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  • La chiesa e la crisi degli anni sessanta.

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~ Vanitas ludus omnis

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Archivi Mensili: luglio 2022

“Voglio la mamma”. (#Dante, Paradiso, canto XIV, vv. 61-66)

29 venerdì Lug 2022

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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#Dante, infanzia spirituale, mamma, Paradiso, presenza, resurrezione della carne

Qualche giorno fa Marco, che ha quattro anni, mi ha chiesto: “Nonno, ma quando io sarò grande i miei genitori saranno morti?”. Io gli ho risposto che sì, quando sarà vecchio come me i suoi genitori saranno in cielo. “Ma io come faccio, senza il babbo e la mamma?” ha replicato lui, e io gli ho detto che in quel giorno lontano sarà un nonno anche lui, avrà dei nipotini da portare in bicicletta a vedere questo e quello e che poi, quando toccherà a lui morire ci rivedremo tutti in cielo. Più che quest’ultimo particolare, credo l’abbia colpito immaginarsi come nonno, perché in genere lo diverte molto comparare la decrepitezza dell’avo con la propria giovinezza (se capita che faccia una salitina con qualche accenno di baldanza mi dice: “oggi sei abbastanza giovane!”) e quindi siamo passati ad altri argomenti di conversazione.

Il nocciolo della questione, comunque, l’aveva raggiunto perché esso è così semplice che ci arriva perfettamente un bimbo di quattro anni: “ma io come faccio, senza il babbo e la mamma … (e senza la persona / le persone che amo)?”. Che paradiso è, senza “i miei”? Che vuol dire: senza il volto della mamma e del babbo e «de li altri che fuor cari», cioè senza la loro presenza “in carne ed ossa” (che è l’unico modo in cui noi sappiamo pensare la presenza, dato che la cosiddetta “presenza spirituale” – se è vera e non una pia fola – è più “sacramentalmente carnale” della presenza fisica).

Specchio cristallino di questa divina infanzia spirituale, in cui il sommo poeta e il mio nipotino sono appaiati, e di cui Dio tanto si compiace perché, più che in ogni altro tratto umano, vi riconosce il proprio volto – quella “immagine e somiglianza” che è il nostro sommo pregio ai suoi occhi – è la scena descritta nei versi che oggi ci nutrono, e che trascrivo senza aggiungervi neanche una riga di commento (cosa c’è da commentare, riguardo a una cosa che è evidente anche ad un bambino?). Ricordo soltanto che coloro di cui Dante sta parlando sono spiriti beati del cielo del sole, i più grandi sapienti della storia dell’umanità! E reagiscono come Marco, che ha quattro anni:

«Tanto mi parver sùbiti e accorti / e l’uno e l’altro coro a dicer “Amme!”, / che ben mostrar disio d’i corpi morti: // forse non pur per lor, ma per le mamme, / per li padri e per li altri che fuor cari / anzi che fosser sempiterne fiamme» (vv. 61-66).

«La carne glorïosa e santa» (#Dante, Paradiso, canto XIV, v. 43 e seguenti fino al 57).

27 mercoledì Lug 2022

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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#Dante, carne, corpo, Foscolo, Paradiso, resurrezione

Oggi ci basta un verso, per vivere. Un verso unico, nel senso che a me pare che non sia mai stata detta, né prima né dopo Dante, una parola come quella che qui viene detta. (Lo so, esagero: probabilmente mi sbaglio, magari lo penso solo perché non conosco niente della letteratura mondiale; ma il fatto è che più leggo Dante più mi convinco che egli sia “poeta unico”. Della nostra carne avranno parlato altri mille e mille poeti; forse tutti, perché come potremmo non parlarne, noi uomini che di carne siamo fatti? Ma un sintagma assoluto e definitivo come questo: la carne glorïosa e santa, chi altri mai avrebbe saputo scolpirlo?

A pronunciarlo è Salomone, nel rispondere alla domanda inespressa di Dante di cui si è fatta portavoce Beatrice: “che ne sarà della nostra carne, quando sarà assorbita nella sfolgorante luce infinita del Paradiso?” Veramente Beatrice la espone all’opposto, come dev’essere per chi guarda le cose da un punto di vista celeste: “che ne sarà della «luce onde s’infiora / vostra sustanza»?”. Rimarrà tale anche dopo la resurrezione dei corpi? E in questo caso, come potrà, una luce così abbagliante, essere sostenuta da corpi fatti di carne? È questo secondo membro della domanda che ci fa intuire, dietro la traduzione celeste di Beatrice (che ne sarà della luce?), tutta la “portata terrena” dell’originaria questione dantesca (che ne sarà della carne?), che è la nostra questione: perché noi, fatti di carne, senza la carne non riusciamo nemmeno a concepirci, e solo a prezzo di un’astrazione faticosa e posticcia possiamo talvolta far finta di immaginarci come puri spiriti, anime, luci … entità metafisiche che però nulla ci dicono, perché ciascuno di noi, se prova a figurarsele, in fondo si domanda: “ma sono io, quello?”.

