno così, l’ambiguità e la dissimulazione saranno estese praticamente senza limiti, con la pratica licenza per tutti di continuare a dirsi cattolici credendo e facendo qualsiasi cosa. E questa sarà un’offesa a Dio forse ancor più grave dello scisma.

Spero di sbagliarmi. Quando c’è di mezzo la potenza di Dio, tertium datur (e magari anche quartum, quintum … chi lo sa, forse si può arrivare fino a settanta volte sette).

A scuola da Dante. Oggi una lezione sull’amore. (#Dante, Purgatorio, canto XVII, vv. 91-139)

06 giovedì Mag 2021

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#Dante, amore, discriminazione, morale, nichilismo, scelta, scuola

Sortendo perigliosamente dall’inferno della demenza che ci assedia da ogni parte, ci avventuriamo in silenzio, per non farci scoprire, sino alla porta della scuola dantesca dell’intelligenza. Bussiamo, entriamo con un po’ di timore e ci sediamo sulla panca: qui non ci sono banchi (né tantomeno i ridicoli girelli che quel tale l’anno scorso comprò), è una scuola povera, senza ausilii e strumenti didattici: niente computer, niente libri e quaderni, c’è solo un maestro che parla e spiega le cose a noi che ascoltiamo, pensiamo e mandiamo a memoria. Sentiamo che cosa ha da dirci Dante, tramite il suo Virgilio, a proposito dell’argomento forse più trattato e meno compreso di tutti: l’amore. Non sarà una lezione definitiva – nessuna lezione umana lo è – né ci convincerà del tutto (del resto, siamo solo a metà del corso di studi e avremo modo di ritornarci), ma insegna qualcosa di essenziale e in modo così limpido che tutti lo possono capire. Perciò fiorisce in questi versi (a torto considerati “didascalici” da certi lettori, come se fosse una pecca) quella che potremmo chiamare la “poesia dell’intelligenza”; la bellezza del vedere nitidamente ciò che prima era confuso.

I due pellegrini sono arrivati al bordo della quarta cornice, ma ormai il sole è tramontato e Dante avverte che le gambe non lo reggono più: con le tenebre, come sappiamo, nel Purgatorio non si avanza (cfr. vv. 70-75). Come alpinisti durante una scalata (ma Dante, che, come tutti gli uomini del medioevo, sulle montagne non ci si arrampicava, usa un’altra similitudine, marina addirittura), i due si apprestano a passare la notte su quella cengia e lo zelante discepolo chiede subito al maestro di spiegargli dove si trovano, acciocché non si perda tempo (cfr. vv. 76-84). «L’amor del bene, scemo / del suo dover, quiritta si ristora» (vv. 85-86) risponde Virgilio, anticipando, con la solita tecnica che ormai conosciamo bene, nella prima parola tutto ciò che seguirà. Quando il discepolo fa una domanda, il cattivo maestro (o piuttosto il non-maestro) non risponde; il maestro mediocre risponde e basta; il buon maestro risponde ma la scava, la riprende e la rilancia, magari suscitando altre domande. Dunque, posto che qui stanno gli accidiosi, cioè coloro che non hanno amato quanto dovevano, Virgilio si mette a spiegare che cos’è l’amore, e come ci si deve regolare con esso.

«“Né creator né creatura mai”, / cominciò el, “figliuol, fu sanza amore, / o naturale o d’animo; e tu ‘l sai”» (vv. 91-93). Ma quanto è bello questo esordio che, con l’aria di dire una cosa ovvia, mette sullo stesso identico piano – quello dell’amore, appunto – il Creatore e ogni creatura! (Compreso il moscerino della frutta di cui mi dicono che abbia malamente parlato l’altra sera in televisione una tizia). Ama Dio e ama anche l’ameba. Nessuno è senza amore, tutto è amore. Ma questa affermazione non ha nulla dell’ebetudine con cui tanti la sottoscriverebbero oggi. Vediamo.

Tanto per cominciare di amore ce ne sono due. «Lo naturale è sempre sanza errore, / ma l’altro puote errar per malo obietto / o per troppo o per poco di vigore» (vv. 94-96). La fisica di Dante è una fisica dell’amore (e così la sua chimica e la sua biologia): amore è la categoria con cui legge tutti i fenomeni naturali. Come fondamento epistemologico, benché non sia il mio mestiere, direi che vale quanto quello delle nostre scienze, ma è molto più bello. «Perché respiro? Perché i mio cuore batte?» «Per amore». “Amore naturale”, non sottoposto alla mia volontà, e questo amore, che è l’unico posseduto dalle piante e dagli animali, è sempre giusto. (Ecco, sia detto per inciso, il motivo più profondo della nostra inclinazione verso le une e gli altri: nostalgia di questa innocenza naturale, a noi preclusa per singolare privilegio. Dunque un sentimento ambiguo, su cui ci sarebbe da riflettere molto per sviscerarne il bene e il male. Ma di questo un’altra volta.)

Poi c’è l’amore voluto, che è sempre una scelta, e dunque – orrore! – una discriminazione. Si sceglie una cosa e si escludono tutte le altre: sempre e comunque. Questo è l’amore di elezione, come lo chiama Dante: dilectio, in latino, cioè proprio scegliere uno scartando tutti gli altri. L’amore di elezione è sempre una preferenza. «Dio mi predilige» dice Sinjavskij nel più fulminante dei suoi Pensieri improvvisi. Perché è così che vogliamo essere amati, sia Dio che noi: prediletti, “amati di più”. Anche Gesù, nel colloquio finale con Pietro, gli chiede se lo ama “più di costoro”. Come sono sciocche, dunque, nel loro fondamento, certe campagne moderne contro l’idea stessa di discriminazione, come se ogni amante non discriminasse ciò che “ama di più” e quindi veramente ama, da ciò che “ama di meno”! Quale amante accetterebbe dall’amata una dichiarazione di essere “amato come tutti gli altri”, o anche solo “come un altro”? Sono ingiuste le discriminazioni ingiuste, ma sempre nella vita si discrimina, perché si ama.

