Giunti al «cinghio» o ripiano che consente provvidenzialmente un po’ di sosta al povero Dante, «a seder ci ponemmo ivi ambedui / vòlti a levante ond’eravam saliti, / che suole a riguardar giovare altrui» (vv. 52-54). Nella Commedia non c’è scampo: tutte le volte che, per un motivo o per l’altro ci si ferma e ci si siede, si fa lezione. Nel Purgatorio più ancora che nell’Inferno si fa lezione, perché più ci si avvicina alla meta del viaggio più si capisce che la beatitudine dell’uomo implica essenzialmente la conoscenza. Il Paradiso sarà una grande festa scolastica, un banchetto di onniscienza divina, in cui l’amore e l’insegnamento saranno un tutt’uno, poiché la cattedra la tiene Beatrice!
All’inizio del canto s’era fatta lezione di psicologia; ora se ne fa una di astronomia, imperniata sul problema della posizione del sole, che Dante, guardando verso oriente, si stupisce di trovare alla sua sinistra invece che alla sua destra come nell’emisfero boreale (vv. 55-84). Il professor Virgilio è come sempre impeccabile nella didattica: ben preparato, chiaro, ordinato, e anche capace di cogliere l’attimo propizio per inserirsi («Ben s’avvide il poeta ch’io stava / stupido tutto al carro de la luce, / ove tra noi e Aquilone intrava», vv. 58-60), ma gli allievi, anche nella migliore delle scuole, hanno il sacrosanto diritto di distrarsi e di stufarsi, ed ecco Dante che ringrazia il maestro (vv. 76-84: “non l’avevo mai capita così bene, grazie prof. da solo non ci sarei arrivato”) ma chiede con giovanile nonchalance di passare ad altro: «Ma se a te piace, volentier saprei / quanto avemo ad andar; ché il poggio sale / più che salir non posson li occhi miei» (vv. 85-87). Bella l’astronomia, ma quanto c’è ancora da scarpinare? Perché sta montagna sembra non finire più. (Come quando a scuola facevi una lezione particolarmente intensa ed ispirata, e magari ti sembrava pure che stessero ad ascoltarti tutti presi, poi uno alzava la mano e chiedeva: “Questa roba la chiede?”).
Ormai familiari alla tecnica dell’anticipazione subliminale, noi questo ironico abbassamento di tono, che “smonta” disinvoltamente tutta la “professoralità” di Virgilio, dovremmo già percepirlo come il preannuncio del cambiamento di clima connesso al tema del quarto canto. Il professore, invece, naturalmente non se ne accroge e tira dritto, semmai ancor più compreso del suo ruolo: dall’ora di astronomia si passa a quella di educazione fisica (e morale!) con un pistolotto sui fondamenti dell’alpinismo purgatoriale: «Questa montagna è tale, / che sempre al cominciar di sotto è grave; / e quant’om più va sù, e men fa male …» (vv. 88-90 e seguenti). Che è un insegnamento vero e utile, ma non è la risposta alla umanissima domanda di Dante: come tutti i prof. un po’ scafati, Virgilio quando non sa una cosa parla d’altro.
Appena finito il bel discorsetto, dall’ultimo banco si leva una voce: «E com’elli ebbe sua parola detta, / una voce di presso sonò: “Forse / che di sedere in pria avrai distretta!”. // Al suon di lei ciascun di noi torse, / e vedemmo a mancina un gran petrone, / del qual né io né ei prima s’accorse. // Là ci traemmo; e ivi eran persone / che si stavano a l’ombra dietro al sasso / come l’uom per negghienza a star si pone» (vv. 97-105).