La risposta del più sapiente dei re consiste nella più entusiasmante delle dimostrazioni logiche e fisiche: «Come la carne glorïosa e santa / fia rivestita, la nostra persona / più grata fia per esser tutta quanta; // per che s’accrescerà ciò che ne dona / di gratüito lume il sommo bene, / lume ch’a lui veder ne condiziona; // onde la visïon crescer convene, / crescer l’ardor che di quella s’accende, / crescer lo raggio che da esso vene. // Ma sì come carbon che fiamma rende, / e per vivo candor quella soverchia, / sì che la sua parvenza si difende; // così questo folgòr che già ne cerchia / fia vinto in apparenza da la carne / che tutto dì la terra ricoperchia» (vv. 43-57). Che il procedere di un sillogismo potesse rapirci, in un progresso di ascesa verso il mistero della felicità divina nel quale il nostro animo si estende e si dilata (epektasis si direbbe nel bel greco dei Padri), è una cosa che forse non avremmo creduto, prima che Dante ce lo facesse sentire, ma ora dobbiamo concentrare la nostra attenzione sul mistero della carne che è l’oggetto della dimostrazione. Dice Salomone: quando saremo rivestiti della carne gloriosa e santa – cioè, in senso stretto, quando risorgerà il nostro corpo, nella forma di quello che, sin dal catechismo, abbiamo imparato a chiamare appunto corpo glorioso – la nostra persona sarà integra e perciò più grata a Dio per il dono ricevuto: questa gratitudine a sua volta accrescerà il gratuito dono di luce divina, per cui vedremo ancor meglio Dio; vedendolo meglio, lo ameremo ancor di più e tale ardore di carità ci renderà ancor più luminosi. Ma come avviene in un carbone ardente, tutta quella luce irradiata dai nostri corpi non ne vincerà la parvenza ed essi resteranno visibili. E qui c’è il verso-chiave, quello che permette, a mio avviso, di intendere il vero senso dell’espressione dantesca che vogliamo meditare oggi: tutto il fulgore del Paradiso – questo sta dicendo Dante – «fia vinto in apparenza da la carne / che tutto dì la terra ricoperchia» (vv. 56-57). Cioè la «carne glorïosa e santa» non è altra cosa dalla carne che ora marcisce sottoterra o si polverizza nel chiuso e nel buio silenzioso di una tomba. Gloriosa e santa è quella carne. È fondamentale capire bene questo, perché altrimenti anche l’annuncio della resurrezione svapora, per noi carnali, in una remota, esangue e insipida idea di “corpi gloriosi” che non si sa bene che cosa siano e come vivano, e risultano quasi altrettanto astratti di quei puri spiriti di cui si diceva sopra. Ugo Foscolo, che ormai di cristianesimo ben poco sapeva (e meno ancora capiva) e invece alla carne teneva molto, esprime tutto il disappunto di noi moderni di fronte alla promessa cristiana della resurrezione in quei versi, non belli ma perfettamente eloquenti, in cui descrive l’uomo che

[…] se pur mira
Dopo l’esequie, errar vede il suo spirto
Fra ’l compianto de’ templi Acherontei,
O ricovrarsi sotto le grandi ale
Del perdono d’Iddio: ma la sua polve
Lascia alle ortiche di deserta gleba
Ove nè donna innamorata preghi,
Nè passeggier solingo oda il sospiro
Che dal tumulo a noi manda Natura.

Mi ha sempre impressionato il valore di quella disgiuntiva “o” che, nell’intenzione di Foscolo è chiarissimamente un vel e non un aut: andare all’Inferno (che nel suo improbabile italiano è il «compianto de’ templi Acherontei») o in paradiso («ricovrarsi sotto le grandi ale / Del perdono d’Iddio») in definitiva è lo stesso. Il Nulla o Tutto, è lo stesso! Che me ne frega dello «spirto» – dice lui, e noi tutti con lui, se siamo sinceri – , se la mia «polve» cioè la mia carne da morta resta sola, senza il calore di una donna innamorata che ne prolunghi in qualche modo la vita? Io sono quella polvere, molto più di quanto non mi senta di essere il mio cosiddetto “spirito”.

Per pensarla così, bisogna non aver capito questo passo del canto XIV che spiega come quella carne «che tutto dì la terra ricoperchia» e che – per noi che non siamo ancora morti, ogni giorno un po’ si disfa e si corrompe in un anticipo di morte – è essa stessa, sin dall’inizio, cioè sin da quando è uscita dalla mani di Dio come carne di Adamo ed Eva, «glorïosa e santa». Se capissimo questo, se veramente lo capissimo, sarebbe la rivoluzione, il mondo cambierebbe e tutto apparirebbe in una luce nuova, quella vera. Perché è veramente così: gloriosa e santa ogni carne umana:

il “grumo di cellule” che si annida nel corpo della donna, all’inizio a sua insaputa, talvolta contro la sua volontà, e da subito “parla” con lei con la lingua della biochimica: carne gloriosa e santa,

il corpicino scheletrito e gonfio per i patimenti della fame dei bambini che non vogliamo vedere, da cui distogliamo lo sguardo facendo un’offerta per scarico di coscienza: carne gloriosa e santa,

le carni giovani, fresche e profumate di corpi giovani o giovanissimi, che sono l’oggetto di tante libidini e violenze che bramano di profanarli: carne gloriosa e santa,

i cadaveri sconciati dalle bombe, squartate e trafitti nelle guerre e negli attentati: carne gloriosa e santa,

i corpi deformi “mostruosi” di creature che Dio sive Natura secondo noi non si sarebbe mai dovuto permettere di far venire al mondo, e che tanto indispettiscono la nostra pietà: carne gloriosa e santa,

le carni cadenti dei vecchi, col loro lezzo, un fetore di morte che nessun lavaggio, per quanto energico, toglie del tutto: carne gloriosa e santa.

Ogni carne è santa, e destinata alla Gloria.

(A questo, cioè a dire che la carne umana, in quanto tale, è carne gloriosa e santa, nessun pagano, per quanto adoratore della bellezza del corpo come forma della rivelazione divina nel mondo, ci può arrivare. Per questo i pagani non capiscono il cristianesimo)

Bellezze del canto XIV di cui non parliamo (#Dante, canto XIV, vv. 28-42)

25 lunedì Lug 2022

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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#Dante, Annunciazione, Bellezza, festa

Troppe bellezze in questo canto, l’ho già detto. E noi ci sentiamo un po’ come bambini capitati in un immenso salone pieno di giocattoli meravigliosi, che non sanno decidersi a quale dedicarsi e temono che non ci sarà tempo per provarli tutti.

C’è la bellezza del numero tre (altro che solitudine dei numeri primi!), cantata (e contata) con precisione matematica musicale e teologica nei vv. 28-33. («Quell’uno e due e tre che sempre vive / e regna sempre in tre e ‘n due e ‘n uno, non circunscritto, e tutto circunscrive»: può esservi terzina più circolarmente euclidea di questa?).

C’è, al vv. 35-36 «una voce modesta / forse qual fu da l’angelo a Maria», che Anna Maria Chiavacci Leonardi molto acutamente pone «tre le più straordinarie invenzioni del genio poetico di Dante», perché chi mai, prima o dopo di lui, si è soffermato a pensare come fosse il tono della voce dell’angelo a Maria? Di solito, i più sensibili commentatori di quel passo del vangelo si concentrano sulle sfumature delle risposte della Vergine: chi mai avrebbe potuto pensare che forse Dio, l’Onnipotente, potrebbe essersi mostrato, per il tramite del suo angelo, «modesto» nel rivolgersi alla libertà della sua creatura? “Modesto”, come colui che non impone, non pretende, non obbliga, ma chiede; col rispetto, la discrezione, quasi mi verrebbe da dire la timidezza che sempre si ha quando si domanda all’altro qualcosa che egli potrebbe darci o non darci … La voce che parla a Dante, in questo punto del canto, dalla luce più luminosa della prima corona di spiriti sapienti che lo circonda (è il grande Salomone), è «una voce modesta»!

