Riporto il testo di un mio articolo uscito oggi sull’Osservatore Romano:
«La storia di Naboth è antica per età, ma nel costume è quotidiana»: con queste parole si apre il De Nabuthae historia, un’operetta composta da sant’Ambrogio alla fine degli anni ottanta del IV secolo, la cui traduzione viene ora offerta, col titolo La vigna di Naboth, dalle Edizioni Dehoniane Bologna, per le sapienti cure di una grande studiosa di letteratura cristiana antica come Maria Grazia Mara, che già quarant’anni fa ne aveva procurato un’edizione critica sostanzialmente migliorativa di quella precedente di Schenkl e che si è a lungo occupata di temi sociali nel pensiero patristico: si veda in proposito il suo volume su Ricchezza e povertà nel cristianesimo primitivo, più volte ristampato (da ultimo, proprio quest’anno dalla stessa casa editrice bolognese).
Di ricchi e di poveri tratta appunto il discorso di Ambrogio, a partire da quella che potremmo definire una storia di ordinaria ingiustizia: l’episodio biblico – narrato in 1 Re 21 – di Naboth, proprietario di una vigna confinante con il palazzo del re Achab, che si rifiuta di cedere al potente vicino «l’eredità dei suoi padri» e viene per questo fatto uccidere per ordine della regina Gezabele. Una vicenda tutt’altro che eccezionale, come l’autore stesso sottolinea: «Achab nasce ogni giorno e non muore mai a questo mondo» e «Naboth non è l’unico povero che sia stato ucciso» perché «ogni giorno un povero viene ucciso» (1), ma sulla quale egli conduce una riflessione per nulla scontata, anzi sotto certi aspetti sorprendente, soprattutto per chi da uno scrittore ecclesiastico si aspettasse soltanto una condanna moralistica contro l’avidità umana o una pia esortazione alla povertà; quel tipo di richiamo ai valori spirituali che gli uomini pratici possono accettare la domenica, prima di rimettersi a lavorare e fare affari sul serio. In un gioco delle parti che vige oggi come allora, infatti, il mondo consente che alla chiesa sia concesso uno spazio per farci tutta la parenetica che vuole, ma non permette che si impicci delle “cose serie” come, appunto, l’economia. Certe reazioni all’enciclica Laudato si’ sono lì a confermarlo.
Questo, invece, è un libretto che vorremmo vedere in mano anche di chi non è avvezzo alla frequentazione dei Padri e che andrebbe caldamente consigliato in particolare a manager, banchieri, imprenditori e politici, nonché inserito nei programmi di studio di economisti e sociologi, perché l’approccio di Ambrogio al problema della ricchezza e della povertà è così culturalmente forte da risultare estremamente fecondo di spunti di riflessione per tutti. Il suo è un esempio straordinario di come un intelligente magistero cristiano, illuminato dalla fede e irrobustito nella meditazione della parola di Dio, sia in grado non certo di elaborare specifiche teorie economiche e/o programmi politici (non è questo il suo compito) ma di aprire una prospettiva ideale completamente nuova entro cui il pensiero e l’azione sociale e politica degli uomini possono nascere e svilupparsi. Nel contesto di una precisa situazione storica, contrassegnata dal delicato problema di regolare i rapporti tra la chiesa e il potere politico dell’impero ormai divenuto almeno nominalmente cristiano, come l’introduzione di Maria Grazia Mara illustra in modo sintetico ma esauriente, la riflessione ambrosiana sul ricco Achab e il povero Naboth suggerisce un modo nuovo di guardare la realtà sociale, non solo del suo tempo ma anche del nostro. Il punto di vista che egli adotta, infatti, ha una sua permanente validità anche se da esso possono derivare, a seconda dei tempi e delle circostanze, tentativi diversi di soluzione ai problemi sociali, con tutto il rischio, ovviamente, della fallibilità delle opzioni umane.
Direi che l’idea centrale del trattato di Ambrogio consiste appunto in un vero e proprio rovesciamento di prospettiva: colui che il mondo considera ricco è in realtà poverissimo, perché il suo modo di concepire la ricchezza lo priva di tutte le relazioni; invece il povero – che non a caso Ambrogio ci presenta nelle prime righe del suo discorso come migrante carico di figli, cioè come “proletario” nel senso forte di “ricco di prole” (migrat cum parvulis pauper onustus pignore suo recita il testo latino, qui tradotto molto felicemente con «il povero, carico del suo pegno d’amore, emigra coi figli») – è il vero ricco se vive la sua condizione di bisogno entro una dimensione relazionale forte, aperta a Dio e agli altri uomini. Ciò che definisce la concezione mondana di ricchezza, infatti, è l’esclusività nel possesso dei beni: il ricco ha intrinsecamente bisogno di escludere tutti gli altri dalla partecipazione ai beni per poterli considerare suoi, ma questa logica perversa, oltre a metterlo in condizione di sentirsi sempre povero perché non può tollerare che vi sia qualcosa che non gli appartiene, lo priva della possibilità di rapporto con gli altri. La vigna di Naboth diviene così il simbolo di tale insopportabile “indigenza” del ricco e l’assassinio del povero la conseguenza inevitabile di quella logica. Ambrogio fa notare che quando il re Achab chiede a Naboth di vendergli la vigna gli dice: «Dammi», ma questa è la parola del povero, anzi del mendicante! Egli, dunque, che ha tutto, confessa in questo modo di avere bisogno di quell’unica cosa che gli manca; d’altra parte, quando offre al povero del denaro oppure un’altra vigna in cambio della sua, presta il fianco a questo commento dell’esegeta: «Ciò che è suo, il ricco lo guarda con fastidio, come roba di poco conto; ma quello che è di altri, lo agogna come ciò che vi è di più prezioso […] perché chi vuole essere padrone di tutto non può accettare che l’altro possieda qualcosa» (9-10). E che cosa ci vuol fare, di quella vigna tanto desiderata? Un campo di ortaggi: «Tutte queste stranezze, tutta questa smania miravano a trovare un posto per ortaggi che non costavano nulla! Voi desiderate possedere una cosa non perché è utile, ma perché volete toglierla agli altri» (11). Il sistema di produzione/accumulazione della ricchezza messo in atto da Achab è dunque, in realtà, una macchina che distrugge valore: la vigna di Naboth, tanto agognata finché non gli appartiene, una volta acquisita perde tutta la sua attrattiva. Viene, per così dire, consumata. In questo senso, «che cos’è mai il ricco, se non una voragine senza fondo di ricchezze?» (28).