Ho sempre cercato di immaginare il timbro, l’inflessione e la sonorità di questa voce così “fuori contesto”. E non ci sono mai riuscito. Però che “risuoni” è certo, perché Dante lo ripete due volte. Si sente eccome, anche se forse la battuta è detta sottovoce (per non far fatica!), e ha il potere di cambiare del tutto lo scenario: i due, tutti presi dal progetto di scalata della montagna, si devono accorgere che lì, a due passi da loro, ci sono persone che se ne stanno coricate all’ombra di un gran petrone, senza far niente. Il mondo non è fatto solo di scalatori, né la scuola è fatta solo di alunni zelanti (per questo prima ho evocato “l’ultimo banco”).
Tra gli “accomodati”, ce n’è uno che attira l’attenzione perché «sedeva e abbracciava le ginocchia, / tenendo ‘l viso giù tra esse basso» (vv. 107-108). Attenzione a quello che succede adesso, perché le parole di Dante dimostrano che lui si è già sintonizzato perfettamente col nuovo clima che si respira in questo angolo di Antipurgatorio. «“O dolce segnor mio”, diss’io, “adocchia / colui che mostra sé più negligente / che se pigrizia fosse sua serocchia”» (vv. 109-111). “Maestro, guarda quello là, che sembra il fratello della pigrizia!”. È una battuta. Questo è notevole, perché finora non se ne erano mai fatte. È troppo evidente che non è cosa: far battute all’inferno era semmai una prerogativa di certi diavoli (vedi ad esempio XVIII, vv.65-66 oppure XXVII, v. 123), ed eran comunque acide e corrosive; quanto al purgatorio, abbiam capito da Catone che non è un posto in cui rilassarsi. Eppure ora stiamo entrando in modalità cazzeggio. Ed è stata pronunciata la parola-chiave di questo episodio: pigrizia.
Tra le meraviglie della Commedia non è l’ultima la straordinaria varietà di personaggi che essa ci presenta: ce ne sono di tragici e di comici, di nobili e di spregevoli, di grandi e di piccoli, per tutti i gusti … ma se dovessi spendere l’aggettivo “simpatico” per uno di loro credo che lo farei solo per questo, che è il protagonista del nostro canto: Belacqua. Dichiaro qui la mia preferenza, derivante totalmente da una simpatia fortissima che a mia volta provo per lui (mon semblable, mon frère!).
La spiego leggendo i versi che lo riguardano. Alla battuta di Dante, il nostro reagisce così: «Allor si volse a noi e puose mente, / movendo il viso pur su per la coscia,» – gustatevi la sublime lentezza di questo movimento, da bradipo (sempre per non far fatica!) – «e disse: “Or va tu sù, che se’ valente!”» (vv. 112-114). Come si fa a non volergli bene, a uno così? E infatti Dante, riconosciutolo, nonostante il fiatone che ancora ha, gli va subito incontro; lui allora, quando l’altro gli è vicino «alzò la testa a pena,» – (meraviglioso anche questo movimento millimetrico!) – «dicendo: “Hai ben veduto come ‘l sole / da l’omero sinistro il carro mena?”» (vv. 118-120). Puro, delizioso, indulgente cazzeggio: quell’amabile prendersi in giro, tra amici: senza cattiveria, senza alcuna volontà di far male; di sfottere sì, e anche pesantemente talvolta, ma come in un gioco le cui regole sono tacitamente accettate di buon grado da tutti. Attività prettamente maschile, per quanto ne so io (ma sono disponibile a smentite), praticata nelle osterie, nelle botteghe, nei ritrovi popolari di questo paese, almeno quando era un paese e c’era un popolo. Una delle cose che fanno (facevano) dolce la vita italiana. Una pratica sociale ben nota e familiare a Dante, che infatti si sente subito a casa sua, con l’amico ritrovato: «Li atti suoi pigri e le corte parole / mosser le labbra mie un poco a riso; / poi cominciai: “Belacqua, a me non dole // di te omai; ma dimmi: perché assiso / quiritto se’? attendi tu iscorta, / o pur lo modo usato t’ha ripriso?”» (vv. 121-126).