Mentre l’amore naturale è sempre giusto, l’amore di elezione può essere sbagliato. Questo andrebbe scritto a caratteri cubitali dappertutto, insegnato nelle scuole e ripetuto in televisione: amare può essere sbagliato. Perché qua tutti credono che se una cosa è “per amore” questo la giustifichi, o quantomeno la nobiliti. Invece l’amore può essere ingiusto se si ama qualcosa che è male o si ama qualcosa che è bene ma in maniera inadeguata all’oggetto, per eccesso o per difetto. E su questo non ci piove: quartum non datur. Se si ama il male, o se si ama troppo un bene che non lo merita, o troppo poco un bene che esigerebbe più amore, si ama male. C’è dunque una gerarchia nell’amore, un ordine da rispettare, delle regole da seguire: tutte cose che noi, dal romanticismo in poi, siamo riluttanti a correlare all’amore. Fromm avrebbe detto che c’è un ars da apprendere, una competenza amorosa da acquisire, ma non è solo questo il problema.

Intanto, ci dice Virgilio, fissiamo un punto: «Quinci comprender puoi ch’esser convene / amor sementa in voi d’ogni virtute / e d’ogni operazion che merta pene» (vv. 103-105). Abituiamoci a pensare che anche i peggiori crimini sono commessi “per amore”. Per un cattivo amore, certamente; ma sempre amore è. (Noi invece abbiamo addirittura inventato l’improbabile categoria dei “crimini d’odio”, come se ci fosse un crimine non d’odio, cioè non di “amore pervertito”).

Fin qui, il ragionamento dantesco è cogente: le due terzione seguenti, invece, mi paiono quanto mai controvertibili, ma si deve tener conto che lo scopo di questa lezione è spiegare come lo schema del «triforme amor» che è stato sopra delineato si applichi a quello dei sette peccati capitali in base al quale è organizzata la topografia del Purgatorio. Coordinare i due ordini, spiegando come il secondo si riassuma nel primo, non è semplicissimo e questo obbliga il maestro Virgilio ad una certa forzatura: poiché «mai non può da la salute / amor del suo subietto volger viso», egli sostiene, «da l’odio proprio son le cose tute» (vv. 106-108). L’esperienza dice un’altra cosa: l’odio di sé, cioè l’amore del proprio male, del proprio annientamento, purtroppo esiste. Si può accogliere, dalle parole di Virgilio, il suggerimento che l’odio di sé è difficile da avere: anche il più radicale dei nichilisti, finché respira, aderisce all’amore naturale per se stesso, anche solo per il semplice fatto di continuare a respirare. Però è pur vero che ogni tanto un nichilista si uccide, e abbiamo già visto nell’Inferno che il suicidio resta incomprensibile anche a Dante: inconcepibilità che è il sigillo del male assoluto. Fossimo lì in classe con Dante e Virgilio, noi obietteremmo (se ne avessimo il coraggio) che “l’odio di sé” esiste. Noi che veniamo da un tempo disgraziato in cui un’intera cultura, che era la nostra, sembra oggi pervasa da ondate di odio di sé, delle proprie radici, della propria passata grandezza …

Poi Virgilio sostiene anche che «perché intender non si può diviso, / e per sé stante, alcun esser dal primo, / da quello odiare ogne effetto è deciso» (vv. 109-111), cioè che non è possibile neanche odiare Dio (il che equivale ad amare il suo male, la sua morte), poiché nessuna creatura può concepirsi come divisa da Lui, che è l’Essere. Anche qui c’è una parte di verità che andrebbe approfondita (quella per cui anche Nietzsche intuiva che non ci si poteva sbarazzare di Dio finché c’è la grammatica: qualunque enunciato implica l’essere e l’Essere è Dio), ma ora lasciamo stare: ci basta considerare che, una volta ammesso che la creatura può odiare se stessa, ne consegue anche la possibilità dell’odio di Dio. Al professore però importa arrivare alla conclusione «che ‘l mal che s’ama è del prossimo» (v. 113) e a questo principio riconduce, in modo non brillantissimo a dire il vero, i tre peccati della superbia, dell’invidia e dell’ira delle cornici che abbiamo già attraversato (cfr. vv. 115-123).

A questo punto, però avviene il miracolo poetico a cui alludevo prima: cominciando a parlare dell’amore «che corre al ben con ordine corrotto» (v. 126) il cuore si scalda, lo sguardo si innalza e si raffina e quella che era una buona lezione liceale si trasforma in un canto purissimo: «Ciascun confusamente un bene apprende / nel qual si questi l’animo, e disira; / per che di giugner lui ciascun contende. // Se lento amore a lui veder vi tira / o a lui acquistar, questa cornice, / dopo giusto penter, ve ne martira. // Altro ben è che non fa l’uom felice; / non è felicità, non è la buona / essenza, d’ogni ben frutto e radice. // L’amor ch’ad esso troppo s’abbandona, / di sovr’a noi si piange per tre cerchi; / ma come tripartito si ragiona, // tacciolo, acciò che tu per te ne cerchi» (vv. 127-139).

Qui c’è, in nuce, tutta la morale cristiana: quella terribile morale della chiesa che il mondio teme, odia e calunnia tanto: infinita comprensione del nostro confuso desiderio di bene e chiara coscienza del fatto che dove lo cerchiamo non c’è. Tutti i famigerati divieti della morale cristiana si riducono a questo paterno avvertimento: “ciò che brami, non ti farà felice”.

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