C’è la festa di paradiso dei vv. 37-38, che è già uno straordinario sintagma di suo, ma qui viene esaltato dalla posizione finale nel verso, in coda a «Quanto fia lunga la festa» – che già lo dilata – e in enjambement («festa / di paradiso») che ancor più spalanca ad una durata infinita, facendoci intravedere la prospettiva, totalmente ed esclusivamente paradisiaca, di una festa che non finisce mai e che non ci stanca (per cui a una cert’ora vogliamo andare a casa, perché ci siamo stufati anche del più bel divertimento e della più gaia compagnia). Festa di paradiso, mentre qui da noi le feste – quando ci sono e ammesso che ci siano – durano sempre troppo poco o troppo a lungo (il che alla fine è la stessa cosa). (Quelli della mia età ricorderanno e compatiranno che, mentre scrivevo, mi sia affiorata alla mente il primo verso di una canzone di quando ero giovane: https://www.youtube.com/watch?v=5Vhkk8vu1hU).

C’è anche, e non sembri un dettaglio erudito, l’anadiplosi dei vv. 40-41 («La sua chiarezza seguita l’ardore; / l’ardor la visïone, e quella è tanta») che dà una spinta entusiasmante al moto ascensionale della poesia in cui l’animo nostro viene coinvolto.

Ma di tutte queste cose non parliamo. Sono come fiori che non cogliamo, accontentandoci di rimirarli di sfuggita, mentre passiamo. Oggi non abbiamo occhi e cuore che per lo scrigno del v. 43 e per l’espressione magnifica che contiene: «la carne glorïosa e santa». Oggi la meditiamo. Domani proviamo a dirne qualcosa.

«La guerra continua». E ora si apre il fronte interno.

22 venerdì Lug 2022

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elezioni, guerra, politica

Come ottanta anni fa, all’indomani della caduta di Mussolini, la cosa più importante nel comunicato di Badoglio fu la meno avvertita dagli italiani, così oggi, nel diluvio di opinioni e commenti intorno alla fine del governo Draghi e allo scioglimento delle camere, il fatto mostruoso e macroscopico della guerra viene rimosso.

«La guerra continua», anzi è diventata come un elemento strutturale del panorama di “emergenza permanente” in cui dobbiamo vivere. Sparita dai titoli, messi da parte i toni drammatici dei primi mesi, ormai non si parla più del suo andamento, delle sue prospettive, e soprattutto del modo per porvi fine. La guerra c’è, e basta. Come c’è il cambiamento climatico o un qualsiasi altro accidente “naturale” a cui gli uomini non possono sfuggire. «La guerra continua»: indefinitamente, come un fenomeno naturale. Non si discute e non si delibera quale debba esserne lo scopo ed è praticamente proibito riflettere pubblicamente sulle cause per trarne indicazioni circa il modo di farla cessare. Si dice anzi, senza vergogna, che essa era “imprevedibile”, occultando il fatto che le richieste prima, gli avvertimenti poi e le minacce infine della Russia, che l’ha fatta scoppiare, non sono state considerate dai “nostri governi”. Giuste o sbagliate che fossero, quelle richieste. Non è questo il punto: ammettiamo pure che fossero tutte e solo sbagliate, però esistevano ed erano state chiaramente espresse. Che non siano state considerate da parte “nostra” è un fatto; dunque è un fatto anche che non è stato fatto niente per evitare la guerra. Che ciò sia avvenuto perché i nostri governi non davano credito alle richieste, agli avvertimenti e alle minacce della Russia, oppure perché in effetti volevano che la guerra scoppiasse io non lo so, ma è indecente pretendere che essa sia stata “imprevedibile”, come un terremoto o la caduta di un fulmine. Si può legittimamente sostenere che non era giusto prendere in considerazione le richieste russe, ma allora occorre affermare che non era giusto cercare di evitare la guerra. Comunque sia, ora la guerra c’è e bisogna almeno chiedersi seriamente se sia giusto cercare di farla cessare oppure no.

«La guerra continua» e ogni giorno uccide centinaia di persone in Ucraina, distrugge quel disgraziato paese e causa danni gravissimi alle economie e le società del mondo intero. È il più urgente problema del pianeta, in questo momento; non è una catastrofe naturale né un disastro storico a cui gli uomini non possano porre rimedio se non nell’arco di decenni o di secoli; è invece un fatto politico che può finire anche domani, se lo si vuole. È dunque folle e criminale che non si provi nemmeno a farlo.

La guerra è anche il più urgente problema dell’Italia, perché è direttamente dalla guerra che dipendono molti dei mali di cui acutamente soffriamo in questo momento e ancor più soffriremo nel prossimo futuro. Una discussione seria su come il nostro paese possa contribuire alla fine della guerra dovrebbe perciò essere il principale argomento della campagna elettorale che si è appena ufficialmente aperta. Proprio come il 26 luglio del 1943 far cessare la guerra era la prima necessità degli italiani.

