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Quando Gesù tornò la prima volta, cioè quando risuscitò – poiché era veramente morto, e niente è un “andar via” tanto quanto la morte; perciò se uno risuscita vuol dire che davvero torna da un altrove remoto e irraggiungibile – tutti i suoi pensarono che ormai era fatta. Il mondo come l’avevano conosciuto fino a quel momento, con tutte le sue brutture, il tempo e la storia erano finiti lì: “con la resurrezione, è tutto passato, ora si inaugura il regno di Dio, e sarà una bellissima festa che durerà per sempre”. Questo pensavano tutti, e avevano ogni ragione per pensarlo, perché, dopo che uno è risorto dai morti, che cos’altro può mai succedere? Che cosa si deve aspettare ancora?
Noi facciamo fatica a rendercene pienamente conto, ma le origini del cristianesimo furono quanto mai drammatiche perché avvennero nel segno di una doppia, terribile crisi: i primi seguaci di Gesù risorto dovettero subire un duplice shock cognitivo, se così posso dire, che li mise in crisi, li destabilizzò e li fece iniziare a litigare. Il primo è l’annuncio che no, il mondo finora conosciuto, il tempo e la storia non sono affatto finiti e il glorioso ritorno di Cristo con il suo incontrastato dominio sull’universo ci sarà, ma non si sa quando (ed è come quando la serata tanto attesa è “rinviata a data da destinarsi”). Il secondo è il superamento, per ordine divino, della cultura della separazione in cui, in ossequio alla Legge (sempre divina!), essi come ebrei erano vissuti fino a quel momento. Lasciamo stare, ora, questo secondo colpo e riflettiamo un attimo sul primo.
Se leggiamo il racconto delle vicende successive alla morte di Gesù in Luca 24, non si può non restare colpiti da un dato temporale: tutta la faccenda sembra risolversi nel giro di poche ore. «Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino» (24,1), le donne si recano al sepolcro, non trovano il corpo e hanno la visione di «due uomini» che annunciano loro che Gesù è risorto. Vanno subito a raccontarlo «agli Undici e a tutti gli altri» (24,9) che restano increduli, ma Pietro «corre» al sepolcro, lo trova vuoto e torna a casa pieno di stupore. «In quello stesso giorno» (24,13) avviene l’apparizione del Risorto ai due discepoli di Emmaus, i quali, dopo aver risconosciuto Gesù, verso sera, sempre dello stesso giorno, «partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme» (24,33) per riferire agli altri l’accaduto. «Mentre essi parlavano di queste cose», quindi sempre alla fine di quella giornata, «Gesù in persona apparve in mezzo a loro» (24,36), suscitando inizialmente spavento nei discepoli, che lo prendono per un fantasma, e per convincerli mostra le mani e i piedi feriti e mangia del pesce arrosto davanti a loro. Dopo di che, spiega ai discepoli il senso della sua passione, morte e resurrezione e che cosa accadrà da quel momento in poi: «nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi sarete testimoni. E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto. Poi li condusse fuori verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo» (24,47-51). Fine. È tutto qui, in una manciata di ore.
Voi, cos’avreste pensato e cosa avreste fatto a quel punto? Quello che pensarono e fecero gli apostoli e gli altri che erano con loro: «tornarono a Gerusalemme con grande gioia; e stavano sempre nel tempio lodando Dio» (24, 52-53, fine del vangelo di Luca). “Se ha detto di restare a Gerusalemme ad aspettarlo, sarà questione di qualche giorno, ma torna e mette tutto a posto Lui. L’avete sentito, no? Tutto il mondo si convertirà e riceverà il perdono dei peccati e noi saremo testimoni di questo miracolo. Poi sarà il paradiso in terra. C’è solo da star qui ad aspettarlo”. Questo si son detti, e questo hanno fatto, per scoprire però poco dopo che le cose non stavano affatto così.
Luca, a mio avviso, è il più importante autore del Nuovo Testamento perché non ha scritto soltanto un vangelo, come gli altri tre suoi colleghi, ma ha composto un’opera in due parti, di cui la prima parla di Gesù e la seconda tratta dell’inizio della sua chiesa. È il vero perno del Nuovo Testamento, perché è l’opera che ci permette di farne una lettura cattolica, cioè in buona sostanza che ci permette di essere cattolici. All’inizio del secondo libro, egli ci informa che il Risorto «si mostrò [agli apostoli] vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio» (Atti, 1,3). In apparente contrasto con quanto ci era parso di capire dal suo steso vangelo, ora apprendiamo che il tempo della convivenza tra Gesù risorto e gli apostoli è ben più lungo delle poche ore di cui sopra, ma soprattutto ci viene messo a tema in modo molto più dettagliato ed esplicito il problema di che cosa deve succedere dopo l’ascensione del Risorto al cielo. Il pensiero inespresso dei discepoli è sempre quello di prima (“ormai è fatta”) e dopo quaranta giorni assume ormai la forma di una domanda esplicita, forse condita di una punta di impazienza: «Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?» (Atti, 1,6).
La risposta deve averli sconcertati (come al solito), e probabilmente non l’hanno nemmeno ben capita, tanto era lontana dalle loro attese: c’è voluto quantomeno tutto il tempo della prima generazione cristiana per metterla faticosamente a fuoco e farsene obtorto collo una ragione: «Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (Atti, 1,7-8). Si noti che queste sono le ultime parole di Gesù, il quale subito dopo averle proferite prende su e se ne va (1,9: «fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo». Praticamente come un’altra morte, dal punto di vista della nostra carne). E mentre gli apostoli stanno ancora col naso all’insù, a bocca aperta, a fissare il cielo inebetiti, arrivano «due uomini in bianche vesti» che li rimproverano di star lì a perder tempo («a guardare il cielo») e li informano che Gesù «tornerà (ἐλεύσεται) allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (1,11).
Tornerà, ma quando? Un giorno. Ma intanto la storia è riempita di senso, e il senso è anche un compito: si noti la diversa prospettiva in cui lo stesso processo è presentato in Lc 24,47-48 e in Atti 1,8: nel primo testo la conversione del mondo con il perdono dei suoi peccati è una pre-visione, nel secondo è un comando. Nel vangelo, gli apostoli, ancora ingenuamente convinti che sarà per domani o dopodomani, si aspettano di essere testimoni di un grandioso spettacolo (è la pre-visione di una tele-visione, se così possiamo dire); negli Atti cominciano a capire di essere stati investiti di un compito, che non si sa quanto durerà, ma con la promessa di una forza divina che li assisterà e con la certezza del successo finale.
La storia, ripeto, ora si riempie di senso, e questo senso è la missione della chiesa. Si riempie di senso anche l’attesa, che non è più dunque una pia finzione, una sorta di esercizio mentale in cui dovremmo immaginare che debba ancora accadere ciò che è già avvenuto, cioè l’incarnazione del Figlio di Dio e poi la sua resurrezione, ma è l’attesa del tutto reale di qualcosa che effettivamente deve ancora accadere, il ritorno glorioso di Cristo e la sua definitiva presa di possesso del mondo. Diversamente dai primi discepoli, noi però sappiamo che non è per domani, né per dopodomani. A dire la verità, sappiamo solo che non sappiamo per quand’è, ma vorremmo – tanto più in questo inizio di Avvento 2020 – avere un po’ della loro santa, infantile impazienza: “Signore, fa presto! Dai, vieni non tardare! Vieni e rimetti a posto tutto, che qui non funziona più niente!
La risposta già la conosciamo: “avete la forza dello Spirito Santo che è scesa su di voi; siatemi testimoni (cioè martiri) a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra”.