C’era una volta una madre che aveva quattro figli. In casa il cibo non mancava e, come tutte le mamme di allora, lei sapeva far da mangiare. La sua era una cucina tradizionale: poche ricette, sempre uguali, eseguite rigorosamente alla stessa maniera in cui le aveva imparate da sua madre, la quale a sua volta le aveva apprese dalla nonna, e così via fino ad un passato immemorabile. Il pasto comune per quella donna era molto importante: all’ora stabilita voleva che i figli fossero riuniti intorno al desco familiare e tutti insieme consumassero il cibo quotidiano che aveva preparato con tanta cura, come Dio comanda. Certo, quel modo di cucinare era un po’ datato: si trattava di piatti concepiti per uomini e donne che sgobbavano dieci ore al giorno nei campi, mentre i suoi figli ormai facevano lavori sedentari; risalivano a un tempo in cui non c’erano gli elettrodomestici, gli alimenti si conservavano poco e male ma d’altra parte si aveva molto tempo per prepararli: ora era tutto il contrario. Persino le materie prime non erano più le stesse: certi alimenti, un tempo comuni, erano diventati ormai introvabili, mentre molti altri prodotti, che prima non si conoscevano neppure, riempivano i banchi del mercato. Qualche aggiustamento nella dieta familiare sarebbe dunque stato opportuno, però tutto sommato in quella casa non c’era né una “emergenza alimentare”, né una “crisi gastronomica”, e nessuno dei figli si lamentava veramente. Sì, il maggiore osservava qualche volta che fuori casa si mangiava diverso, diceva che gli sarebbe piaciuto assaggiare certi piatti esotici di cui aveva sentito parlare, ma niente di che. Il secondo figlio era uno che a tavola ci stava il meno possibile, non badava neanche a quel che stava sul piatto, mandava giù in fretta e per dovere quel che aveva davanti, e subito dopo si alzava per tornare ai suoi affari. Quanto agli altri due, mangiavano tutto di gusto, con l’appetito degli adolescenti, spesso chiedendoo il bis, e crescevano a vista d’occhio.
Chi cominciò a farsi dei problemi fu proprio la madre. Sbrigando i lavori di casa con la televisione accesa “per farsi compagnia”, aveva preso a seguire tutte quelle rubriche di cucina, medicina e salutismo che infarcivano le trasmissioni e a prestare orecchio ai “consigli degli esperti”, dietologi e nutrizionisti titolati che da quelle cattedre mediatiche le spiegavano che fino a quel momento aveva sbagliato tutto: questo faceva male, quell’altro non andava cucinato come aveva sempre fatto lei, qui c’erano troppi grassi, là c’erano troppo poche fibre, quella cottura tradizionale faceva perdere al cibo tutto il suo valore nutrizionale, quell’altra era addirittura cancerogena … insomma un disastro. La madre, giustamente preoccupata della salute dei figli, cominciò a compulsare le rubriche mediche dei rotocalchi, poi lesse qualche libro che prometteva “la salute mangiando bene”, imparò nuove parole e nuovi concetti, e andò in crisi. Finalmente si decise a varcare la soglia del famoso “Centro di Dietetica olistica e Nutraceutica integrata”, dove, piena di riverenza per la scienza, affidò ad una commissione di esperti l’incarico di dettare le leggi della nuova dieta di casa sua. Forse quegli scienziati non furono del tutto obiettivi e leali: qualcuno diede l’impressione di tenere più di ogni altra cosa a far prevalere il suo particolare punto di vista; altri avevano interessi non solo scientifici per la produzione di certi “alimenti salutari”; ci fu perfino il sospetto che qualcun altro invece fosse stato pagato di nascosto dall’industria alimentare per promuovere certe loro schifezze. Comunque sia, il consesso dei luminari produsse un ponderoso ricettario pieno di avvertenze, note, rubriche e tabelle, che la madre accolse con grata devozione e portò a casa.
Quel giorno chiamò i figli e proclamò: “da oggi cambia tutto! Quel che vi ho dato da mangiare finora non andava bene, ma d’ora innanzi avrete il meglio del meglio. Comincia una nuova primavera in questa casa! Grazie alla riforma dietetica vedrete come starete meglio!”. Sulla carta, in effetti, la nuova cucina era molto più equilibrata, leggera e nutriente della vecchia, più ricca di componenti salutari e soprattutto assai più varia. Inoltre era anche “creativa”, perché al posto delle vecchie ricette fisse e sempre uguali, quasi per ogni piatto prevedeva la possibilità di apportare variazioni e cambiamenti ad libitum del cuoco, ma anche del consumatore. Gli esperti, infatti, avevano spiegato alla madre che la cosa più importante, nell’alimentazione, era “esprimere la personalità di chi mangia”.