Purtroppo non sarà così: «la guerra continua» è infatti un dogma indiscutibile accettato praticamente da tutte le forze politiche ed essa entrerà sì nel dibattito elettorale (di solito del tutto refrattario agli affari esteri), ma nel modo più perverso ed esiziale possibile, cioè imponendogli la sua logica. Quello che è successo negli ultimi giorni lo indica con sufficiente chiarezza: la crisi di governo, innescata stoltamente dai pentastellati, i quali però – essendo il nulla guidati da nessuno – politicamente risultano ormai del tutto irrilevanti, è stata gestita da Draghi in modo da concludersi esattamente come si è conclusa. Ignoro i motivi, ma mi sembrerebbe irrispettoso nei suoi confronti pensare che egli non prevedesse le conseguenze della sua condotta e non abbia voluto precisamente quell’esito che ha agevolato in ogni modo. Perché Draghi e Letta hanno deciso di andare alle elezioni adesso? Sempre per rispetto nei loro confronti, debbo presumere che l’abbiano fatto pensando che sia la scelta più conveniente dal loro punto di vista. Ciò che accadrà, per una volta è facilmente prevedibile, dato che si sta già verificando: una grande “chiamata alle armi” dei “buoni” contro i “cattivi”, per “salvare l’Italia” nel nome di Mario Draghi, eretto a icona del Bene contro il Male. Due fronti: da una parte tutti i buoni, i responsabili, i ragionevoli, i civili, quelli che “devono” vincere perché altrimenti si fa “il salto nel buio” (e a chi si arruola, sarà perdonato ogni peccato) … dall’altra la feccia, che sarà stigmatizzata – ed è questa la funesta novità – non più solo come “sovranista”, “populista” e “fascista” (parole che anche chi le urla si rende conto che ormai vogliono dire ben poco), ma soprattutto come “putinista”. Putiniani, putinisti e puttinieri: la reductio ad Putinum prende così il posto dell’ormai obsoleta reductio ad Hitlerum come martello per schiacciare ogni obiezione, accantonare ogni argomento, troncare ogni dibattito. In definitiva, per abolire la democrazia, che si fonda innanzitutto sulla legittimazione di tutti gli attori politici, avversari compresi. “C’è la guerra!”, e in guerra chi non è d’accordo con me è un traditore.

Non ho idea di quale potrà essere il risultato delle elezioni (e se l’avessi non sarebbe da tenere in alcun conto perché ho sempre sbagliato tutti i pronostici, dal 1976 in qua): credo che gli italiani accendano molte meno candeline davanti all’icona di Mario Draghi di quante pensano lorsignori, però sono anche convinto che la paura del “salto nel buio” sia sempre stato un argomento molto forte per il nostro elettorato. (Per quel nulla che vale, io ho sempre sospettato che anche il 2 giugno del 1946 il nostro buon popolo, sempre per via di quella storia del “salto nel buio”, si sarebbe acconciato a tenersi perfino quei puzzoni dei Savoia, nonostante tutte le loro malefatte, e che ci sia voluta una manina – in quel caso del tutto giustificata, a mio modesto avviso – per far uscire dalle urne la repubblica. Non per nulla il guardasigilli Togliatti, che non era certo uno sprovveduto, diede ordine di distruggere immediatamente le schede elettorali).

In ogni caso, comunque andranno le elezioni, da una campagna elettorale impostata come una “guerra civile incruenta” non potrà venire niente di buono per l’Italia. E per oggi con le buone notizie abbiamo terminato.

Il Paradiso non ci piace, e per questo moriamo dalla paura di morire. (#Dante, Paradiso, canto XIV, vv. 25-27)

20 mercoledì Lug 2022

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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#Dante, #Paradiso, morte, paura, potere

In questo mirabile canto XIV, canto delle meraviglie, ad un certo punto Dante dice una cosa che a noi pare assurda: «Qual si lamenta perché qui si moia / per viver colà sù, non vide quive / lo refrigerio de l’etterna ploia» (vv. 25-27). “Qual si lamenta perché qui si moia”? Come se fosse una stranezza!? Ma la paura, anzi l’orrore, il terrore di morire non è forse la più giustificata e universale delle paure umane? Non è la madre di tutte le altre innumerevoli paure individuali e collettive che ci affliggono, le quali altro non sono, in fondo, che repliche in sedicesimo o patetici travestimenti di quella?

Sì, ma voi non avete mai visto «lo refrigerio dell’eterna ploia», ci risponde Dante. Non avete mai goduto dell’immersione in quella eterna felicità, non siete mai stati inondati dell’infinito piacere divino. Voi non sapete cosa sia il Paradiso. Non ve lo immaginate, non ci provate neanche. A dire il vero non ci pensate quasi mai, non vi interessa. Ne ammettete l’esistenza solo teoricamente; teoricamente dite che sperate un giorno di andarci, ma in pratica non vi riguarda. Per quel pochissimo che ne sapete, in fondo non vi piace.

Il paradiso non vi piace, ed è per questo che morite dalla paura di morire. Morite di paura, ne siete schiavi, e dunque siete pronti a farvi schiavi di chiunque vi minacci con la paura della morte. Guardate cosa è vi successo e vi sta succedendo in questo tragico punto di svolta della vostra storia: terrorizzati da mille paure (la pandemina, la crisi economica, la crisi ecologica, la guerra …) siete disposti a tutto pur di non morire: a morire alla libertà, morire alla giustizia, morire ai diritti che dicevate fondamentali, alla democrazia di cui tanto vi vantavate, a qualunque altro valore abbiate professato. Tutto, pur di non morire! (E morirete comunque, dopo esser vissuti da morti). Vi va bene anche la guerra, purché muoiano gli altri. Tutto, pur di non morire!

San Paolo una volta ha detto: «per me vivere è Cristo e morire un guadagno» (Fil 1, 21). Un uomo così, uno che in Paradiso, a vivere eternamente col Padre il Figlio e lo Spirito santo, con Maria e con gli angeli e coi santi, vuole andarci veramente, vi anela, non vede l’ora … di che cosa potrà mai aver paura? E se non ha paura, come lo incateni un uomo così?

La paura della morte è di due tipi: c’è una paura “carnale” e una “spirituale”. Quella carnale è una faccenda di cellule, fibre, tessuti e organi del nostro corpo. È semplicemente l’espressione di una vita biologica che, essendo fatta per vivere, respinge la propria fine. I neurofisiologi ci spiegheranno i meccanismi biochimici del suo funzionamento; gli etologi ci mostreranno la sua indispensabilità per la sopravvivenza delle specie; noi la tratteremo come gli altri stimoli e bisogni del nostro corpo: la fame, il sonno … Non è quella che fa problema. È invece la “paura spirituale” della morte quella che ci fa morire. E contro di essa non servono i rimedi della filosofia e di un’ascesi autoimposta. Ci vuole l’amore, perché come dice san Giovanni, nell’amore non c’è la paura, anzi l’amore perfetto scaccia la paura (I Gv 4, 18). Un grande amore per il Paradiso, una gran voglia di andarci, anche subito se fosse possibile … ecco, se uno fosse dominato da questo sentimento, che cosa mai potrebbe fargli paura, se non il peccato? E, dal punto di vista del Potere («il brutto / Poter che, ascoso, al comun danno impera» vaticinato da Leopardi): che gli puoi fare, a un uomo così? Lo minacci di morte?

