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  • La chiesa e la crisi degli anni sessanta.

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~ Vanitas ludus omnis

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Archivi Mensili: dicembre 2017

Un prete apostata.

30 sabato Dic 2017

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apostasia

Se avete lo stomaco forte, e volete farvi del male, guardate questo documento filmato: https://www.youtube.com/watch?v=rh-to4fQA1w.

Al minuto 26.45 ascolterete un prete della chiesa cattolica compiere un atto formale di apostasia dalla fede, commettendo pubblicamente il peccato di impugnare la verità conosciuta (uno dei peccati contro lo Spirito Santo, nel catechismo che hanno insegnato a noi).

Mi colpisce  che, almeno per quanto si capisce dal filmato, nessuno in chiesa reagisca o protesti. Tutto normale, dunque.

Piccola apologia dell’infanzia e della vecchiaia (nella Festa dei Santi Innocenti)

28 giovedì Dic 2017

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bambini, Marguerite Yourcenar, Santi Innocenti, vecchiaia

L’immaturità dei “cattolici adulti”, che vanno per la maggiore nella chiesa di oggi, non può capirlo, ma il tempo di Natale è anche un pressante invito a stare di fronte al mistero salvifico dell’infanzia. Di fronte al bambino che è Dio, innanzitutto; ma, particolarmente oggi, di fronte al fatto che i primi in assoluto a dare la vita per Cristo (i veri protomartiri, in un certo senso) sono dei bambini: i Santi Innocenti, come la tradizione li chiama, con un nome bellissimo.

Da vecchi, si aggiunge a questo impegno l’opportunità (per non dire la necessità) di stare di fronte a quell’altro – più controverso, e difficile da sceverare – mistero salvifico che è ambiguamente contenuto e come avviluppato nella vecchiaia. Riporto una riflessione di Marguerite Yourcenar: «Più invecchio anch’io, più mi accorgo che l’infanzia e la vecchiaia non solo si ricongiungono, ma sono i due stati più profondi in cui ci è dato vivere. In essi si rivela la vera essenza di un individuo, prima o dopo gli sforzi, le aspirazioni, le ambizioni della vita. […] Gli occhi del fanciullo e quelli del vecchio guardano con il tranquillo candore di chi non è ancora entrato nel ballo mascherato oppure ne è già uscito. E tutto l’intervallo sembra un vano tumulto, un’agitazione a vuoto, un inutile caos per il quale ci si chiede perché si è dovuto passare».

Non ha pienamente ragione, la scrittrice francese, perché nel “teatro del mondo” quella che si mette in scena non è, ultimamente, una mascherata, per il semplice fatto che Dio ci guarda. È lo sguardo del “divino spettatore” quello che fonda e assicura comunque, in qualunque istante della nostra vita, la consistenza e la verità di tutto. Però, se ci limitiamo all’orizzonte terreno dei nostri sguardi, è pur vero che «gli occhi del fancillo e quelli del vecchio» – beninteso, purché non sia uno dei tanti “vecchi malvissuti” che della vecchiaia sono condannati a perdere qualsiasi guadagno – «guardano con tranquillo candore» tante cose che agli “adulti” sembrano serie, importanti e belle, e invece non lo sono.

Deboli i bambini, deboli i vecchi. Forti entrambi della loro debolezza, se la consegnano al divino fanciullo.

Di Sua iniziativa.

25 lunedì Dic 2017

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Natale

È venuto Lui. Di Sua iniziativa. Gli uomini non glielo avevano chiesto: non immaginavano nemmeno che la si potesse chiedere, una cosa del genere, a Dio. Le religioni avevano insegnato loro a supplicare Dio di non fargli del male; se possibile di aiutarli nei loro affari; in ogni caso, almeno, di lasciarli in pace. Di essere favorevole, o quantomeno di non essere ostile: non di venire Lui a casa nostra. Anche quelli che lo attendevano veramente (i “profeti”), non si aspettavano questo.

Invece è venuto Lui: senza che glielo avessimo chiesto, senza che lo avessimo meritato. È venuto, come talvolta succede che bussino alla porta e sia un ospite di riguardo, inaspettato, che ci entra in casa ma la casa è tutta in disordine, noi non siamo pronti e, a dire il vero, avremmo anche altro da fare, per cui se se ne andasse … ma come si fa … ormai è qui.

