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  • La chiesa e la crisi degli anni sessanta.

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~ Vanitas ludus omnis

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Archivi Mensili: agosto 2015

Pensare la crisi (con l’aiuto di sant’Agostino)

28 venerdì Ago 2015

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Agostino, crisi, De civitate Dei, storia

Tempo di crisi, il nostro, come è evidente a tutti. In questi giorni, per esempio, cominciamo ad avere l’impressione che quella che sta avvenendo in Europa sia una “migrazione di popoli” – una Völkerwanderung, come quelle della fine dell’impero romano, che la storiografia tedesca dal XIX secolo in poi chiama appunto così piuttosto che “invasioni barbariche” come si usa dire da noi).

Si obietta, però, da alcuni che in realtà tutti i tempi della storia sono stati “di crisi” e che non abbiamo alcuna prova che questo lo sia più degli altri. È vero, se si intende “crisi” nel suo senso originario di “giudizio” (krisis viene da krino che significa “separare, distinguere”, quindi discernere il bene dal male, cioè giudicare). In questo senso, ogni società è sfidata dal suo tempo, è messa alla prova, giudicata. La “crisi”, in questo senso, nella storia umana è permanente. (Ed è anche un bene che sia così).

Però nel nostro tempo “crisi” ha assunto un altro significato e indica piuttosto la rottura dell’equilibrio, la destabilizzazione di un sistema, l’emergenza che rischia di destrutturare e di portare al collasso la situazione esistente. E nell’urgenza della crisi – questo mi pare il punto capitale – sembra che non ci sia più la possibilità di pensare.

Emergenza! gridano tutti: bisogna agire, fare qualcosa subito, non c’è tempo di pensare. E così si cerca di fare qualcosa, senza neppure sapere se è bene o male quel che si fa.

Siamo così passati dalla crisi come giudizio alla crisi senza giudizio. Ed è questo che dovrebbe farci più paura. Chi, in questo momento storico, si sforza veramente di capire, con una profondità ed un’ampiezza di sguardo adeguata, il senso di ciò che sta accadendo? Chi sa guardare oltre l’immediato? Come dice la Bibbia: «Chiamati a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo» (Os.11,7).

Agli inizi del V secolo, le cose non andavano meglio di oggi. Anzi.  Vogliamo parlare di Roma? Oggi, 28 agosto 2015, stiamo messi come sappiamo, ma giornali televisioni e siti internet (se fossero esistiti) il 28 agosto del 410 sarebbero stati pieni di notizie e di immagini del sacco di Roma: i visigoti di Alarico sarebbero entrati da quattro giorni in città e la starebbero devastando. Roma!

Lo shock, in tutto il mondo romano, fu grande anche allora benché gli uomini, in quei tempi fossero in un certo senso “protetti” dal fatto che le cose si venivano a sapere lentamente, un po’ alla volta, per sentito dire, e quando orami erano fatte. Con la copertura mediatica di oggi, il sacco di Roma provocherebbe in tutto il pianeta un trauma equivalente a molte volte le Twin Towers (per dare un’idea: come se l’Isis invadesse e devastasse New York).

Che cosa fa la differenza? Allora ci fu chi seppe pensare la crisi. I cristiani seppero farlo; la chiesa seppe farlo. Seppe farlo, in particolare, uno degli uomini più intelligenti che siano mai venuti al mondo, Agostino d’Ippona, che, sollecitato proprio dalla tragedia del 410, lavorò per una quindicina d’anni a un’opera monumentale, La città di Dio, in ventidue libri, che indaga sul senso della storia.

Oggi, che è la sua festa, lo veneriamo e lo preghiamo di assisterci nel compito, ineludibile, di giudicare con il criterio della fede i fatti della vita e della storia che tocca a noi.

Nelle prossime settimane, cercheremo di ricavare dalle pagine del De civitate Dei qualche pillola di sapienza che ci aiuti a pensare.

Monica, o dell’impicciarsi dei figli.