Invece a noi, poiché al Paradiso non teniamo più – che siamo “credenti” oppure no fa poca differenza: perché nel nostro credo di cristiani moderni «la vita eterna» è ormai un articolo marginale – sembra che un’espressione come quella di Paolo («morire è un guadagno») sia roba da fanatici e terroristi, islamisti o fascisti che siano. Perciò, avendo come supremo criterio di vita fuggire la morte, ce ne stiamo metaforicamente “chiusi in casa”, morti di paura. Così ci comportiamo noi pecore, ma la vera tragedia è che i pastori, invece di infonderci coraggio, sembrano più timorosi di noi e non sanno fare altro che raccomandare “prudenza”. Tra le tante definizioni che si possono dare della condizione della chiesa contemporanea a me sembra che “una chiesa spaventata” sia tra le più centrate. «Non abbiate paura!»: questo grido risuonò sì, tanti anni fa, dalla cattedra di Pietro, pronunciato con voce forte e virile da un papa che non aveva paura … ma ormai se ne è spenta l’eco. “State attenti! Non correte rischi!” sembra averlo sostituito.

Le parole di Dante non sono assurde, ma piene di saggezza e di consolazione: «Qual si lamenta perché qui si moia / per viver colà sù, non vide quive / lo refrigerio de l’etterna ploia». Reimpariamo a desiderare il Paradiso! A volte qualcuno tra noi si lamenta per il fatto che la chiesa oggi parla troppo poco dell’Inferno. Può darsi, ma, se ci pensate, parla ancor meno del Paradiso.

La madre e i figli. Una favola di mezza estate.

18 lunedì Lug 2022

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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C’era una volta una madre che aveva quattro figli. In casa il cibo non mancava e, come tutte le mamme di allora, lei sapeva far da mangiare. La sua era una cucina tradizionale: poche ricette, sempre uguali, eseguite rigorosamente alla stessa maniera in cui le aveva imparate da sua madre, la quale a sua volta le aveva apprese dalla nonna, e così via fino ad un passato immemorabile. Il pasto comune per quella donna era molto importante: all’ora stabilita voleva che i figli fossero riuniti intorno al desco familiare e tutti insieme consumassero il cibo quotidiano che aveva preparato con tanta cura, come Dio comanda. Certo, quel modo di cucinare era un po’ datato: si trattava di piatti concepiti per uomini e donne che sgobbavano dieci ore al giorno nei campi, mentre i suoi figli ormai facevano lavori sedentari; risalivano a un tempo in cui non c’erano gli elettrodomestici, gli alimenti si conservavano poco e male ma d’altra parte si aveva molto tempo per prepararli: ora era tutto il contrario. Persino le materie prime non erano più le stesse: certi alimenti, un tempo comuni, erano diventati ormai introvabili, mentre molti altri prodotti, che prima non si conoscevano neppure, riempivano i banchi del mercato. Qualche aggiustamento nella dieta familiare sarebbe dunque stato opportuno, però tutto sommato in quella casa non c’era né una “emergenza alimentare”, né una “crisi gastronomica”, e nessuno dei figli si lamentava veramente. Sì, il maggiore osservava qualche volta che fuori casa si mangiava diverso, diceva che gli sarebbe piaciuto assaggiare certi piatti esotici di cui aveva sentito parlare, ma niente di che. Il secondo figlio era uno che a tavola ci stava il meno possibile, non badava neanche a quel che stava sul piatto, mandava giù in fretta e per dovere quel che aveva davanti, e subito dopo si alzava per tornare ai suoi affari. Quanto agli altri due, mangiavano tutto di gusto, con l’appetito degli adolescenti, spesso chiedendoo il bis, e crescevano a vista d’occhio.

Chi cominciò a farsi dei problemi fu proprio la madre. Sbrigando i lavori di casa con la televisione accesa “per farsi compagnia”, aveva preso a seguire tutte quelle rubriche di cucina, medicina e salutismo che infarcivano le trasmissioni e a prestare orecchio ai “consigli degli esperti”, dietologi e nutrizionisti titolati che da quelle cattedre mediatiche le spiegavano che fino a quel momento aveva sbagliato tutto: questo faceva male, quell’altro non andava cucinato come aveva sempre fatto lei, qui c’erano troppi grassi, là c’erano troppo poche fibre, quella cottura tradizionale faceva perdere al cibo tutto il suo valore nutrizionale, quell’altra era addirittura cancerogena … insomma un disastro. La madre, giustamente preoccupata della salute dei figli, cominciò a compulsare le rubriche mediche dei rotocalchi, poi lesse qualche libro che prometteva “la salute mangiando bene”, imparò nuove parole e nuovi concetti, e andò in crisi. Finalmente si decise a varcare la soglia del famoso “Centro di Dietetica olistica e Nutraceutica integrata”, dove, piena di riverenza per la scienza, affidò ad una commissione di esperti l’incarico di dettare le leggi della nuova dieta di casa sua. Forse quegli scienziati non furono del tutto obiettivi e leali: qualcuno diede l’impressione di tenere più di ogni altra cosa a far prevalere il suo particolare punto di vista; altri avevano interessi non solo scientifici per la produzione di certi “alimenti salutari”; ci fu perfino il sospetto che qualcun altro invece fosse stato pagato di nascosto dall’industria alimentare per promuovere certe loro schifezze. Comunque sia, il consesso dei luminari produsse un ponderoso ricettario pieno di avvertenze, note, rubriche e tabelle, che la madre accolse con grata devozione e portò a casa.

Quel giorno chiamò i figli e proclamò: “da oggi cambia tutto! Quel che vi ho dato da mangiare finora non andava bene, ma d’ora innanzi avrete il meglio del meglio. Comincia una nuova primavera in questa casa! Grazie alla riforma dietetica vedrete come starete meglio!”. Sulla carta, in effetti, la nuova cucina era molto più equilibrata, leggera e nutriente della vecchia, più ricca di componenti salutari e soprattutto assai più varia. Inoltre era anche “creativa”, perché al posto delle vecchie ricette fisse e sempre uguali, quasi per ogni piatto prevedeva la possibilità di apportare variazioni e cambiamenti ad libitum del cuoco, ma anche del consumatore. Gli esperti, infatti, avevano spiegato alla madre che la cosa più importante, nell’alimentazione, era “esprimere la personalità di chi mangia”.