Lui, però, è venuto a casa sua. Perché il mondo è casa sua, è suo. Ma «il mondo non lo ha riconosciuto» e «i suoi non l’hanno accolto». Per una manciata di secoli, gli si è fatta un po’ di festa, ci si è sforzati di sentire un po’ di emozionata gratitudine per la visita, e anche adesso un pochino lo si fa ancora, ma sempre meno: i più cercano di far festa ignorandolo e alcuni ormai non sopportano più la festa stessa (vorrebbero tenersi semmai solo le ferie).

Le religioni insegnano agli uomini due cose: costruire scale per arrivare più vicini a Dio e costruire case in cui farlo abitare. Ma che cosa c’è di sbagliato nel voler costruire una casa per Dio – come abbiamo letto ieri nel brano dal secondo libro di Samuele, a proposito del re Davide? Tutto. Perché su Dio l’uomo non può fare progetti né prendere iniziative nei suoi riguardi. L’iniziativa è tutta e solo di Dio.

È venuto Lui. E da allora ce l’abbiamo in casa, ci piaccia o non ci piaccia; in questa casa che, a dire il vero, è sua e non nostra (noi siamo solo inquilini della nostra vita, in comodato d’uso gratuito). Pochi ne sono con vera consapevolezza contenti; i più se ne approfittano, perché è un bambino e i bambini sono deboli. Ma solo chi non conosce i bambini ignora la loro severità. E questo bambino è re.

P.S. la stessa cosa quando viene concepito un uomo. Viene lui. Non può essere il contenuto di un progetto. Per questo l’aborto e la fabbricazione di esseri umani sono le due cose più atee (e perciò anti-umane) che l’uomo possa fare.

In principio, la parola. (Cronaca di un “convito di grazia”)

19 martedì Dic 2017

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Bellezza, giudizio, innominato, krisis, linguaggio, Manzoni

Ieri sera ho assistito ad una straordinaria lettura dei capitoli XXI-XXIII dei Promessi sposi (la notte dell’innominato e il “convito di grazia”) fatta da Franco Branciaroli. Penso che me la ricorderò a lungo, perché non è stato uno spettacolo ma un evento (per una volta, la parola non è sprecata). Un evento linguistico. Branciaroli ha “incarnato”, con la sua voce e con il suo corpo, la parola di Manzoni, pronunciandola integralmente. E quando la parola è integra; quando è esatta; quando aderisce fino in fondo alla realtà che essa nomina; quando sta eroicamente al suo compito, che è di comprenderla, quella realtà, pur sapendo che essa è, in radice, mistero e dunque ultimamente inafferrabile; quando è costata tanta fatica e tanto pensiero, la parola è evento.

Tre riflessioni. La bellezza di quella lingua, di quelle parole così giuste, così “dette bene” (e dunque “benedette”), mi ha certo procurato un piacere intenso e duraturo (lo sento anche adesso, ricordandole), ma non solo questo. La bellezza, infatti, sarà anche disarmata, ma è sempre e comunque critica. La bellezza è un giudizio, contiene un giudizio, perché col suo stesso porsi discerne (cioè discrimina) ciò che le si oppone: il brutto. L’apparire del bello svela quanto sia brutto ciò che non gli corrisponde. Per questo ieri sera pensavo che dovremmo tutti sempre sforzarci di “parlare come Manzoni”, cioè pensando le parole, cercandole, scegliendole … opponendoci, per quanto possiamo, alla menzogna della sciatteria, del pressappoco, del “per modo di dire” e dell’“in qualche modo” (locuzione infestante che segnala oggigiorno la vacuità di tante opinioni che si vorrebbero profonde e invece non lo sono). Pentiamoci di “parlare male”. Anche nella chiesa, dove oggi sembrano avere il sopravvento una sorta di orrore per la chiarezza e la definizione dei concetti, il gusto del parlare ambiguo e l’aspirazione ad una vaghezza che si pretende sia apertura mentre è piuttosto quello che un filosof del Novecento (Romano Amerio) chiamava, con un termine preso da Bruno, circiterismo, cioè un parlare “all’incirca”.

