Rivendicare il primato del servizio della parola non significa per gli apostoli negare o minimizzare l’importanza del servizio della mensa, anzi è la premessa per investire direttamente tutta la comunità dei «fratelli» della responsabilità di farsene carico. Ecco, infatti come prosegue il loro discorso all’assemblea:
«Cercate dunque, fratelli, fra di voi sette uomini con una buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza che noi insedieremo [a svolgere] questo incarico» (Atti 6,3).
Si noti che, così facendo, gli apostoli:
1) mettono in atto, concretamente, quella che noi chiameremmo “una prassi di chiesa non clericale”. Invece di fare discorsi sul pericolo del clericalismo, dicono: “Cari fratelli, avete sollevato, giustamente, un problema? Bene, affrontatelo voi stessi, eleggendo tra di voi le persone più adatte a risolverlo. Non devono fare tutto gli apostoli.”
2) Riconoscono che la serietà della questione posta dal servizio della mensa è tale da richiedere la costituzione di un altro organo a fianco del collegio dei Dodici, quello dei Sette. È la prima decisione di governo organizzativo della chiesa che viene da loro assunta al di fuori di uno specifico mandato di Gesù. C’è qui una distinzione che bisogna tenere ben presente: gli apostoli esistono perché Gesù li ha voluti e la loro autorità, anzi la loro stessa ragion d’essere, promana solo da questo legame unico e irripetibile con la persona di Cristo. Per i Sette è diverso: Cristo non li ha istituiti, sono gli apostoli che in nome suo, e direi “a sua immagine”, compiono un atto fondamentale di estensione e di articolazione del mandato. Hanno cura di indicare con precisione i criteri per individuare gli incaricati, però non si arrogano il diritto di sceglierli: sarà la comunità intera a farlo, mentre a loro spetta comunque la funzione di riferimento autoritativo ultimo nella chiesa, espressa dall’atto di insediarli nell’ufficio (6,3: καταστήσομεν ἐπὶ τῆς χρείας ταύτης) e dal rito dell’imposizione delle mani (6,6). Quando si dice che la chiesa non è una democrazia, si dice una cosa giustissima, ma non si intende che invece sia un’oligarchia o una monarchia (come troppo a cuor leggero si dice spesso). In senso proprio, nessuna delle tre figure classiche del potere politico le si applicano adeguatamente, perché essa è comunione.
3) Non istituiscono, come spesso si dice, il diaconato, se con questo termine si intende un ministero subordinato in stretta correlazione gerarchica con quello del vescovo. Dire che i Sette sono diaconi (Luca, fra l’altro non li chiama mai così) e i Dodici sono vescovi sarebbe un anacronismo insostenibile, come già riconosceva Giovanni Crisostomo quando osservava che in quel momento della storia della chiesa non c’erano ancora né gli uni né gli altri, «ma solo gli apostoli» (hom in Act. 14,3). Dal nostro testo, infatti, non si ricava in alcun modo che l’intenzione degli apostoli sia quella di governare il servizio della mensa attraverso dei loro subordinati; anzi, proprio per la riserva proclamata nel v.4 («noi invece continueremo a perseverare nella preghiera e nel servizio della parole»), è chiaro invece che, nella prospettiva del racconto di Atti, i Dodici non si occupano di ciò di cui si occupano i Sette.
Ma di che cosa si devono occupare i Sette? Questo è il punto più interessante del brano ed anche quello più sorprendente. Visto che tutta la questione è nata intorno alla distribuzione dei sussidi ai membri più poveri della comunità, noi ci aspetteremmo che quello sia essenzialmente il compito dei Sette e, ragionando con la nostra mentalità, metteremmo a quel posto degli “specialisti della solidarietà e dell’assistenza”. Invece osserviamo che i requisiti indicati dagli apostoli sono molto più impegnativi: ci vogliono persone di cui tutti possono dare buona testimonianza (μαρτυρούμενους) e pieni di spirito e di sapienza (πλήρεις πνεύματος καὶ σοφίας). Per scegliere l’apostolo che doveva sostituire Giuda i requisiti erano stati diversi (e in un certo senso meno esigenti), perché si riducevano alla condizione di poter testimoniare direttamente tutto ciò che Gesù aveva detto e fatto nel corso della sua missione pubblica (1,21-22). Come dire: per fare il “diacono” bisogna essere stimati e pieni di spirito e di sapienza; per fare il “vescovo” basta essere testimoni di Gesù Cristo.
Ma c’è di più: dei sette nominati, solo due, non a caso messi in testa all’elenco, hanno un ruolo di rilievo nel libro degli Atti e sono, come è noto, Stefano e Filippo. Bene, entrambi ci vengono presentati non come addetti alla distribuzione del cibo ai poveri, ma come dei grandi evangelizzatori.
A questo punto i conti non ci tornano più: se per caso avevamo capito che servizio della parola e servizio della mensa fossero due cose diverse, da trattare separatamente, ognuna con i propri “addetti ai lavori”, ci eravamo completamente sbagliati. Il grande messaggio che ci arriva da questo passo degli Atti è che non si dà il pane se non si dà la parola. Non si fa veramente la carità, se non si testimonia la fede e non si annuncia Cristo. Per “servire” a tavola, ci vuole spirito e sapienza.