I figli ascoltarono l’annuncio della madre e, abituati com’erano da sempre a ubbidirle, non fecero obiezioni. Il maggiore approfittò ben presto delle licenze che la nuova “creatività gastronomica” gli consentiva e cominciò a mettere salse e intingoli dappertutto, per “dare una spinta” – anzi per “animare”, come diceva lui – i piatti (un po’ insipidini, in effetti) che venivano portati in tavola e prese a sbizzarrirsi con accostamenti improbabili, contaminazioni e fusioni ardite, per provare l’ebbrezza della novità e avvicinarsi alle cucine esotiche di cui aveva sentito parlare.

Per il secondo non cambiò nulla: come non dava alcuna importanza a ciò che mangiava prima, così continuò a non badarci ora. Solo, ad un certo momento smise addirittura di venire a tavola con gli altri, preferendo mangiarsi un panino sul lavoro, per non perder tempo, visto che gli era sembrato di aver capito che ormai il “rito del pasto in famiglia“ non fosse più così importante.

Il terzo, ch’era il più giudizioso, cercò di fare di necessità virtù usando della nuova cucina nel modo più conforme ai principi della vecchia. Quando i piatti glielo permettevano, li consumava alla maniera di prima; si teneva lontano dagli esperimenti creativi del fratello (e anche da quelli della madre), mangiava con la massima sobrietà possibile e cercava di gustare tutto quello che di buono “passava il convento”. Non era entusiasta, ma comunque andava avanti senza lamentarsi, com’era nella sua indole.

Al quarto, invece, forse perché era il più piccolo e, come spesso succede, il più “delicato”, la nuova cucina proprio non andava giù. Quelle pietanze, che in teoria dovevano essere così digeribili e nutrienti, a lui restavano sullo stomaco e non davano energia; non riusciva ad assimilare quel cibo, sembrava che il suo fisico li rifiutasse. Il ragazzo deperiva, era scontento e irritabile e cominciò a protestare con la mamma. Come capita ai figli, talvolta fu anche offensivo (“la roba che mi dai fa schifo!”), la madre se la prese moltissimo e ne nacque un contrasto, una sorta di braccio di ferro, molto penoso per entrambi. A quel tempo, c’era ancora in casa un “nonno saggio”, a cui la madre qualche volta chiedeva consiglio. Egli le suggerì di non impuntarsi, e di lasciare che il ragazzo mangiasse alla maniera di prima, se proprio non poteva fare diversamente: in fin dei conti, se quel cibo era andato bene per secoli non poteva essere proprio la schifezza che dicevano i professori. La madre sembrò convincersi e per un po’ lasciò che il figlio minore si preparasse i piatti di una volta. Poi però il “nonno saggio” fu messo all’ospizio e la madre tornò sui suoi passi: “o mangiar questa minestra, o saltar dalla finestra”.

Come andò a finire? Per quanto se ne sa, il figlio maggiore a furia di mangiare “schifezze creative”, sviluppò una dipendenza dal cibo spazzatura, ingrassò a dismisura e i suoi valori di colesterolo, glicemia e trigliceridi andarono alle stelle. Pesava 120 chili e aveva il fiato corto, ma la madre non se ne dava pensiero: il figlio doveva stare benissimo, perché così avevano decretato i professori. Al massimo, qualche volta brontolava: “ma perché metti la maionese sul pesce arrosto e la marmellata sulle lasagne?”, però poi lasciava correre.

Il secondo ha smesso del tutto di venire a mangiare a casa: anche a Natale e alle altre feste comandate non si fa più vedere; non perde tempo e consuma il cibo dove gli pare.

Il terzo continua come sempre a fare di necessità virtù, cerca di farsi andare bene le cose che gli danno, viene a tavola puntuale e ubbidisce alla mamma. Però è sempre più triste: gli stravizi del fratello maggiore non li sopporta e poi il desco familiare è ormai deserto e mette malinconia.

E il quarto figlio, che fine ha fatto? Qui ci sono due versioni e, come succede nei miti e nelle favole, forse sono vere tutte e due. Secondo alcuni, a forza di non mandar giù niente è deperito al punto che ora è ricoverato in clinica dove viene sottoposto ad alimentazione forzata. Secondo altri, invece, ha smesso di mangiare in famiglia e va tutti i giorni alla trattoria “I mangiari di una volta”, che hanno aperto proprio di fronte a casa sua, dove può avere, pagandoli cari e senza il vero sapore di casa, piatti simili a quelli che la mamma gli preparava un tempo.

La cosa strana è che pare che la madre sia contenta di questa soluzione: pur di non dargli il cibo che chiede, la sta bene che il figlio vada a procurarselo altrove. Che dire? Non ci sono più le mamme di una volta.

È morto un papa.

16 sabato Lug 2022

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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Segnalo agli eventuali avventori di questo piccolo blog l’articolo di Stefano Fontana apparso oggi sulla Nuova Bussola Quotidiana: https://lanuovabq.it/it/eugenio-e-francesco-qual-era-il-papa.

Temo che abbia ragione.

Sarà così bello per sempre? (#Dante, Paradiso, canto XIV, vv. 10-18)

15 venerdì Lug 2022

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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Bellezza, carne, eternità

La Bellezza, dicevamo, ferisce. Ferisce anche perché non dura: già al suo primo apparire, nel fresco incanto del mattino che ci sorprende e ci innamora, si insinua in noi il sospetto della sua partenza (la sera che presto verrà, e prima ancora l’ora meridiana): scomparsa, offuscamento, decadenza o abitudine della Bellezza.

Non dura perché non dura lei, la cosa bella (il tema della rosa, le neiges d’antan … metà della letteratura parla di questo, in fondo); oppure non dura perché non duriamo noi ed è ancor peggio, perché in questo caso la stessa gloriosa magnificenza di una Bellezza che sembra sfidare i secoli e i millenni finisce per diventare ancor più dolorosa nel rammentarmi, per contrasto con la sua stabilità, la fugace precarietà della mia esistenza, la mia morte comunque imminente. Il Monte Rosa sarà lì anche domani, ma domani non ci sarò più io. “Se guardo il cielo, opera delle tue mani, la luna e le stelle che vi hai posto, chi è mai l’uomo perché di lui ti ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?”: se non proseguisse (“Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato”) il salmo 8 sarebbe forse l’espressione più compiuta di tale irredimibile malinconia della Bellezza.