Secondo. La grazia, nel racconto di Manzoni, arriva all’innominato nella forma (che sempre, a pensarci bene, la grazia ha) di un giudizio. Un giudizio non è una sentenza: così purtroppo lo intendono quasi tutti, ai nostri giorni, e pertanto ne hanno paura. Un giudizio è una presenza che, come dicevo prima, provoca una krisis, cioè un paragone che fa vedere ciò che è bello e ciò che è brutto, che cosa è giusto e che cosa è sbagliato, dove sta il bene e dove sta il male. Perché le cose si capiscono sempre due a due, mai da sole. Il giudizio, in quel caso, è Lucia dentro la casa dell’innominato. Senza di esso, la disperazione di quel signore resterebbe informe, inafferrabile: egli non avrebbe alcun criterio per affrontarla. Però quel giudizio, che Lucia è di per se stessa, viene anche verbalizzato, diventa anche un’indicazione operativa: «Dio perdona tante cose per un’opera di misericorda». La chiesa, che nel mondo di oggi è ormai nelle stesse condizioni di Lucia: spaventata, confusa, in ostaggio di un carceriere che sembra onnipotente, parla? Dice quelle parole che solo lei può dire?

Terza osservazione. Nel corso della mia vita avrò letto quelle pagine manzoniane non so mai quante volte e ieri sera, ascoltandole da Branciaroli, mi accorgevo di saperne molti tratti quasi a memoria, però … se molte volte la sua lettura confermava e faceva rivivere in me la coscienza di ciò che già avevo appreso, in altri punti mi ha portato dove non ero mai stato. In particolare, mi ha colpito molto il modo in cui lui, interpretando il dialogo tra l’innominato e il cardinale Federigo, ha collocato il pathos tutto dalla parte del primo, cioè dove era giusto che stesse, e lo ha tolto alle battute del cardinale, dove anch’io (ma me ne accorgo solo adesso, grazie alla sua lettura) abusivamente ne mettevo un bel po’, rischiando poi di trovare quelle sue frasi giuste sì, ma un po’ retoriche. Ci sentivo cioè un’ombra di “sacra eloquenza”, se non di “mestiere ecclesiastico” (come prima di me tanti lettori, anche autorevolissimi, hanno fatto). Invece no: il cardinale Federigo non converte l’innominato, semmai gli spiega, molto semplicemente (quasi freddamente), che la sua conversione sta già avvenendo. Non esorta, enuncia. Non vuole produrre un fatto, ma descriverlo. Pensavo: questo deve fare la chiesa, anche oggi, dire semplicemente agli uomini che cosa sta loro accadendo, nel bene e nel male.

 

Mater et magistra. (Piccola apologia della chiarezza)

16 sabato Dic 2017

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Benedetto XVI, catechismo, chiarezza, Giovanni Paolo II, magistero, Pio X

La prima e più grave povertà è l’ignoranza. Di conseguenza, la prima e più grande carità è l’insegnamento.

Chi di scuola ne capisce, sa che quanto più il discepolo è piccolo e “povero”, tanto più il maestro deve essere chiaro. La chiarezza, dunque è forma della carità intellettuale e l’espressione veritatis splendor, che fu il titolo di una memorabile (ma oggi dimenticata) enciclica di san Giovanni Paolo II, può essere intesa, io credo, prima di tutto in questo senso: l’estetica della verità è al tempo stesso un’etica della verità. Se il pulchrum della verità non fosse anche il suo bonum, quella bellezza potrebbe dare adito ad un “estetismo spirituale”. (Si veda invece Dante, per intuirlo al volo: «Quel sol che pria d’amor mi scaldò ‘l petto, / di bella verità m’avea scoverto, / provando e riprovando, il dolce aspetto»).

La chiesa, «madre e maestra», queste cose le sa(peva). Quando era, nei fatti, più «in uscita», più «ospedale da campo», più attenta alle «periferie esistenziali» di quanto non lo sia, a parole, adesso, essa si prendeva cura di essere chiara e comprensibile a tutti, specialmente ai piccoli e ai poveri.

