La forma della testimonianza è il martirio. Questo fu del tutto chiaro nei primi secoli cristiani, quando il sacrificio della vita per la fedeltà a Cristo era una possibilità, eccezionale ma concreta (e non un’ipotesi teorica). Successivamente è diventato meno chiaro (ma restava vero!), perché per molti secoli, in questa parte del mondo, il cristianesimo è sembrato essere “normale”. Ora, di nuovo, anche da noi è tornato evidente che i cristiani “non sono normali”. Quello che occorre, è che torni chiara in noi l’evidenza che la forma della testimonianza è il martirio.
C’è il martirio cruento, l’effusione del sangue per Cristo, con Cristo ed in Cristo, che, anche nei primi secoli, per grazia di Dio è stata chiesta relativamente a pochi (gli studiosi discutono, senza poterne venire a capo, su quanti possano essere stati i martiri delle persecuzioni romane, ma certo non parliamo di centinaia e neppure di decine di migliaia). Quel che conta, però, è che quei pochi indicano a tutti gli altri che il martirio cruento fa parte in modo essenziale dell’orizzonte della vita cristiana.
Mi pare che oggi, tra noi, sia particolarmente significativa la testimonianza di un altro martirio, che invece è proposto, prima o poi, alla grande maggioranza degli uomini. È il martirio del cammino verso la vita eterna attraverso la “porta stretta” della morte. L’agonia, come sarebbe giusto chiamarla, non riservando questo termine (che viene da ἀγών, “gara, lotta”) agli ultimi momenti della vita ma applicandolo a tutto il tempo che un uomo passa da quando sa di dover presto morire a quando muore. Quanti martiri, tra noi! Quanti amici e quante amiche hanno vissuto e vivono con una forza e una letizia umanamente inspiegabili la malattia mortale e poi la morte stessa: l’inspiegabile, l’inaccettabile. Testimonianze inoppugnabili della Grazia.
Ho detto che questo secondo martirio è offerto quasi a tutti, non perché ci sia qualcuno a cui non tocca di morire, ma perché c’è chi muore all’improvviso, senza saperlo, senza agonia: sono quelli che il mondo di oggi con suprema stoltezza supremamente invidia (“ah, potessi morire così anch’io, senza accorgrmene, magari nel sonno!”). Quando la gente era meno stupida, temeva la morte improvvisa; e quando era più pia, pregava per quelli a cui toccava. E pregava anche per i molti che il martirio del cammino alla morte non lo reggono: quelli che muoiono male. Siamo autorizzati a sperare che siano pochi, forse addirittura nessuno, quelli che alla fine non si abbandonano alla bontà infinta. La morte è di per se stessa una grande obbedienza, per cui tutti, alla fine, devono cedere e “la bontà infinita ha sì gran braccia / che prende quel che si rivolge a lei”. Però chi fa così ha mancato il suo martirio.
C’è poi un terzo martirio (per fortuna incruento) che invece oggi sarebbe per tutti tutti. Lo chiamerei il martirio della diversità. Cosa voglia dire, in concreto, ancora dobbiamo capirlo bene, perché in fin dei conti siamo ancora figli di un mondo in cui il cristianesimo sembrava abbastanza familiare (delle volte, in qualche momento, lo sembra ancora).
Bisogna lavorarci.