I figli ascoltarono l’annuncio della madre e, abituati com’erano da sempre a ubbidirle, non fecero obiezioni. Il maggiore approfittò ben presto delle licenze che la nuova “creatività gastronomica” gli consentiva e cominciò a mettere salse e intingoli dappertutto, per “dare una spinta” – anzi per “animare”, come diceva lui – i piatti (un po’ insipidini, in effetti) che venivano portati in tavola e prese a sbizzarrirsi con accostamenti improbabili, contaminazioni e fusioni ardite, per provare l’ebbrezza della novità e avvicinarsi alle cucine esotiche di cui aveva sentito parlare.
Per il secondo non cambiò nulla: come non dava alcuna importanza a ciò che mangiava prima, così continuò a non badarci ora. Solo, ad un certo momento smise addirittura di venire a tavola con gli altri, preferendo mangiarsi un panino sul lavoro, per non perder tempo, visto che gli era sembrato di aver capito che ormai il “rito del pasto in famiglia“ non fosse più così importante.
Il terzo, ch’era il più giudizioso, cercò di fare di necessità virtù usando della nuova cucina nel modo più conforme ai principi della vecchia. Quando i piatti glielo permettevano, li consumava alla maniera di prima; si teneva lontano dagli esperimenti creativi del fratello (e anche da quelli della madre), mangiava con la massima sobrietà possibile e cercava di gustare tutto quello che di buono “passava il convento”. Non era entusiasta, ma comunque andava avanti senza lamentarsi, com’era nella sua indole.
Al quarto, invece, forse perché era il più piccolo e, come spesso succede, il più “delicato”, la nuova cucina proprio non andava giù. Quelle pietanze, che in teoria dovevano essere così digeribili e nutrienti, a lui restavano sullo stomaco e non davano energia; non riusciva ad assimilare quel cibo, sembrava che il suo fisico li rifiutasse. Il ragazzo deperiva, era scontento e irritabile e cominciò a protestare con la mamma. Come capita ai figli, talvolta fu anche offensivo (“la roba che mi dai fa schifo!”), la madre se la prese moltissimo e ne nacque un contrasto, una sorta di braccio di ferro, molto penoso per entrambi. A quel tempo, c’era ancora in casa un “nonno saggio”, a cui la madre qualche volta chiedeva consiglio. Egli le suggerì di non impuntarsi, e di lasciare che il ragazzo mangiasse alla maniera di prima, se proprio non poteva fare diversamente: in fin dei conti, se quel cibo era andato bene per secoli non poteva essere proprio la schifezza che dicevano i professori. La madre sembrò convincersi e per un po’ lasciò che il figlio minore si preparasse i piatti di una volta. Poi però il “nonno saggio” fu messo all’ospizio e la madre tornò sui suoi passi: “o mangiar questa minestra, o saltar dalla finestra”.
Come andò a finire? Per quanto se ne sa, il figlio maggiore a furia di mangiare “schifezze creative”, sviluppò una dipendenza dal cibo spazzatura, ingrassò a dismisura e i suoi valori di colesterolo, glicemia e trigliceridi andarono alle stelle. Pesava 120 chili e aveva il fiato corto, ma la madre non se ne dava pensiero: il figlio doveva stare benissimo, perché così avevano decretato i professori. Al massimo, qualche volta brontolava: “ma perché metti la maionese sul pesce arrosto e la marmellata sulle lasagne?”, però poi lasciava correre.
Il secondo ha smesso del tutto di venire a mangiare a casa: anche a Natale e alle altre feste comandate non si fa più vedere; non perde tempo e consuma il cibo dove gli pare.
Il terzo continua come sempre a fare di necessità virtù, cerca di farsi andare bene le cose che gli danno, viene a tavola puntuale e ubbidisce alla mamma. Però è sempre più triste: gli stravizi del fratello maggiore non li sopporta e poi il desco familiare è ormai deserto e mette malinconia.
E il quarto figlio, che fine ha fatto? Qui ci sono due versioni e, come succede nei miti e nelle favole, forse sono vere tutte e due. Secondo alcuni, a forza di non mandar giù niente è deperito al punto che ora è ricoverato in clinica dove viene sottoposto ad alimentazione forzata. Secondo altri, invece, ha smesso di mangiare in famiglia e va tutti i giorni alla trattoria “I mangiari di una volta”, che hanno aperto proprio di fronte a casa sua, dove può avere, pagandoli cari e senza il vero sapore di casa, piatti simili a quelli che la mamma gli preparava un tempo.
La cosa strana è che pare che la madre sia contenta di questa soluzione: pur di non dargli il cibo che chiede, la sta bene che il figlio vada a procurarselo altrove. Che dire? Non ci sono più le mamme di una volta.