Chiarissimo, ad esempio, era il catechismo di san Pio X, che tanti di noi hanno imparato quando da bambini andavamo«alla dottrina», e costituisce ancora la vera base di quel poco di alfabetizzazione cristiana che ancora sussiste nel popolo di Dio, al di sopra di una certa soglia anagrafica. Chi vuole può trovarlo qui: http://www.corsiadeiservi.it/public/content/testi%20e%20documenti/Catechismo_PioX.pdf.

Chiaro, articolato e profondo è il Catechismo della Chiesa Cattolica, promulgato da san Giovanni Paolo II nel 1992 (forse il frutto più importante e prezioso del suo pontificato), che ogni cattolico “adulto” (nel senso vero della parola, non in quello sciagurato che si intende oggi) dovrebbe possedere, tenere a portata di mano e consultare spesso.

Chiaro, profondo e molto più sintetico – in modo da poter essere usato da tutti, ma proprio da tutti, con un po’ di aiuto – è il Compendio del catechismo precedente, voluto nel 2005 da Benedetto XVI. È fatto a domande e risposte, secondo un metodo antico e sempre attuale (dalle quaestiones et responsiones, che come i dotti sanno, sono un genere importante nella letteratura cristiana antica, alle FAQ che su internet non mancano mai in qualunque sito che si rispetti, è sempre così che si insegna: rispondendo a delle domande), e inoltre – per espressa volontà del papa – ha anche le figure, perché «domando io, a che serve un libro senza figure né dialoghi?» (come obietta, a nome di tutti i piccoli, Alice).

Eppure, questi strumenti preziosi oggi non se li fila quasi nessuno. Piuttosto si sciorinano lunghi documenti, si distillano sottili analisi teoriche per dimostrare che tutto è complesso, si aggirano i problemi pratici rinviando al “discernimento”, all’“accompagnamento”, ad un “percorso da fare insieme” e ad altri mantra simili.

Ma se i piccoli fanno domande, la «madre e maestra» oggi risponde? E se risponde, lo fa con la chiarezza che è dovuta? E se, come sempre succede, gli ignoranti più sono tali e meno sanno di esserlo e quindi non si pongono neanche le domande, la maestra fa il lavoro preliminare e indispensabile di convincerli della loro ignoranza? (Quello, per capirci, che faceva anche Socrate – pur essendo, diversamente dalla chiesa, lui stesso un ignorante – lavoro che non rende né simpatici né graditi, ma che fa parte anch’esso della più grande carità).

Accanimento terapeutico, eutanasia e stupidità

13 mercoledì Dic 2017

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chiesa italiana, eutanasia, magistero

Entro la fine di questa settimana, quasi certamente, avremo un’altra cattiva legge (che si aggiunge alle troppe che già ci opprimono), formalmente dedicata alle “Disposizioni anticipate di trattamento” (DAT, dette anche “testamento biologico”) ma effettivamente volta a legittimare l’eutanasia omissiva.

Data la cultura e la mentalità dominanti nella nostra società, è logico che ci si arrivi: né l’una né l’altra hanno gli strumenti per opporre valide ragioni a un esito di questo genere. Però è totalmente stupido che una decisione di questa portata, che ha effetti tanto penetranti sulla vita di ciascuno di noi (letteralmente, è questione di vita o di morte) venga presa in questo modo frettoloso e incosciente. Le persone comuni mi pare che ne sappiano (e ne capiscano) assai poco, in parte per colpa loro ma in parte per colpa di un sistema di informazione (!) che non informa e non spiega nulla. È lecito temere che poco ne sappiano e meno ne capiscano i politici che, pure, sono gli esecutori materiali del processo legislativo che tra poche ore ci regalerà quest’altro mostro giuridico.

Quanto alla domanda se la chiesa italiana stia facendo tutto il suo dovere, come “agenzia di saggezza” al servizio degli uomini (se anche non la vogliamo considerare nel suo ruolo di mater et magistra dei fedeli), per far ragionare, per far capire, per far riflettere … (poi sia quel che sia, almeno ci abbiamo provato), beh, la lascio aperta …

Ma  non è su problemi come questo che si dovrebbe aprire nel paese un approfondito dibattito politico e culturale? Se non si discute di questo, di che cosa mai si dovrebbe parlare? Ma cultura e politica, oramai, non abitano più qui. Qui si misura quanto sono vere la parole, tante volte citate, di Milosz: «Si è riusciti a far capire all’uomo che se vive è solo per grazia dei potenti. Pensi dunque a bere il caffè e a dare la caccia alle farfalle. Chi ama la res publica avrà la mano mozzata»

