Nei giorni scorsi si è parlato molto della sesta domanda del Padre Nostro (Mt 6,13; Lc 11,4) per via dell’espressione «non ci indurre in tentazione», che, come ha detto papa Francesco, non sarebbe una buona traduzione. Che sia un’espressione problematica è vero, ma la difficoltà non sta nella traduzione, che è fedele, bensì nel testo originale: μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν vuol dire proprio “non ci portare nella tentazione”. Il verbo εἰσφέρω significa “portare in”, “condurre” e, se si può ammettere che nell’italiano “indurre” vi sia una sfumatura di intenzionalità e forse anche di forzatura dolosa, che qui risultano fuori posto, si deve anche riconoscere onestamente che altre traduzioni che sono state proposte, come “non lasciarci cadere nella tentazione” o “non ci abbandonare nella tentazione” si allontanano molto di più dal dettato evangelico. Se nel vangelo c’è scritto “non portare”, è lecito cancellarlo e soprascrivere “non abbandonare”?
Al di là del caso specifico, mi pare importante osservare che, di fronte alle “difficoltà del cristianesimo” (siano esse di natura esegetica e riferite alla Scrittura, come in questo caso, o derivanti dalle formulazioni dogmatiche oppure dalle norme morali dell’insegnamento cristiano) ci sono, fondamentalmente, due atteggiamenti. Uno è quello di spianare tali difficoltà, perché “gli uomini del nostro tempo non possono capire / accettare” questo o quell’altro aspetto della fede cristiana. Di conseguenza, in base a questo criterio ermeneutico (che può finire per diventare, surrettiziamente, la regula fidei) di quel che appare incomprensibile/inaccettabile, qualcosa si tace, qualcos’altro si spiega, qualcos’altro ancora si cambia. Beninteso, l’esigenza di comunicare il vangelo di Gesù Cristo in modo che sia comprensibile agli uomini che ne ascoltano l’annuncio è sacrosanta: corrisponde a un preciso dovere dei cristiani ed è nel solco della condotta di Gesù stesso. «Mi sono fatto tutto a tutti», la bussola dell’impresa missionaria di Paolo, è un criterio permanentemente valido per l’evangelizzazione. Ma il pericolo di snaturare la proposta cristiana è incombente.
L’esigenza di “comprensibilità” può richiedere che anche nel caso di “passi difficili” delle Scrittura si operino talvolta delle scelte che tagliano corto rispetto al groviglio di problemi esegetici che essi comportano. Senza andare troppo lontano, c’è nel Padre Nostro un altro punto oscuro di cui curiosamente in questi giorni mi pare che non si sia parlato, proprio perché in questo caso una traduzione “facile” (ma molto discutibile) ha provveduto a sanare, occultandola, la difficoltà. Poco prima di chiedere a Dio Padre di «non indurci in tentazione» (scandalizzando l’uomo moderno), Gesù ci ha insegnato a chiedergli di darci «oggi il nostro pane quotidiano», e questo l’uomo moderno lo capisce benissimo, anzi lo trova molto appropriato e vicino alle sue istanze sociali. Peccato però che nel vangelo ci sia scritto τὸν ἄρτον ἡμῶν τὸν ἐπιούσιον (Mt 6,11), che non è proprio la stessa cosa. Il fatto è che non si sa bene che cosa voglia dire l’aggettivo epiousios, che si trova praticamente solo qui. Reso alla lettera, significa “sovrasostanziale” (da epi + ousia, che è un termine quanto mai pregnante e complesso della lingua greca: in senso materiale significa “sostanze”, “beni”, poi in ambito filosofico assume il valore di “essenza”, “natura di una cosa”, “sostanza”). Non è il caso qui di entrare nella disputatissima questione: basterà notare, en passant, che per buona parte dell’esegesi patristica, a partire da Origene, quel rarissimo aggettivo scovato dagli evangelisti va inteso come indicazione che il pane che Gesù ci fa chiedere al Padre è quello spirituale, non quello materiale (che dobbiamo procurarci col lavoro delle nostre mani).
L’esegesi patristica, però, ha un’altra cosa ben più importante da insegnarci, ed è il secondo atteggiamento da avere di fronte alle “difficoltà del cristianesimo”. I Padri, partendo dalla fede nella rivelazione biblica, che è tutta vera, tutta santa, tutta utile per la salvezza, non sono animati dalla volontà di “spianare” le difficoltà, le oscurità e persino gli aspetti a prima vista incresciosi della Scrittura, ma al contrario riconoscono in quelle “asperità” un aiuto provvidenziale a non fermarsi alla lettura più ovvia e superficiale, ma ad approfondire lo studio e la comprensione del testo per attingere ad un senso spirituale che spesso è arduo da raggiungere. Quando la lettera è difficile, oscura o scandalosa, lì c’è un pozzo da scavare.
Non è solo un principio di metodo esegetico, è anche un criterio generale dell’esistenza cristiana. Impariamo dunque ad amare e a valorizzare, in ciò che del cristianesimo ci è difficile da capire e da accettare, la “crepa” che può farci penetrare in una profondità di coscienza che, senza, ci resterebbe ignota.
Un’ultima annotazione: anche Origene trovava difficile da digerire quel versetto del Padre Nostro, ma per ragioni opposte alle nostre. Per lui, infatti, come ha scritto Lorenzo Perrone, «è impensabile che il Signore ci insegni a pregare perché non siamo sottoposti alla tentazione, quando l’intera vita dell’uomo sulla terra si svolge nel segno della “prova”. […] Nessuno è escluso dalla tentazione, neppure coloro che sono avanzati sul cammino della perfezione […] non v’è momento della vita che sfugga alla “tentazione” e al rischio di peccare insito in essa», ma «Origene afferma che le prove a cui gli uomini sono sottoposti sono volute da Dio per la loro maturazione e salvezza. Egli non abbandona nessuno al proprio destino, specialmente coloro che, “entrati in tentazione”, non sono stati capaci di reggere ad essa» (L.Perrone, La preghiera secondo Origene. L’impossibilità donata, Brescia: Morcelliana, 2011, pp.234-236. Sull’interpretazione origeniana del Padre Nostro, tutte le pp.195-239 sono da leggere).