27 giovedì Ago 2015

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Agostino, figli, Monica

«Già dunque io ero credente e lei e tutti quelli di casa, eccetto solo mio padre, il quale tuttavia non prevaricò in me il diritto della pietà materna (ius maternae pietatis) che io credessi in Cristo, così come lui non aveva ancora creduto. Lei, infatti, faceva di tutto affinché tu, Dio mio, mi fossi padre piuttosto che lui (nam illa satagebat, ut mihi pater esses, deus meus, potius quam ille) e in questo tu l’aiutavi affinché prevalesse sul marito, a cui pur essendo migliore stava sottomessa perché anche in questo ubbidiva a Te che così hai ordinato» [Agostino, Confessioni, I, 11, 17]

Monica, la mamma di Agostino, è una delle donne dell’antichità che conosciamo meglio, grazie a quel figlio speciale che ci ha parlato molto di lei. Non è detto che, conoscendola bene, dobbiamo trovarla per forza simpatica: certi tratti del suo comportamento sono opinabili e molti di noi potrebbero vederla come una madre troppo invadente e possessiva nei riguardi di quel figlio assolutamente prediletto (ne aveva altri due, un maschio di nome Navigio e una femmina di cui ignoriamo persino il nome, ma non sappiamo nulla dei suoi rapporti con loro). Quando Agostino ci racconta, nel bellissimo ottavo capitolo del V libro delle Confessioni, di come un bel giorno partì da Cartagine alla volta di Roma, abbandonando con un inganno la madre che non voleva assolutamente lasciarlo partire, è probabile che molti lettori di oggi provino una certa soddisfazione. Quando la vediamo accettare di buon grado la lunga convivenza di Agostino con una donna (anche lei senza nome!) da cui ha un figlio, Adeodato, per poi congedarla senza farsi alcun problema, perché il suo Agostino, finalmente diventato un retore di successo (come lei aveva tanto desiderato), sta per fare un buon matrimonio, è difficile non restare perplessi … E si potrebbe continuare: del resto, anche nel brano che ho citato, la frase che dice che Monica faceva di tutto perché Dio, e non suo marito Patrizio, fosse il vero padre di Agostino è parsa a qualcuno «agghiacciante» (così la definisce il padre Robert J. O’Connell, gesuita e noto studioso di Agostino, in un suo articolo su La sessualità in Sant’Agostino, in R.J.Neuhaus, Agostino oggi, trad.it. Milano 2000, p.64), e un po’ di simpatia per quel padre relegato in secondo piano a qualcuno viene …

Va bene, ma questo è contorno. Oggi è la sua festa e Monica merita di essere trattata meglio, andando all’essenziale.

L’essenziale mi pare che sia in quell’espressione, «il diritto della piatà materna che io credessi in Cristo» (ius maternae pietatis, quominus in Christum crederem), che sembra così scandalosa alla mentalità di oggi, tutta presa dall’idolatria dell’individualismo. I genitori di oggi, troppo spesso, sono atterriti dalla responsabilità educativa e talvolta sembra che non vedano l’ora di poter dire del figlio: “ormai è grande, deve decidere lui, noi non possiamo mica obbligarlo, tanto ormai non ci ascolta, farà le sue scelte …”. Quella litania di frasi fatte che, delle volte, si sentono dire a proposito di ragazzini o ragazzine quattordicenni. La fictio iuris della maggiore età, poi, interviene come alibi che copre e salva tutto: “ormai è maggiorenne!”.

Monica si è impicciata. E come se si è impicciata. Anche sbagliando, come Agostino stesso fa notare, ma la posizione era giusta. Lo ius maternae pietatis non è evidentemente un diritto alla fede del figlio. La fede non è un diritto, mai. È un dono che la libertà può accogliere o rifiutare. Quindi non si impone, non si esige, non si garantisce a nessuno. Lo ius maternae pietatis è però il diritto (cioè il diritto-dovere, come sempre è dei veri diritti) della madre a fare di tutto perché il figlio abbia la fede.