Belacqua, ci dice l’Anonimo Fiorentino, uno degli antichi commentatori della Commedia, faceva il liutaio «et era il più pigro uomo che fosse mai». Dante, che abitava vicino alla sua bottega «fu forse suo dimestico» e l’Anonimo dice di sapere di un motteggio tra i due, col poeta che riprende l’amico per la sua pigrizia, il liutaio che gli risponde citando Aristotele (sedendo et quiescendo anima efficitur sapiens), e Dante che conclude: “allora tu sei l’uomo più sapiente del mondo!”. La bottega di Belacqua noi la conosciamo, c’è ancora (o almeno c’era fino a ieri) in tante contrade d’Italia: può essere un barbiere, o un calzolaio, un falegname o un riparatore di elettrodomestici, non importa, il quadro è sempre quello: uno che lavora (con calma, senza fretta) e tre o quattro frequentatori abituali della bottega che stanno a vedere, e a chiacchierare. Lì fioriscono quelle battute, lì un personaggio come Belacqua può dare il meglio di sé, anche con l’amico intellettuale. Che nostalgia di quel piccolo mondo! Infatti, come ho detto, Dante entra subito in sintonia con quella Stimmung: contento di vedere Belacqua sano e salvo, nel chiedergli come mai si trovi ancora lì, alle prime pendici del monte, torna quasi automaticamente al tono della celia che era così dolcemente abituale tra di loro: “aspetti una scorta, oppure anche qui ti ha ripreso la pigrizia?”.
A questo punto, se fosse per me, io mi fermerei concludendo questa lettura con una sorta di apologia della pigrizia, questa umana debolezza che assume qualche volta le apparenze di una “piccola virtù”, in quanto salutare antidoto al fanatismo, alla micidiale tendenza a prendersi troppo sul serio, alle parole d’ordine “categoriche e impegnative per tutto”, alla retorica altisonante, alle fanfare e agli squilli di tromba. Il pigro, con l’ironia che gli è quasi sempre connaturata, sa prendere le distanze dall’engagé, il pericoloso zelatore di cause che di volta in volta si presentano a noi come supreme e imperative. Ad ogni aux armes citoyens!, ad ogni marchons, marchons! che la politica, l’ideologia e la storia ci propinano, l’«or va tu sù, che se’ valente!» del buon Belacqua suona come una replica quanto mai opportuna. Surtout, pas trop de zèle, raccomandava quel vecchio marpione di Talleyrand, che è durato assai più a lungo del fulmine napoleonico tanto ammirato da Manzoni. Alla peggio, si potrà sempre dire che un uomo pigro non può essere del tutto cattivo, perché si stanca anche di fare troppo male.
Se fosse per me, avrei finito qui. Ma è per Dante e la cosa non finisce affatto qui. La rimpatriata da Belacqua sarebbe simpatica, come sopra l’ho definita, ma l’insegnamento che ci viene da questo canto sarebbe così incompleto da risultare falso e pericoloso. La grandezza del canto viene fuori adesso, quando Belacqua risponde alla scherzosa domanda di Dante. E non si scherza più, nemmeno un po’; non si dicono più battute e non c’è più alcuno spazio per una qualsiasi indulgenza verso la pigrizia. «O frate, andar in sù che porta? / ché non mi lascerebbe ire a’ martìri / l’angel di Dio che siede in su la porta. // Prima convien che tanto il ciel m’aggiri / di fuor da essa, quanto fece in vita, / per ch’io ‘ndugiai al fine i buon sospiri, // se orazïone in prima non m’aita / che surga sù di cuor che in grazia viva; / l’altra che val, che ‘n ciel non è udita?» (vv. 127-135).
C’è poco da scherzare: Belacqua non va su perché non lo farebbero passare «a’ martìri» (e Dio sa quanto lo vorrebbe!). Il pigro perde tempo. Dio lo salva, ma il tempo perso non glielo restituisce. La pigrizia dunque è tanto nociva quanto il fanatismo, di cui prima ci era apparsa come un gentile antidoto. Ci doni il Signore la grazia di una ironica alacrità, capace di agire senza prendersi del tutto sul serio.