Chi vuole sapere di che cosa stiamo parlando, legga per favore almeno i due articoli scritti da una persona competente e seria come Roberto Colombo, qui: http://www.ilsussidiario.net/News/Cronaca/2017/12/12/BIOTESTAMENTO-Legge-sulla-Dat-la-trappola-del-suicidio-medicalmente-assistito/796831/, e qui: http://www.ilsussidiario.net/News/Cronaca/2017/12/13/BIOTESTAMENTO-Papa-Francesco-la-legge-sulle-Dat-e-il-gioco-di-prestigio-sull-eutanasia/796967/. Penso che domani ce ne sarà un terzo, ugualmente da non perdere.

(Una sola annotazione: nel secondo articolo, Colombo se la prende, giustamente, con i sostenitori dell’eutanasia che hanno strumentalizzato il recente intervento di papa Francesco nel messaggio del 7 novembre ai partecipanti ad un convegno dell’Associazione Medica Mondiale, arruolandolo abusivamente tra le proprie file.

È vero che il papa non ha detto affatto quello che gli vogliono far dire, però: se in una situazione come la presente – sapendo di essere, fra le altre cose, il vescovo di Roma e il primate d’Italia e scrivendo in italiano un testo che inevitabilmente qui da noi sarebbe stato oggetto di attenzione prevalentemente nell’ottica della discussione sulla legge – egli ha messo l’accento soprattutto sul rifiuto dell’accanimento terapeutico, come se questa fosse l’emergenza del momento, ciò significa, quantomeno, che non si è curato degli effetti che il suo intervento poteva avere. Il che, volgarmente, si direbbe: un po’ se l’è cercata).

Non ci indurre in tentazione.

11 lunedì Dic 2017

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difficoltà del cristianesimo, esegesi patristica, Origene, Padre Nostro, traduzioni

Nei giorni scorsi si è parlato molto della sesta domanda del Padre Nostro (Mt 6,13; Lc 11,4) per via dell’espressione «non ci indurre in tentazione», che, come ha detto papa Francesco, non sarebbe una buona traduzione. Che sia un’espressione problematica è vero, ma la difficoltà non sta nella traduzione, che è fedele, bensì nel testo originale: μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν vuol dire proprio “non ci portare nella tentazione”. Il verbo εἰσφέρω significa “portare in”, “condurre” e, se si può ammettere che nell’italiano “indurre” vi sia una sfumatura di intenzionalità e forse anche di forzatura dolosa, che qui risultano fuori posto, si deve anche riconoscere onestamente che altre traduzioni che sono state proposte, come “non lasciarci cadere nella tentazione” o “non ci abbandonare nella tentazione” si allontanano molto di più dal dettato evangelico. Se nel vangelo c’è scritto “non portare”, è lecito cancellarlo e soprascrivere “non abbandonare”?

Al di là del caso specifico, mi pare importante osservare che, di fronte alle “difficoltà del cristianesimo” (siano esse di natura esegetica e riferite alla Scrittura, come in questo caso, o derivanti dalle formulazioni dogmatiche oppure dalle norme morali dell’insegnamento cristiano) ci sono, fondamentalmente, due atteggiamenti. Uno è quello di spianare tali difficoltà, perché “gli uomini del nostro tempo non possono capire / accettare” questo o quell’altro aspetto della fede cristiana. Di conseguenza, in base a questo criterio ermeneutico (che può finire per diventare, surrettiziamente, la regula fidei) di quel che appare incomprensibile/inaccettabile, qualcosa si tace, qualcos’altro si spiega, qualcos’altro ancora si cambia. Beninteso, l’esigenza di comunicare il vangelo di Gesù Cristo in modo che sia comprensibile agli uomini che ne ascoltano l’annuncio è sacrosanta: corrisponde a un preciso dovere dei cristiani ed è nel solco della condotta di Gesù stesso. «Mi sono fatto tutto a tutti», la bussola dell’impresa missionaria di Paolo, è un criterio permanentemente valido per l’evangelizzazione. Ma il pericolo di snaturare la proposta cristiana è incombente.

