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In tutto lo squallore senza rimedio della vicenda del figlio di Grillo, di cui tanto si è parlato in questi giorni, il solo punto che meriterebbe davvero un’attenzione e un dibattito pubblico mi pare che sia stato invece quasi completamente negletto. Sembra infatti che la questione decisiva sia stabilire se in ciò che è accaduto “c’era il consenso”. Se non c’era il consenso, era uno stupro, e allora tutti i protagonisti e i comprimari della vicenda, oltre a subire una severa condanna penale, vanno sepolti sotto la valanga di fango della condanna morale e della proscrizione social-mediatica (quest’ultima, peraltro, nei limiti della sua memoria, cioè pochi giorni …). Se invece c’era il consenso, cambia tutto: si entra nel sacro recinto delle libertà individuali, nella comfort zone delle preferenze sessuali che vanno obbligatoriamente coccolate e difese contro ogni minaccia moralistica e bigotta, nel tempio post-moderno dei “nuovi diritti”. Chi sei tu per giudicare degli “adulti consenzienti” che danno libero sfogo alle loro fantasie? In camera da letto ognuno fa quel che gli pare, va bene così e guai a chi osa obiettare.
Questo è il “pensiero unico”, che siamo obbligati a far nostro, pena l’esclusione dal novero delle “persone perbene” che possono entrare in salotto (ma in un prossimo futuro, temo, ci sarà anche la legge a punire gli eretici).
Le cose, semplicemente, non stanno così. La realtà non è questa, e se c’è un aspetto “positivo” nell’occuparsi di quel bruttissimo episodio sta proprio nel fatto che in esso si può vedere con chiarezza quanto certe cose siano brutte “a prescindere”. A quanto si legge, accusa e difesa, in quel caso, stanno analizzando fotogramma per fotogramma un video, ripreso dagli stessi autori del fatto, per determinare quanto la ragazza fosse “consenziente” rispetto agli atti sessuali che, diciamo così, riguardavano il suo corpo. Nessuno mette in dubbio, a quanto si è appreso, che un gruppo di ragazzi infoiati quella notte stesse facendo sesso violento e di gruppo con una ragazza ubriaca: la questione pare che sia solo “se lei ci stava”. Ora, tutto ciò è mostruoso.
La verità, oggettiva e incontrovertibile, è che ogni pratica sessuale violenta e ogni forma di “sesso di gruppo” è male. Ed è male perché è intrinsecamente contraria alla dignità umana e alla natura della relazione sessuale. La descrizione del contenuto di quel video e il racconto di come si è svolta quell’orribile nottata – che abbiamo purtroppo potuto/dovuto leggere sui giornali poiché quel caso è diventato pubblico – mostra con evidenza palmare che tutto quello che lì è avvenuto era male. Un male grave, una serie di atti e di comportamenti disumani. A prescindere. Ci fosse anche stata una dichiarazione preventiva di consenso firmata davanti al notaio, nella sostanza non cambia nulla: è male. Se non vediamo questo, vuol dire che l’ideologia ci ha reso ciechi. La relazione sessuale è per natura intrinsecamente legata allo scambio amoroso tra due persone: l’amore esclude la violenza e la costrizione, la dualità esclude il branco. Punto. (Poi ci sarebbe da aggiungere che la dualità della relazione sessuale non è chiusa ma è, sempre per natura, almeno potenzialmente e implicitamente legata al suo autotrascendimento nel “terzo”, poiché la fecondità le appartiene in modo non accessorio e contingente, ma questo è un altro discorso che ci porterebbe lontano, fino alla relazione trinitaria come matrice di ogni altra relazione: roba grossa, e superiore alle nostre forze).
Il problema è: ma la legge si deve occupare anche di questo male? Deve sanzionarlo, cercando di reprimerlo e di prevenirlo con le sue pene? Un tempo lo faceva: molti ordinamenti giuridici “entravano in camera da letto” pretendendo di punire comportamenti contrari alla “morale sessuale” che allora si riteneva condivisa da tutti. Così c’erano norme che addirittura punivano, ad esempio, l’adulterio (anche in Italia, con gli articoli 559-560 del Codice Penale fino alla fine degli anni sessanta, se non sbaglio); oppure gli atti omosessuali o altre pratiche considerate incompatibili con il “buon costume”. A dire il vero, fuori da quello che noi erroneamente tendiamo a considerare “il mondo” tout court e che invece è solo una sua parte (sempre meno rilevante), è ancora così. Nei paesi islamici, per esempio.
Noi inorridiamo, e con delle ragioni. Intanto perché il poliziotto e il giudice in camera da letto non ce li vogliamo. Poi perché non esiste più da tempo una morale (e in particolare una morale sessuale) condivisa, e l’idea che si puniscano certe cose a qualcuno può star bene e a qualcun altro no. Infine perché certi aspetti della legislazione di un tempo, come ad esempio l’odiosa discriminazione tra uomini e donne che l’antica norma penale sull’adulterio faceva, sono oggi inaccettabili per tutti noi, spero senza eccezione.