Perché si battezzano gli infanti, che non sono in grado di volere il battesimo? Proprio perché c’è questo diritto dei genitori a dare ai figli il dono più prezioso che hanno, cioè la loro fede. Finché il figlio non ha la ragione, questo diritto è un diritto pieno: si sceglie per lui, senza tante storie. Ma anche dopo, quando un po’ di ragione il figlio ce l’ha (ma solo un po’, perché – come tante volte ripetava don Giussani – si incomincia a capire un po’ alla volta, ma è a settant’anni che si capisce sul serio che cosa vuol dire Cristo) il diritto-dovere della sua mamma e del suo babbo a volere per lui il dono della fede non viene meno.

Monica, in questa volontà, è stata eroica. Per questo le siamo devoti, la preghiamo per i nostri figli, e la ringraziamo perchè – senza di lei – non avremmo avuto Agostino.

Quelli che fuggono da Dio. (Esercizi di lettura agostiniana, 1)

24 lunedì Ago 2015

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Agostino, misericordia, peccato

Eant et fugiant a te inquieti iniqui. Et tu vides eos et distinguis umbras, et ecce pluchra sunt cum eis omnia et ipsi turpes sunt. Et quid nocuerunt tibi? […] Quo enim fugerunt, cum fugerent a facie tua? Aut ubi tu non invenis eos? Sed fugerunt ut non viderent te videntem se atque excaecati in te offenderent – quia non deseris aliquid eorum quae fecisti – in te offenderent iniusti et iuste vexarentur […]

Eant et fugiant a te inquieti iniqui. [Vadano e fuggano da te i malvagi senza pace] (Ma inquieti iniqui è molto di più: ripetetelo ad alta voce, e sentite come l’allitterazione fa capire che è un tutt’uno: inquietudine e iniquità)

Et tu vides eos et distinguis umbras, et ecce pulchra sunt cum eis omnia et ipsi turpes sunt. (Non traduco, provo a interpretare: Dio li guarda, gli uomini ribelli e fuggitivi – cioè noi – e li vede, perché Lui distingue anche le ombre. Per quanto brutti, siamo sempre circondati di bellezza: la nostra iniquità non ha il potere di togliere la bellezza dal mondo. Tu ci guardi, Signore, ed ecco sono belle tutte le cose che sono con noi, anche se noi siamo turpi).

Et quid nocuerunt tibi? [Ed in che cosa hanno potuto nuocerti?] (L’infinitamente ridicola vanità dei miliardi di miliardi di bestemmie che gli uomini hanno detto e fatto lungo tutta la storia … Capaneo e Vanni Fucci nell’inferno dantesco … che danno può fare l’uomo a Dio? … danni no, ma da quando ci ha detto che è Padre, sappiamo che possiamo farlo adirare, persino farlo soffrire …)

Quo enim fugerunt, cum fugerent a facie tua? [Dove sono fuggiti, fuggendo dal tuo volto]. Aut ubi tu non invenis eos? [Dov’è che tu non li trovi?]

Sed fugerunt, ut non viderent te videntem se [Ma sono fuggiti per non vedere Te che li vedevi] (Che non si possa fuggire Dio, in fondo lo sanno tutti. Non è quello, è che almeno non vogliamo vederlo mentre ci guarda. Vogliamo illuderci che non ci guarda).

(«Chi mi guarda, in questo momento?». La domanda più utile da farsi.)

atque excaecati in te offenderet – quia non deseris aliquid eorum, quae fecisti (Anche qui non traduco ma provo a interpretare. Il peccato rende ciechi. Ma un cieco non sa dove va, quindi non sa nemmeno la strada per fuggire veramente da Dio. Non sa dove va, e quindi va a sbattere: in Dio. Perché Dio alla roba sua ci tiene e non perde nulla di ciò che ha creato Lui.)

in te offenderent iniusti et iuste vexaretur [si urtarono in Te ingiusti e furono giustamente tormentati] (La giustizia di Dio, ma si potrebbe anche dire, biblicamente, la sua ira è la forma estrema della sua misericordia, l’allargamento massimo delle sue “gran braccia”. Se si contrppone misericordia a giustizia si è fuori dal cristianesimo).