L’esigenza di “comprensibilità” può richiedere che anche nel caso di “passi difficili” delle Scrittura si operino talvolta delle scelte che tagliano corto rispetto al groviglio di problemi esegetici che essi comportano. Senza andare troppo lontano, c’è nel Padre Nostro un altro punto oscuro di cui curiosamente in questi giorni mi pare che non si sia parlato, proprio perché in questo caso una traduzione “facile” (ma molto discutibile) ha provveduto a sanare, occultandola, la difficoltà. Poco prima di chiedere a Dio Padre di «non indurci in tentazione» (scandalizzando l’uomo moderno), Gesù ci ha insegnato a chiedergli di darci «oggi il nostro pane quotidiano», e questo l’uomo moderno lo capisce benissimo, anzi lo trova molto appropriato e vicino alle sue istanze sociali. Peccato però che nel vangelo ci sia scritto τὸν ἄρτον ἡμῶν τὸν ἐπιούσιον (Mt 6,11), che non è proprio la stessa cosa. Il fatto è che non si sa bene che cosa voglia dire l’aggettivo epiousios, che si trova praticamente solo qui. Reso alla lettera, significa “sovrasostanziale” (da epi + ousia, che è un termine quanto mai pregnante e complesso della lingua greca: in senso materiale significa “sostanze”, “beni”, poi in ambito filosofico assume il valore di “essenza”, “natura di una cosa”, “sostanza”). Non è il caso qui di entrare nella disputatissima questione: basterà notare, en passant, che per buona parte dell’esegesi patristica, a partire da Origene, quel rarissimo aggettivo scovato dagli evangelisti va inteso come indicazione che il pane che Gesù ci fa chiedere al Padre è quello spirituale, non quello materiale (che dobbiamo procurarci col lavoro delle nostre mani).

L’esegesi patristica, però, ha un’altra cosa ben più importante da insegnarci, ed è il secondo atteggiamento da avere di fronte alle “difficoltà del cristianesimo”. I Padri, partendo dalla fede nella rivelazione biblica, che è tutta vera, tutta santa, tutta utile per la salvezza, non sono animati dalla volontà di “spianare” le difficoltà, le oscurità e persino gli aspetti a prima vista incresciosi della Scrittura, ma al contrario riconoscono in quelle “asperità” un aiuto provvidenziale a non fermarsi alla lettura più ovvia e superficiale, ma ad approfondire lo studio e la comprensione del testo per attingere ad un senso spirituale che spesso è arduo da raggiungere. Quando la lettera è difficile, oscura o scandalosa, lì c’è un pozzo da scavare.

Non è solo un principio di metodo esegetico, è anche un criterio generale dell’esistenza cristiana. Impariamo dunque ad amare e a valorizzare, in ciò che del cristianesimo ci è difficile da capire e da accettare, la “crepa” che può farci penetrare in una profondità di coscienza che, senza, ci resterebbe ignota.

Un’ultima annotazione: anche Origene trovava difficile da digerire quel versetto del Padre Nostro, ma per ragioni opposte alle nostre. Per lui, infatti, come ha scritto Lorenzo Perrone, «è impensabile che il Signore ci insegni a pregare perché non siamo sottoposti alla tentazione, quando l’intera vita dell’uomo sulla terra si svolge nel segno della “prova”. […] Nessuno è escluso dalla tentazione, neppure coloro che sono avanzati sul cammino della perfezione […] non v’è momento della vita che sfugga alla “tentazione” e al rischio di peccare insito in essa», ma «Origene afferma che le prove a cui gli uomini sono sottoposti sono volute da Dio per la loro maturazione e salvezza. Egli non abbandona nessuno al proprio destino, specialmente coloro che, “entrati in tentazione”, non sono stati capaci di reggere ad essa» (L.Perrone, La preghiera secondo Origene. L’impossibilità donata, Brescia: Morcelliana, 2011, pp.234-236. Sull’interpretazione origeniana del Padre Nostro, tutte le pp.195-239 sono da leggere).