“Sarà così bello per sempre?” si chiede ingenuamente il bambino davanti alla Cosa Bella che gli viene offerta allo sguardo. Se lo chiede anche Dante, nella sua ritrovata infanzia spirituale, e Beatrice, mai così mamma come ora, dà voce al dubbio del suo pupillo rivolgendo ai beati parole meravigliosamente piane, nel senso di facili, scorrevoli e lievi, ma dritte al punto (come sono le domande dei bambini): «A costui fa mestieri, e nol vi dice / né con la voce né pensando ancora, / d’un altro vero andare a la radice. // Diteli se la luce onde s’infiora / vostra sustanza, rimarrà con voi / etternalmente sì com’ell’è ora; // e se rimane, dite come, poi / che sarete visibili rifatti, / esser porà ch’al veder non vi nòi» (vv. 10-18).

In altri termini: che ne sarà di tutta questa Bellezza, quando riavrete la carne, e sareti quindi “più umani”? Perché troppa luce questi nostri occhi umani di carne non la sopportano mica; e troppo piacere questo nostro corpo umano di carne non lo regge … Ci stiamo approssimando al mistero della nostra carne. Dante ce ne aveva anticipato qualcosa nel canto VIII, e a suo tempo lo notammo, qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2022/03/05/allegri-si-risorge-teologia-del-corpo-umano-di-conio-dantesco-dante-paradiso-canto-vii-vv-124-148/.

«Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro»: Dante ha il suo momento zen? (#Dante, Paradiso, canto XIV, vv. 1-3)

13 mercoledì Lug 2022

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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#Dante, Bellezza, cerchio, eternità, Montale, Morandi

Qui nel XIV rischiamo davvero di essere sopraffatti dalla Bellezza. Ce n’è tanta, ce n’è troppa, e il senso della dismisura rispetto alla mia minima capacità di goderne diventa doloroso, quasi insopportabile. L’avrò già detto più volte, perché noi vecchi ci ripetiamo, ma questa cosa io l’ho toccata con mano per la prima volta a vent’anni, a Macugnaga, sotto al Monte Rosa, in una mattina sfolgorante di luce, spuntata a tradimento dopo una settimana di “brutto tempo” uggioso ma rassicurante: uscito dal paese andavo verso il Rosa, guardando la montagna che splendeva al sole, e il cielo al di sopra, puro come il primo giorno della creazione, e fui ferito da un malinconia che non ho più dimenticato. (E poi è rimasta, come un sottofondo, nella mia vita).

Come fare, dunque, per “difenderci dalla Bellezza”? Coprirci il volto per non vedere, come Mosè davanti al roveto ardente? Dire all’attimo, contrariamente a Faust, “vattene, sei così bello!”? Tenere lo sguardo fisso a terra, avvinto alle miserie e alle sporcizie del mondo di cui si pasce quell’estetica del brutto tanto in voga ai nostri giorni? Nulla di tutto questo. Questo è precisamente ciò da cui ci siamo liberati e purificati nel percorso dall’Inferno al Purgatorio: ricordate come era uscito Dante dal secondo regno? «Puro e disposto a salire alle stelle». Quindi alla Bellezza dobbiamo andare incontro, aprire gli occhi, le braccia e il cuore alla sua sovrabbondanza che si impone. Un pochino alla volta, però. A piccoli bocconi, masticando bene e lentamente, come deve fare chi, prostrato da un lungo digiuno e disabituato ad assimilare il cibo, ha di fronte a sé una tavola imbandita con ogni “ben di Dio” (proprio!) e rischia di morire se vi si getta con ingordigia. Non conosco altro rimedio che questo, e mi viene in mente in questo momento (ma può darsi che non sia una sciocchezza) che forse Dante ha voluto che il XIII canto fosse così “dimesso” e spoglio proprio perché sapeva che stava per arrivare questo XIV, così sontuoso. Come una preparazione, una sorta di profilassi; un mangiare leggero che si addice a chi sta per essere invitato ad un gran banchetto.

Comunque sia, oggi contempliamo solo la prima terzina: «Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro / movesi l’acqua in un ritondo vaso, / secondo ch’è percosso fuori e dentro» (vv. 1-3). Perfezione! Pura contemplazione dell’esserci di una cosa, del suo accadere “miracoloso” nella propria totale naturalità. Una volta Montale in un’intervista disse di aver pensato la sua prima poesia a cinque anni. Diceva così: «Il vaso è al posto noto / né pieno né vuoto». Personalmente la trovo bellissima (una delle sue migliori, se posso permettermi di scandalizzare qualcuno) e non mi stupisco affatto che venga da un bambino meditativo, perché i bambini hanno talvolta di queste fulminee intuizioni contemplative, che non richiedono loro la lunga ascesi che al monaco zen costa la sua illuminazione. Il vaso di Dante e quello del bambino Montale sono tanto “essenziali” quanto le bottiglie di Morandi. Essenziali nel senso di “necessarie nella loro contingenza”, se così posso malamente esprimermi giocando sulla contraddizione per cercare di dire una cosa che nemmeno io capisco bene. Una cosa c’è, e potrebbe benissimo non esserci; ma dal momento che c’è, in quanto esiste, essa esiste in un modo che non potrebbe essere altro da quello che è; e questo esserci voluto, fondato, “ordinato” delle cose ci riempie di meraviglia, se abbiamo occhi per guardarle.

Sarebbe dunque, questa terzina dantesca, una specie di haiku, sia pur libero e avant lettre? Possiamo immaginarci per un momento un Dante che, dimentico di Firenze, della Chiesa e dell’Impero e di tutti i guai della storia umana, si ferma a contemplare i cerchi nell’acqua di un «ritondo vaso», tutto assorto nel seguirne il moto «dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro», finché qualcuno non lo viene a scuotere da quell’estasi intramondana? In una prima approssimazione potremmo anche farlo, e a molti di noi magari potrebbe bastare, ma, come sempre, nella Commedia c’è molto di più. Infinitamente di più, direi.