[Agostino, Confessioni, V, 2,2]

Affamati di Presenza (ci manca Maria).

15 sabato Ago 2015

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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Assunzione, Lagerkvist, Luzi, presenza

Affamati di presenza come siamo, ci attacchiamo ai corpi. Corpi vivi e giovani, finché è possibile. Poi, dopo l’inevitabile scandalo di malattia vecchiaia e morte, almeno a quel che resta dei corpi. Resti, reliquie, segni tangibili … qualcosa, comunque, da guardare e da toccare. Qualcosa da possedere. Per questo, quando muore una persona che ci è cara ci diventano cari (a volte indispensabili) i ricordi, le immagini, gli oggetti che sono stati suoi, che ha toccato. Toccando quelli, ci sembra un po’ di toccare lui o lei presenti.

Però fra tutti i milioni o i miliardi di corpi di uomini e donne che sono stati al mondo, ne mancano due.

Il corpo di Gesù Cristo, perché è risorto da morte ed è asceso al cielo. E il corpo di Maria, perché non è morta ma è stata assunta in cielo.

Affamati di presenza come siamo, forse la «porta stretta» della fede per noi è anche la difficoltà di capire come l’assenza possa essere la forma più profonda e vera della presenza. Dio si manifesta innanzitutto con l’assenza: «Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette» (Gv 20,8). Il primo (e già sufficiente!) segno per la fede non sono le apparizioni di Gesù risorto, ma è la tomba vuota. Non è una “pienezza”, è un vuoto. Una mancanza.

La domanda di Lagerkvist, che abbiamo sentito ripetere tante volte da don Giussani («Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza?») e quella di Luzi, che per un po’ ripeteremo spesso («Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno?»). non smettono di essere vere dopo che Dio si è rivelato e non è più lo Sconosciuto di cui parlava lo scrittore svedese, e dopo che noi lo abbiamo incontrato nella fede.

In un certo senso, anche la festa di oggi è una festa della mancanza.

Ragazze, non esagerate col trucco! (Tertulliano e le donne)

08 sabato Ago 2015

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corpo, donne, Tertulliano

«Queste cose ve le dico non per indurvi a costumi del tutto rozzi e selvaggi, né per convincervi che lo squallore e la sporcizia siano un bene, ma per persuadervi a una giusta misura nella cura del corpo. Non bisogna andare al di là di quanto esige un’eleganza semplice e decente, di quanto serve per piacere a Dio.

Peccano contro di lui, infatti, quelle che tormentano la pelle con i cosmetici, tingono di rossetto le guance, allungano gli occhi col nerofumo. A loro, evidentemente, non piace l’arte con cui Dio le ha fatte (Displicet nimirum illis plastica Dei) e accusano e disapprovano in se stesse l’artefice di tutte le cose (in ipsis redarguunt et reprehendunt artificem omnium). Lo disapprovano, infatti, dal momento che lo correggono e aggiungono [qualcosa a ciò che ha fatto], tanto più che queste aggiunte sono prese dall’artefice avversario.

Cioè dal diavolo. Infatti chi mai potrebbe insegnare a modificare il corpo, se non colui che, con malizia, ha trasformato lo spirito dell’uomo? È stato lui, certamente, a suggerire tali invenzioni, per aggredire in un certo modo Dio attraverso di noi (ut in nobis quodam modo manus deo inferret).

Ciò che viene dalla natura è opera di Dio. Dunque ciò che è “finto” è affare del diavolo. (Quod nascitur, opus Dei est. Ergo quod infingitur, diaboli negotium est)».

[Tertulliano, De cultu feminarum, II, 5, 1-4]

Esagerato! diremmo noi (lo diranno, immagino, soprattutto le eventuali lettrici di questo post). Tertulliano, in effetti, non sembra un tipo del tutto raccomandabile: una gran testa, senza dubbio (per me è il più geniale dei padri latini fino ad Agostino) ma anche un estremista, che finì per abbandonare la chiesa cattolica per farsi montanista e poi, non sembrandogli abbastanza rigidi neanche i montanisti, formò una sua piccola setta, i tertullianisti …

Il trattato su L’eleganza delle donne lo scrisse quando era ancora cattolico, ma voi direte che già non stava tanto a posto: una si trucca e pecca contro Dio? Ma dai, ma come è messo?