Ubi fides ibi libertas. (Ambrogio e il cardinale Biffi)

07 giovedì Dic 2017

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Ambrogio, cardinale Biffi, fede, libertà

«Dove c’è (la) fede, lì c’è (la) libertà»: chi conosce questa frase, probabilmente la ricorda come motto episcopale del compianto cardinale Biffi (ce ne fossero, come lui!), il quale però l’aveva presa da una lettera di Ambrogio, il santo che festeggiamo oggi. Biffi peraltro diceva argutamente che Ambrogio doveva averla copiata da lui, tanto la sentiva propria, così oggi citare il testo da cui è tratta è per me anche un modo per rievocare entrambi questi uomini credenti e liberi.

Il passo è questo: «Sicut ergo parvuli, ita et Judaei sub paedagogo sunt. Lex paedagogus est: paedagogus ad magistrum ducit; magister noster solus est Christus: Nolite dicere vobis dominum et magistrum; quia dominus et magister vester unus est Christus (cfr Mt 23,10). Paedagogus timetur, magister viam salutis ostendit. Timor ergo ad libertatem perducit, libertas ad fidem, fides ad charitatem: charitas acquirit adoptionem, adoptio haereditatem. Ergo ubi fides, ibi libertas: servus enim sub metu, liber ex fide. Ille sub littera, iste sub gratia: ille in servitute, iste in spiritu. Ubi autem spiritus Domini, ibi libertas (2 Cor 3,17). Si igitur ubi fides, ibi libertas; ubi libertas, ibi gratia; ubi gratia, ibi haereditas; Judaeus autem littera non spiritu in servitute est; qui non habet fidem, non habet spiritus libertatem. Ubi autem nulla libertas, nulla gratia; ubi nulla gratia, nulla adoptio; ubi nulla adoptio, nulla successio». (ep. 75, 5).

Questa una traduzione (che serve solo perché tutti possano tornare su a leggere il testo originale, che va gustato in latino): «Come dei bambini, i Giudei sono sotto il pedagogo. La legge è il pedagogo: il pedagogo  è colui che conduce al maestro; il nostro solo maestro è Cristo: “Non chiamatevi signore e maestro, perché vostro signore e maestro è solo Cristo”. Il pedagogo viene temuto, il maestro spiega la via della salvezza. Dunque il timore conduce alla libertà, la libertà alla fede, la fede alla carità: la carità procura l’adozione, l’adozione procura l’eredità. Pertanto, dove c’è la fede c’è la libertà: il servo, infatti è sottomesso alla paura, il libero è tale per la fede. L’uno è legato alla lettera, l’altro dipende dalla grazia: quegli vive in schiavitù, questi nello spirito. “Dove poi c’è lo spirito del Signore, lì c’è la libertà”. Se  dunque dove c’è fede c’è libertà, dove c’è libertà c’è grazia, dove c’è grazia c’è eredità, il Giudeo a causa della lettera, non dello spirito, è in una condizione di schiavitù. Chi non ha la fede, non ha la libertà dello spirito. Ma dove non c’è libertà, non c’è grazia; dove non c’è grazia, non c’è adozione; dove non c’è adozione, non c’è successione ereditaria».

Un solo brevissimo commento: la parola libertà, pronunciata da sola come troppe volte hanno fatto gli uomini moderni, non significa nulla. Si riempie di senso solo quando è correttamente inserita nella rete di nessi che vediamo esemplificata dalle parole di Ambrogio: libertas – fides – charitas – adoptio – haereditas – gratia …

Tra tutte queste giunzioni sinaptiche, ce n’è una che nel nostro cervello stenta ormai più di altre ad accendersi, perché inibita da un interdetto ideologico: quella che dice «timor ergo ad libertatem perducit». Un motto così “ecclesiasticamente scorretto” ai nostri giorni che forse un cardinale Biffi redivivo sarebbe tentato di aggiungerlo beffardamente alla sua insegna episcopale.

Le interviste volanti del papa: una modesta proposta per abolirle.

06 mercoledì Dic 2017

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chiesa mediatica, papa

Le chiacchierate che il papa fa con i giornalisti, durante i suoi viaggi in aereo, non mi pare che siano una buona cosa. Di solito, più che la «necessaria edificazione» (Ef 4,29) sembra che generino perplessità. Anche l’ultima non fa eccezione, come rileva – con molta più competenza di me – Aldo Maria Valli in questo articolo equilibrato, rispettoso e non polemico: http://www.aldomariavalli.it/2017/12/05/ma-perche-pietro-viaggia/.