Detto questo, però, dovremmo riconoscere che siamo caduti in una aporia, cioè in una situazione contraddittoria dalla quale non sappiamo come uscire. Da una parte infatti capiamo (forse ancora lo capiamo, per ora: domani non si sa) che ci deve pur essere un limite, un punto in cui la legge dello stato interveniene a reprimere certi comportamenti che tutti consideriamo inaccettabili. Si può, ad esempio, in nome del “nuovo diritto” di realizzare i propri desideri, abusare sessualmente di un bambino? “Certo che no!” gridiamo, nuovamente inorriditi (per adesso: domani non si sa). Questa è una cosa orribile che non solo non si può fare, ma non si deve nemmeno guardare: infatti siamo tutti d’accordo (si spera) che la pedopornografia sia un reato (per ora: domani non si sa). Ma dove lo piantiamo il paletto? La verità è che non lo sappiamo più, perché non abbiamo il criterio per determinarlo.
Ecco allora levarsi il mito del consenso: quello, proclamano tutti in coro, è il discrimine. Quella è la soglia sacra che separa il bene dal male. Se c’è il consenso, tutto va bene. Deve andarci bene, anche se ci fa schifo. Guai a dire che è male: si viene tacciati di moralismo, oscurantismo e violenza. Se invece non c’è il consenso, la stessa cosa è male. Anzi “male assoluto” e guai a chi fa notare che la cosa in sé è esattamente la stessa. Quanto sia grottesca tale invenzione, lo si vede bene quando dal mito si scende alla cruda realtà e si pone la questione delle condizioni pratiche in cui quel favoloso animale, quella specie di unicorno o di araba fenice che è il consenso, dovrebbe vivere. A questo proposito, si ripensi alla vicenda di Grillo e soci, per quanto di essa conosciamo, e ci si chieda quale potesse mai essere, in concreto, la natura del consenso di quella ragazza. Perché il consenso implica la libertà, e la libertà è una faccenda maledettamente complicata da definire concretamente. Un corollario che illustra ancor meglio la contraddizione in cui ci siamo messi con “l’idolatria del consenso” è l’altro mito della “maggiore età”. Non è implicato direttamente nel caso Grillo, perché lì erano tutti maggiorenni (figuriamoci!), ma è opportuno richiamarlo perché è del tutto pertinente al tema. Nella favola che ci raccontiamo, infatti, il fantastico potere di trasformare il male in bene il consenso ce l’ha solamente se la bacchetta magica la tiene in mano un “adulto”. (I pedofili non sono d’accordo, perché sostengono che anche i bambini “ci stanno” a certi giochi e che loro non costringono nessuno ma chiedono gentilmente … però non sono ancora sufficientemente organizzati e potenti da imporre culturalmente tale punto di vista. Per ora: domani non si sa). Ora, chi è un adulto? Posta in termini reali, la domanda è di difficilissima risposta, quindi viene posta esclusivamente in termini di puro formalismo giuridico. Adulto è chi dice la legge, e la legge dice che è adulto chi ha compiuto diciotto anni. È una fictio iuris, ovviamente, necessaria per far entrare nelle righe dritte della norma giuridica la realtà della vita, che invece è sempre storta e irregolare; come tale, non andrebbe presa troppo sul serio. Renzo Tramaglino dei Promessi Sposi era «un uomo di vent’anni», come lo definisce Manzoni quando ce lo presenta nell’atto di andare a sposare la sua Lucia, ma quasi tutti i ventenni di oggi sono dei ragazzini, quando non dei bambocci (come presumibilmente erano il figlio di Grillo e soci). Questa constatazione aprirebbe semmai la questione morale della culpa in educando dei genitori (nel caso in ispecie di Beppe Grillo e di sua moglie) che invece in termini strettamente giuridici non si pone perché gli imputati, appunto, sono maggiorenni e quindi è stata emarginata dal dibattito di questi giorni. Noi, invece, nella nostra schizofrenia, quella soglia del tutto fittizia l’abbiamo sacralizzata, con l’assurda conseguenza che gli stessi atti, compiuti dagli stessi soggetti nelle stesse condizioni, a seconda che avvengano un minuto prima o un minuto dopo il raggiungimento della maggiore età, dovrebbero passare ai nostri occhi da “orribili stupri” a “inviolabili espressioni del desiderio individuale (e quindi del famoso “diritto alla felicità”). Dall’inferno al paradiso, per via di un certificato anagrafico. Ci rendiamo conto di dove abbiamo piantato il chiodo a cui ci siamo appesi, e dell’abisso che c’è sotto di noi?
Probabilmente è saggio e prudente che la legge dello stato limiti il suo campo d’azione e che il giudice entri il meno possibile in camera da letto (i nostri giudici, poi!). Però è necessario rinsavire e tornare a riconoscere che esiste un’altra legge – che se non si vuol chiamare legge di natura perché il nome non piace si potrà chiamare semplicemente “realtà” – a cui comunque bisogna sottostare. C’è un sacco di cose che agli uomini piacerebbe fare, ma che non si possono e non si devono fare. Anche da “adulti consenzienti”.