Se recitiamo i primi due versi della Divina Commedia, quelli che proprio tutti sanno a memoria, e ci viene da fare un’impercettibile pausa a metà del secondo: Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai … potremmo accorgerci che lì, sotto il primo senso che le parole immediatamente seguenti chiariscono in modo apparentemente semplice (mi ritrovai per una selva oscura / che la diritta via era smarrita) ce n’è nascosto un altro, decisivo, che è la chiave dell’intera opera, la sua ragion d’essere, forse il senso della vita di Dante, la sua missione nel mondo.
«Mi ritrovai»: la stessa locuzione verbale che adoperiamo per descrivere l’inavvertenza (colpevole) in cui tanto spesso (o normalmente?) si svolgono le nostre vite – per cui ci accorgiamo con sorpresa di pieghe non volute che hanno preso, situazioni incongrue in cui “siamo capitati”, fisionomie che “ci ritroviamo addosso” senza che ce ne rendessimo conto (“sono io, questo?”) – dice anche un’altra cosa, la possibilità di “ritrovare se stessi”. In termini cristiani: salvare la propria vita.
Non ci avevo mai fatto caso, ma Dante, ancor prima di enunciarlo programmaticamente (ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai / dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte) dopo aver detto le parole paura e morte – cioè quelle che più determinano la vita di tutti, nel mondo senza Cristo – ce lo suggerisce, in modo subliminale, appena apre bocca. Come se avesse urgenza di dirla subito, questa cosa: c’è salvezza, niente è perduto.
Ma chi di noi, nell’italiano poveretto che siamo ridotti a parlare (e dunque nella povertà di pensiero che ne consegue), ha chiara la differenza tra perdere e smarrire? La via di Dante (e la nostra) era «smarrita»; «perduta» è la gente dell’inferno, come certifica l’iscrizione sulla porta (per me si va tra la perduta gente).
Ecco, smarriti lo siamo e come. Gente smarrita, una generazione smarrita, un paese smarrito. Pecore senza pastori.
Dante può aiutarci? Penso di sì. Comunque è quello che lui voleva, e vuole. Ha scritto la Commedia per questo, e ha dedicato gli ultimi quindici/venti anni della sua vita solo a questo.
Mancano 817 giorni, cioè circa 116 settimane, al settimo centenario della sua morte. Prima che si metta in moto il circo delle celebrazioni e, spero, senza aver nulla a che fare con la sua logica pomposa ed effimera, mi permetto di fare agli eventuali lettori di questo blog, una “modesta proposta”.
Leggiamo, pensandoci su con calma, riflessivamente, tutta la Divina Commedia. Leggiamola facendo, con passo lento e metodico, un percorso per ritrovarci, come individui e – per la parte infinitesimale che ci compete – anche come paese. Leggiamola per istruirci, per imparare a pensare meglio (e a parlare meglio!). Leggiamola per fare, in modo geniale, il catechismo che nessuno più ci fa. Leggiamola per ritornare italiani, cioè membri di un piccolo popolo a vocazione “cattolica” cioè universale. Se siamo già “italiani di nascita” ne abbiamo il dovere; se siamo almeno italofoni ne abbiamo almeno il privilegio.
Centosedici settimane vuole dire che c’è il tempo di fare un canto alla settimana, con qualche pausa che si renda, strada facendo, necessaria. Lo si può fare individualmente, con il solo (indispensabile) ausilio di una buona edizione commentata. Consiglio, senza riserve e senza incertezze, quella curata da Anna Maria Chiavacci Leonardi, pubblicata da Zanichelli.
Sarebbe però molto più bello e proficuo farlo insieme ad altri, creando così dei piccoli “luoghi di ritrovo”. Non ci vuole poi molto: basta fissare un appuntamento settimanale di due ore (ci vogliono per leggere un canto), a cui essere fedeli senza preoccuparsi di chi c’è o chi non c’è (basta essere in due, al limite). A turno, chi si sente in grado di farlo, guida la lettura dopo essersi preparato, e si cerca insieme di capire. Con molta umiltà, senza protagonismi, senza il narcisismo degli interpreti che devono far vedere di essere più intelligenti di Dante, senza secondi fini. Leggere, semplicemente.
Lezioni di Dante. Sono certo che ci farebbero un gran bene.
Qui, in ogni caso, si proverà a fare qualcosa del genere, in formato ridottissimo. Mi propongo di confezionare, ogni settimana, una “pillola dantesca”, che invogli, canto dopo canto, a quella lettura “terapeutica”.