Però, però … rileggete con calma queste righe sgradevoli e vedete quanta profonda e “scorretta” saggezza c’è dentro. (Oggigiorno la saggezza è sempre scorretta). Provate, ad esempio, ad applicare il ragionamento di Tertulliano non a un po’ di fard e di ombretto, ma a certe aberranti mostruosità della c.d. “chirurgia estetica” che vediamo così spesso …

Io mi limito a sottolineare  due acuminati giudizi che trafiggono il nostro presente:

1) quod infingitur, diaboli negotium est, cioè non può esserci bellezza e bontà dove non c’è verità;

2) nelle infinite aggressioni, manipolazioni e umiliazioni dei corpi degli uomini e delle donne che avvengono ogni giorno sulla terra, c’è davvero la mano del diavolo: non potendo aggredire Dio in persona, “mette le mani” sull’uomo, cioè sulla creatura fatta a immagine e somiglianza di Dio. C’è dunque un’essenza teologica nella difesa del corpo, che, oggi più che mai, siamo chiamati a fare.

I ricchi e i poveri. Storia di Naboth e della sua vigna.

02 domenica Ago 2015

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Ambrogio, economia, Laudato si', povertà e ricchezza

Riporto il testo di un mio articolo uscito oggi sull’Osservatore Romano:

«La storia di Naboth è antica per età, ma nel costume è quotidiana»: con queste parole si apre il De Nabuthae historia, un’operetta composta da sant’Ambrogio alla fine degli anni ottanta del IV secolo, la cui traduzione viene ora offerta, col titolo La vigna di Naboth, dalle Edizioni Dehoniane Bologna, per le sapienti cure di una grande studiosa di letteratura cristiana antica come Maria Grazia Mara, che già quarant’anni fa ne aveva procurato un’edizione critica sostanzialmente migliorativa di quella precedente di Schenkl e che si è a lungo occupata di temi sociali nel pensiero patristico: si veda in proposito il suo volume su Ricchezza e povertà nel cristianesimo primitivo, più volte ristampato (da ultimo, proprio quest’anno dalla stessa casa editrice bolognese).

Di ricchi e di poveri tratta appunto il discorso di Ambrogio, a partire da quella che potremmo definire una storia di ordinaria ingiustizia: l’episodio biblico – narrato in 1 Re 21 – di Naboth, proprietario di una vigna confinante con il palazzo del re Achab, che si rifiuta di cedere al potente vicino «l’eredità dei suoi padri» e viene per questo fatto uccidere per ordine della regina Gezabele. Una vicenda tutt’altro che eccezionale, come l’autore stesso sottolinea: «Achab nasce ogni giorno e non muore mai a questo mondo» e «Naboth non è l’unico povero che sia stato ucciso» perché «ogni giorno un povero viene ucciso» (1), ma sulla quale egli conduce una riflessione per nulla scontata, anzi sotto certi aspetti sorprendente, soprattutto per chi da uno scrittore ecclesiastico si aspettasse soltanto una condanna moralistica contro l’avidità umana o una pia esortazione alla povertà; quel tipo di richiamo ai valori spirituali che gli uomini pratici possono accettare la domenica, prima di rimettersi a lavorare e fare affari sul serio. In un gioco delle parti che vige oggi come allora, infatti, il mondo consente che alla chiesa sia concesso uno spazio per farci tutta la parenetica che vuole, ma non permette che si impicci delle “cose serie” come, appunto, l’economia. Certe reazioni all’enciclica Laudato si’ sono lì a confermarlo.