Mi sono ricordato di un libro che lessi da giovane, Le metamorfosi del cerchio, di Georges Poulet. Un saggio che allora mi piacque molto, anche se non ho trattenuto quasi nulla del suo contenuto. Credo che oggi sia un po’ dimenticato, perché vedo che dopo il 1971 non è mai stato ristampato. Sono andato a cercarlo, in un piano alto della libreria, l’ho sfogliato e ho capito perché mi era tornato in mente. L’autore apre con questa definizione di Dio: Deus est sphaera cuius centrum ubique, circumferentia nusquam, Dio è una sfera che ha il centro dovunque e la circonferenza in nessun luogo, che attribuisce ad un trattato pseudoermetico del XII secolo, intitolato Il libro dei ventiquattro filosofi, e poi, citando Bonaventura, il quale afferma che l’eternità non è solo interminabilità ma anche simultaneità, commenta: «In quanto circonferenza infinita l’eternità è dunque il cerchio di tempo più ampio possibile; in quanto centro di questa circonferenza, essa è il punto fisso, il momento unico, che è simultaneamente in rapporto con tutti i punti circonferenziali di questa durata temporale. Perciò chi vuole abbracciare col pensiero le due proprietà contraddittorie dell’eternità divina […] deve spingersi contemporaneamente alla circonferenza e al centro». Ecco la nostra terzina! – che infatti Poulet cita subito dopo e commenta così: «Come l’acqua di un vaso si muove indifferentemente verso la periferia o verso il centro, l’anima del poeta si muove verso un Dio che circoscrive tutto e verso un Dio che si trova al centro di tutto» (p.13).

Attenzione, quindi! Non stiamo solo contemplando i cerchi dell’acqua in un vaso – che comunque sarebbe già qualcosa, rispetto alle scemenze e/o schifezze su cui posiamo lo sguardo di solito: stiamo cominciando a guardare Dio. (Che sia il caso di coprirci la faccia?).

San Benedetto patrono d’Europa. Cioè di qualcosa che ormai non esiste più.

11 lunedì Lug 2022

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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crisi, Europa, Giovanni Paolo II, San Benedetto

In questo giorno dedicato alla memoria di Benedetto da Norcia, padre del monachesimo occidentale e patrono d’Europa, nel rivolgergli il nostro pensiero e le nostre pressanti richieste di intercessione per questo disgraziato continente è necessario partire, come sempre, dalla verità delle cose, perché nella menzogna o nella dissimulazione niente riesce bene, neanche la preghiera. E la verità è che “l’Europa” ormai non esiste più. Ne esistono forse dei pezzi, dei frammenti, dei relitti più o meno ingombranti. Non la vivente unità di un corpo.

Restano ancora un po’ di “europei”, in parte ancora aggregati nei brandelli di popoli che permangono, o nei simulacri di nazioni che ancora in qualche modo resistono; oppure isolati, clandestini, confusi tra la folla, forse smarriti in un mondo che non riconoscono più. Comunque, questo è il gregge di Benedetto (patrono degli Europei, a questo punto) e per essi noi, che ci gloriamo di farne parte, chiediamo il suo celeste patrocinio.

Ma che cos’era l’Europa? Perché è finita? Che cosa potrebbe essere anche oggi, per il bene di tutto il pianeta, e come continuare a farla vivere, almeno nel nostro “paese interiore” se non ci è possibile farlo nello spazio esterno della politica? Per riflettere su queste domande e cercare una risposta io non saprei quale lettura consigliare migliore di questa: https://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/speeches/1982/october/documents/hf_jp-ii_spe_19821005_conferenze-episcopali-europa.html.

Si tratta, a mio avviso, di uno dei più memorabili discorsi di san Giovanni Paolo II, tenuto al V Simposio delle Conferenze episcopali europee, nel 1982. Sono passati quarant’anni, e quel discorso appare remoto (nella chiesa sembra che sia passato un millennio, tanto siamo lontani da quel magistero e da quel grado di consapevolezza della realtà; quanto alla situazione dell’Europa di allora confrontata con quella di oggi è meglio non parlare …) ma al tempo stesso attualissimo. È un testo che ha acquisito, mi pare, la stessa “eccentrica pertinenza” all’attualità che hanno i grandi classici del passato o, per stare all’interno della cultura cristiana, i Padri della Chiesa.

Il mio modo di celebrare la festa di san Benedetto oggi sarà dunque rileggere e meditare questo discorso. Mi permetto di invitare gli eventuali avventori di questo piccolo blog a fare altrettanto e, per invogliarli, ne riporto un brano, che dice una cosa fondamentale:

«La Chiesa e l’Europa. Sono due realtà intimamente legate nel loro essere e nel loro destino. Hanno fatto insieme un percorso di secoli e rimangono marcate dalla stessa storia. L’Europa è stata battezzata dal cristianesimo; e le nazioni europee, nella loro diversità, hanno dato corpo all’esistenza cristiana. Nel loro incontro si sono mutuamente arricchite di valori che non solo sono divenuti l’anima della civiltà europea, ma anche patrimonio dell’intera umanità. Se nel corso di crisi successive la cultura europea ha cercato di prendere le sue distanze dalla fede e dalla Chiesa, ciò che allora è stato proclamato come una volontà di emancipazione e di autonomia, in realtà era una crisi interiore alla stessa coscienza europea, messa alla prova e tentata nella sua identità profonda, nelle sue scelte fondamentali e nel suo destino storico. L’Europa non potrebbe abbandonare il cristianesimo come un compagno di viaggio diventatole estraneo, così come un uomo non può abbandonare le sue ragioni di vivere e di sperare senza cadere in una crisi drammatica. È per questo che le trasformazioni della coscienza europea spinte fin alle più radicali negazioni dell’eredità cristiana rimangono pienamente comprensibili solo in riferimento essenziale al cristianesimo. Le crisi dell’uomo europeo sono le crisi dell’uomo cristiano. Le crisi della cultura europea sono le crisi della cultura cristiana».

Se i cristiani d’Europa, per pochi che siano, riprendessero un’adeguata coscienza di questa relazione essenziale tra cristianesimo ed Europa l’opera di Benedetto (che non è appena un’opzione) potrebbe ricominciare immediatamente, pure in questa “terra desolata” che sta diventando l’Europa.

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