Purtroppo sono diventate ormai una prassi, sin dai tempi di Giovanni Paolo II, ed eliminarle sarebbe difficile, anche per un motivo molto “concreto”. I giornalisti che viaggiano sull’areo del papa pagano un biglietto (per giunta molto salato, tanto che, se non ricordo male, in passato ci furono anche delle lamentele), che contribuisce a sostenere le spese dell’organizzazione del viaggio. Ora, chi paga si aspetta sempre qualcosa: è una regola che vale dappertutto, anche in Vaticano.

La modesta proposta dunque sarebbe che, dalla prossima volta, il papa e i suoi accompagnatori viaggassero su normali voli di linea (avendo, ovviamente, le condizioni per la tutela della tranquillità e della riservatezza che sono necessarie) e i giornalisti si arrangiassero come vogliono. In fondo, papa Francesco ha già compiuto una quantità di gesti simbolici tesi a mostrare la “normalità” della sua persona e del suo stile di vita (la borsa portata a mano, le telefonate, la visita dall’ottico a comprarsi gli occhiali, eccetera eccetera): perché non compierne uno più sostanziale, che lo metterebbe realmente nelle condizioni di tanti altri milioni di viaggiatori e lo avvicinerebbe al modo in cui viaggiavano Pietro e Paolo?

Si dirà che in questo modo le televisioni e i giornali – dopo la prima volta in cui il cambiamento farebbe notizia –  finirebbero per “coprire” meno o addirittura smetterebbero del tutto di occuparsi dei viaggi del papa. Beh, che male ci sarebbe? Per come funziona il sistema mediatico, meno si alimenta il “papa percepito” a discapito del papa reale, meglio è per la chiesa.

I Rohingya e i Degar. (Il mondo è orbo).

03 domenica Dic 2017

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cristiani perseguitati, Degar, Rohingya

In questi giorni alla televisione e sulla stampa e negli altri media si portano molto i Rohingya. Impossibilitati a saperne alcunché fino a poco fa, perché nessuno ce ne parlava, noi gente comune siamo ora imperiosamente sollecitati a interessarci moltissimo a questo popolo, che oggi al telegiornale ho sentito definire “il più perseguitato della terra” (come facciano a fare queste classifiche non so, ma tant’è). Il viaggio papale in Birmania e in Bangladesh, mediaticamente ha avuto il suo fulcro e il suo senso nell’incontro con i Rohingya, oscurando il fatto che il papa là presumibilmente c’è andato, prima di tutto, per visitare e confermare nella fede gli sparuti cristiani di quelle regioni, (anch’essi, per inciso, provati da ostilità quando non da vere e proprie persecuzioni).

Ma i Degar, sapete chi sono? Non credo, e anche se li chiamo Montagnard la cosa non cambia molto.

Sono un altro popolo dell’estremo oriente. Vivono (male) in Vietnam, subiscono anche loro una dura persecuzione, anche moltissimi di loro sono profughi. Sono così poco considerati che, se fate una ricerca su internet scoprite che non è facile trovare informazioni aggiornate sulla loro condizione. Comunque, per averne un’idea, qui c’è un articolo di due anni fa, che mi pare attendibile: https://www.hrw.org/news/2015/06/26/vietnam-end-evil-way-persecution-montagnard-christians. Se avete problemi con l’inglese, potete almeno guardare la voce di Wikipedia.it  che, per quanto scarsa, contiene questa affermazione che, se è vera, è decisamente impressionante: «Negli anni settanta del XX secolo erano stimati attorno ai due milioni e mezzo di unità nell’intero Vietnam. Mantenendo il tasso di crescita del resto nella nazione, nel 2006 avrebbero dovuto essere circa sei milioni di individui, ma tenendo conto degli eccidi , dei massacri, e delle oppressioni subite, i superstiti sono stati stimati tra i 700 e gli 800 mila».

Chi si occupa di loro? Chi se ne interessa? Chi chiede perdono per le violenze che hanno subito e tuttora subiscono?

Ah, dimenticavo: i Degar sono cattolici.

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