La perversa ricerca del possesso esclusivo mette il ricco al bando dall’ordine naturale del mondo, cioè da quel fondamentale principio di relazionalità che governa tutto il creato. Per citare le parole di papa Francesco, «quando le persone diventano autoreferenziali e si isolano nella loro coscienza, accrescono la propria avidità. Più il cuore della persona è vuoto, più ha bisogno di oggetti da comprare, possedere e consumare. In tale contesto non sembra possibile che qualcuno accetti che la realtà gli ponga un limite» (Laudato si’ 204). Per questo motivo, nota Ambrogio, i naturae dispendia, cioè le molteplici elargizioni che l’orbe terracqueo, universis creatus, garantisce a tutti i viventi (11), senza alcuna distinzione e in uguale misura, sono aborriti dai ricchi, che cercano in tutti i modi di chiudere i beni terreni entro i confini del proprio privato dominio. Portata all’estremo, la loro logica conduce però ad un fallimentare solipsismo: essi infatti «rifuggono dall’abitare insieme agli uomini, e perciò cacciano via i vicini, ma non riescono ad evitarli, perché quando hanno cacciato via i primi ne trovano ancora degli altri […] perché è evidente che non possono abitare la terra essi soli» (12).
La logica anti-relazionale del ricco, tra l’altro, se perseguita con coerenza, finisce per diventare anche anti-economica e a questo proposito sarebbe davvero interessante riflettere sugli spunti di critica economica che il discorso ambrosiano contiene: si pensi, per fare solo un paio di esempi, alla sua denuncia della tesaurizzazione («estraete l’oro dal fondo delle miniere, ma subito lo nascondete») (16) e dell’assurdità di un sistema che contraddice la sua stessa ragion d’essere, cioè la produzione di ricchezza, perché non sa gestirla: «L’avaro è sempre messo in difficoltà dall’abondanza dei prodotti, perché calcola la diminuzione dei prezzi dei generi alimantari. Infatti l’abbondanza va bene per tutti, la carestia è redditizia solo per l’avaro. A lui fa piacere più l’aumento spropositato dei prezzi che l’abbondanza di viveri sul mercato […] Guardalo mentre si preoccupa che il mucchio di granaglie salga troppo su e che, traboccando dai granai, si riversi sui poveri, procurando perfino agli indigenti l’occasione di un qualche bene» (35). Con tanti saluti all’effetto trickle-down tante volte esaltato come la via capitalistica al superamento dell’indigenza!
Il punto è che la ricchezza accumulata in questo modo è sterile, non serve per la vita, viene meno cioè alla funzione suprema che l’uomo in ultima analisi attribuisce ad ogni valore nei confronti del suo bisogno fondamentale: «a che mi servono, se non sono capaci di liberarmi dalla morte?» (27).
Di fronte ad Achab, il povero Naboth è ricco della consapevolezza dei suoi diritti-doveri, della sua appartenenza ad una tradizione familiare, di un patrimonio di relazioni che lo uniscono ai suoi padri e, in prospettiva, ai suoi discendenti. È eloquente, sotto questo profilo, la risposta con cui rifiuta l’offerta del denaro del re: «Egli è convinto che il denaro del ricco sia per lui come qualcosa di contagioso; quindi è come se dicesse: “Va’ in perdizione tu e il tuo denaro”. Quanto a me, non posso vendere il patrimonio dei miei antenati» (13). Esiste, in quest’altra logica socio-economica, un «guadagno che si misura non con il denaro, ma con la riconoscenza» (33), in termini cioè di capitale sociale, come diremmo noi oggi. E nel momento in cui incomincia finalmente a farsi strada l’idea che la ricchezza, tanto dei singoli individui quanto dei popoli, non si può più misurare esclusivamente in base alla quantità di beni materiali posseduti, ma deve essere concepita come qualità della vita e non è solo questione di PIL o di reddito pro capite, la lontana voce di Sant’Ambrogio può dirci cose singolarmente pertinenti alla nostra attualità.