Questo, invece, è un libretto che vorremmo vedere in mano anche di chi non è avvezzo alla frequentazione dei Padri e che andrebbe caldamente consigliato in particolare a manager, banchieri, imprenditori e politici, nonché inserito nei programmi di studio di economisti e sociologi, perché l’approccio di Ambrogio al problema della ricchezza e della povertà è così culturalmente forte da risultare estremamente fecondo di spunti di riflessione per tutti. Il suo è un esempio straordinario di come un intelligente magistero cristiano, illuminato dalla fede e irrobustito nella meditazione della parola di Dio, sia in grado non certo di elaborare specifiche teorie economiche e/o programmi politici (non è questo il suo compito) ma di aprire una prospettiva ideale completamente nuova entro cui il pensiero e l’azione sociale e politica degli uomini possono nascere e svilupparsi. Nel contesto di una precisa situazione storica, contrassegnata dal delicato problema di regolare i rapporti tra la chiesa e il potere politico dell’impero ormai divenuto almeno nominalmente cristiano, come l’introduzione di Maria Grazia Mara illustra in modo sintetico ma esauriente, la riflessione ambrosiana sul ricco Achab e il povero Naboth suggerisce un modo nuovo di guardare la realtà sociale, non solo del suo tempo ma anche del nostro. Il punto di vista che egli adotta, infatti, ha una sua permanente validità anche se da esso possono derivare, a seconda dei tempi e delle circostanze, tentativi diversi di soluzione ai problemi sociali, con tutto il rischio, ovviamente, della fallibilità delle opzioni umane.

Direi che l’idea centrale del trattato di Ambrogio consiste appunto in un vero e proprio rovesciamento di prospettiva: colui che il mondo considera ricco è in realtà poverissimo, perché il suo modo di concepire la ricchezza lo priva di tutte le relazioni; invece il povero – che non a caso Ambrogio ci presenta nelle prime righe del suo discorso come migrante carico di figli, cioè come “proletario” nel senso forte di “ricco di prole” (migrat cum parvulis pauper onustus pignore suo recita il testo latino, qui tradotto molto felicemente con «il povero, carico del suo pegno d’amore, emigra coi figli») – è il vero ricco se vive la sua condizione di bisogno entro una dimensione relazionale forte, aperta a Dio e agli altri uomini. Ciò che definisce la concezione mondana di ricchezza, infatti, è l’esclusività nel possesso dei beni: il ricco ha intrinsecamente bisogno di escludere tutti gli altri dalla partecipazione ai beni per poterli considerare suoi, ma questa logica perversa, oltre a metterlo in condizione di sentirsi sempre povero perché non può tollerare che vi sia qualcosa che non gli appartiene, lo priva della possibilità di rapporto con gli altri. La vigna di Naboth diviene così il simbolo di tale insopportabile “indigenza” del ricco e l’assassinio del povero la conseguenza inevitabile di quella logica. Ambrogio fa notare che quando il re Achab chiede a Naboth di vendergli la vigna gli dice: «Dammi», ma questa è la parola del povero, anzi del mendicante! Egli, dunque, che ha tutto, confessa in questo modo di avere bisogno di quell’unica cosa che gli manca; d’altra parte, quando offre al povero del denaro oppure un’altra vigna in cambio della sua, presta il fianco a questo commento dell’esegeta: «Ciò che è suo, il ricco lo guarda con fastidio, come roba di poco conto; ma quello che è di altri, lo agogna come ciò che vi è di più prezioso […] perché chi vuole essere padrone di tutto non può accettare che l’altro possieda qualcosa» (9-10). E che cosa ci vuol fare, di quella vigna tanto desiderata? Un campo di ortaggi: «Tutte queste stranezze, tutta questa smania miravano a trovare un posto per ortaggi che non costavano nulla! Voi desiderate possedere una cosa non perché è utile, ma perché volete toglierla agli altri» (11). Il sistema di produzione/accumulazione della ricchezza messo in atto da Achab è dunque, in realtà, una macchina che distrugge valore: la vigna di Naboth, tanto agognata finché non gli appartiene, una volta acquisita perde tutta la sua attrattiva. Viene, per così dire, consumata. In questo senso, «che cos’è mai il ricco, se non una voragine senza fondo di ricchezze?» (28).

La perversa ricerca del possesso esclusivo mette il ricco al bando dall’ordine naturale del mondo, cioè da quel fondamentale principio di relazionalità che governa tutto il creato. Per citare le parole di papa Francesco, «quando le persone diventano autoreferenziali e si isolano nella loro coscienza, accrescono la propria avidità. Più il cuore della persona è vuoto, più ha bisogno di oggetti da comprare, possedere e consumare. In tale contesto non sembra possibile che qualcuno accetti che la realtà gli ponga un limite» (Laudato si’ 204). Per questo motivo, nota Ambrogio, i naturae dispendia, cioè le molteplici elargizioni che l’orbe terracqueo, universis creatus, garantisce a tutti i viventi (11), senza alcuna distinzione e in uguale misura, sono aborriti dai ricchi, che cercano in tutti i modi di chiudere i beni terreni entro i confini del proprio privato dominio. Portata all’estremo, la loro logica conduce però ad un fallimentare solipsismo: essi infatti «rifuggono dall’abitare insieme agli uomini, e perciò cacciano via i vicini, ma non riescono ad evitarli, perché quando hanno cacciato via i primi ne trovano ancora degli altri […] perché è evidente che non possono abitare la terra essi soli» (12).

La logica anti-relazionale del ricco, tra l’altro, se perseguita con coerenza, finisce per diventare anche anti-economica e a questo proposito sarebbe davvero interessante riflettere sugli spunti di critica economica che il discorso ambrosiano contiene: si pensi, per fare solo un paio di esempi, alla sua denuncia della tesaurizzazione («estraete l’oro dal fondo delle miniere, ma subito lo nascondete») (16) e dell’assurdità di un sistema che contraddice la sua stessa ragion d’essere, cioè la produzione di ricchezza, perché non sa gestirla: «L’avaro è sempre messo in difficoltà dall’abondanza dei prodotti, perché calcola la diminuzione dei prezzi dei generi alimantari. Infatti l’abbondanza va bene per tutti, la carestia è redditizia solo per l’avaro. A lui fa piacere più l’aumento spropositato dei prezzi che l’abbondanza di viveri sul mercato […] Guardalo mentre si preoccupa che il mucchio di granaglie salga troppo su e che, traboccando dai granai, si riversi sui poveri, procurando perfino agli indigenti l’occasione di un qualche bene» (35). Con tanti saluti all’effetto trickle-down tante volte esaltato come la via capitalistica al superamento dell’indigenza!

Il punto è che la ricchezza accumulata in questo modo è sterile, non serve per la vita, viene meno cioè alla funzione suprema che l’uomo in ultima analisi attribuisce ad ogni valore nei confronti del suo bisogno fondamentale: «a che mi servono, se non sono capaci di liberarmi dalla morte?» (27).

Di fronte ad Achab, il povero Naboth è ricco della consapevolezza dei suoi diritti-doveri, della sua appartenenza ad una tradizione familiare, di un patrimonio di relazioni che lo uniscono ai suoi padri e, in prospettiva, ai suoi discendenti. È eloquente, sotto questo profilo, la risposta con cui rifiuta l’offerta del denaro del re: «Egli è convinto che il denaro del ricco sia per lui come qualcosa di contagioso; quindi è come se dicesse: “Va’ in perdizione tu e il tuo denaro”. Quanto a me, non posso vendere il patrimonio dei miei antenati» (13). Esiste, in quest’altra logica socio-economica, un «guadagno che si misura non con il denaro, ma con la riconoscenza» (33), in termini cioè di capitale sociale, come diremmo noi oggi. E nel momento in cui incomincia finalmente a farsi strada l’idea che la ricchezza, tanto dei singoli individui quanto dei popoli, non si può più misurare esclusivamente in base alla quantità di beni materiali posseduti, ma deve essere concepita come qualità della vita e non è solo questione di PIL o di reddito pro capite, la lontana voce di Sant’Ambrogio può dirci cose singolarmente pertinenti alla nostra attualità.

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