Il titolo è un po’ forte, ma non sono stato io a dire che i pubblicani e le prostitute ci passeranno avanti nel regno dei cieli (Mt 21, 31-32). (E Cristo non diceva per modo di dire. Non ha mai detto nulla “per modo di dire”, checché ne pensino talvolta preti e professori di esegesi). Il termine, squisitamente dantesco peraltro (vedi Inferno, XVIII, v. 133; Purgatorio, XXX, vv. 149 e 160) è quello che la gente comune adopera, almeno dalle mie parti, – (o forse adoperava quando c’era meno ipocrisia nel linguaggio; ma io penso che anche adesso, quando nessuno le sente, persino le vestali del politicamente corretto parlino come si è sempre fatto) – per designare quelle che “la danno via” un po’ a tutti, con volenterosa e inesausta facilità.
Cunizza da Romano, protagonista di questo canto, era la sorella di Ezzelino III, signore della Marca Trevigiana, famigerato tiranno di inaudita ferocia, esecratissimo al tempo di Dante: negli stessi anni in cui lui scriveva la Commedia, un letterato padovano, Albertino Mussato, compose su di lui un’intera tragedia, Ecerinis, che sempre viene ricordata nei manuali di storia della letteratura italiana e quasi mai letta da alcuno, ma allora fu molto lodata. Insomma: sarebbe un po’ come dire oggi “la sorella di Putin”, tanto per inquadrare l’ambiente familiare. Spietato e sanguinario il fratello, affamata di carne, in un altro senso, la sorella. Così almeno si dice: noi dobbiamo stare alla leggenda ed essere consapevoli che è di un personaggio che stiamo parlando: la persona in carne ed ossa chissà com’era in realtà. Solo Dio lo sa. Noi dalle scarse fonti di cui disponiamo possiamo ricavare solo che ebbe una vita movimentata, in cui entrarono molti uomini, tra cui anche quel Sordello da Goito del canto VI del Purgatorio, e che finì i suoi giorni a Firenze, dove Dante ragazzino potrebbe averla vista o averne sentito parlare, giacché morì quando lui aveva quattordici anni. Ma qui è la fama quella che conta: Jacopo della Lana, contemporaneo di poco più giovane di Dante, tra i primi commentatori della Commedia, riferisce di lei che «era de tanta larghezza in lo so amore che avrebbe tenuto grande villania a porsi a negarlo a chi cortesemente gliel’avesse domandato». Un tipo alla Bocca di Rosa della canzone di De André, per capirci.
La cosa meravigliosa, sorprendente e salutare (una volta che l’abbiamo capita), è che questa bella troiona fatta e finita Dante la mette in Paradiso a festeggiare la gloria di Dio, mentre colei che è la sua antitesi, l’affascinante Francesca, idolo di tutti gli storditi lettori romantici della Commedia (e pericolosa insidia per tutti noi), sta all’inferno in eterna silenziosa incattivita convivenza forzata con «colui che mai da me non fia diviso», impossibilitata a pregare («se fosse amico il re dell’universo …»), ridotta a esibire le sue finezze intellettuali da gran signora a beneficio del solo Dante («O animal grazioso e benigno … di quel che udire e che parlar vi piace … Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende …»). Noi non ce ne capacitiamo, perché siamo intrisi di moralismo e di estetismo: il primo ci incatena alla nostra misura di (presunta) moralità realizzata e ci rende inflessibili giudici del male che ci sembra oltrepassare la soglia di quello che potremmo fare noi. I peccati fino al livello dei miei ci possono stare: le porcate che invece io non farei mai (nel senso che non le ho ancora fatte), ecco quelle proprio non si possono tollerare. L’estetismo invece ci fa pensare che ciò che è “bello” (nel senso di attraente, elegante, comme il faut secondo la moda del momento, prestigioso), non può essere male male. Anche quando la ragione ci dice che è male, troviamo il modo di pensare che però sia un “male perbene”, un male che non fa schifo. Come si fa, pensiamo noi, a mettere sullo stesso piano la bellissima Francesca, che ha tradito una sola volta, per “ragioni” e in forme così nobili, così alte – come lei stessa è pronta a spiegare, con parole tra le più poetiche della letteratura di ogni tempo, a chiunque voglia stare ad ascoltarla – e quella zoccola di Cunizza, che come tutti sanno si è fatta trombare da mezzo mondo?
“Infatti non le metto sullo stesso piano”, ci risponde Dante che, da vero cristiano si è liberato tanto del moralismo quanto dell’estetismo e segue Gesù Cristo, l’unico che conosca fino in fondo il cuore dell’uomo e della donna e li giudichi secondo verità. Cunizza, che ha molto e male amato, si è pentita del suo male e lo ha consegnato a Cristo, il quale le ha restituito, purificato e intatto, tutto quel suo amore, che da carnale ora è tutto spirituale. (Nota bene: Spirito è più di carne, non carenza di carne). Quindi sta infinitamente al di sopra di Francesca: se ai nostri occhi appare come la sua antitesi, in realtà è la salvezza da lei.
Ecco come parla di sé Cunizza, con parole infinitamente meno note di quelle dell’altra, ma infinitamente più edificanti e preziose per noi. Prima però notiamo il modo in cui si avvicina a Dante: «Ed ecco un altro di quelli splendori / ver’ me si fece, e ‘l suo voler piacermi / significava nel chiarir di fori» (vv. 13-15). È solo un particolare, ma talmente godurioso che solo un genio poetico totalmente privo di complessi se lo poteva permettere in un contesto del genere: tutte le anime del Paradiso fanno festa a Dante quando gli si accostano, in una ricchissima varietà di modi, ma qui la sfumatura di “seduzione” («’l suo voler piacermi», un’espressione di cui si è ricordato Gozzano) in cui traluce, totalmente redenta, una traccia dell’antica collezionista di uomini, è peculiare e a mio avviso assolutamente fantastica. Come dire che nel perdono di Dio davvero nulla dell’umano, anche dell’umana carne, va perduto. Quel suo voler piacere, che tanto le aveva condizionato la vita, ora è riscattato in pura capacità di amare con calore, passione nell’immedesimarsi con l’altro, dolcezza di fargli la carità del dono di sé.
«In quella parte della terra prava» – («Siede la terra dove nata fui» aveva detto quall’altra) – «italica che siede tra Rïalto / e le fontane di Brenta e di Piava, // si leva un colle, e non surge molt’alto, / là onde scese già una facella / che fece alla contrada un grande assalto» (vv. 25-30) – suo fratello Ezzelino, il Putin di allora, come ho detto. «D’una radice nacqui e io ed ella: / Cunizza fui chiamata, e qui refulgo / perché mi vinse il lume d’esta stella;» (vv. 31-33) – qui, cioè nel cielo di Venere, perché fui dominata in vita dalla passione amorosa – e ci sta; ma qui, cioè anche in Paradiso, e non nonostante questa mia tendenza, ma «perché mi vinse il lume d’esta stella». Qui però noi cominciamo anche a non capire e a questo punto viene la terzina meravigliosa, quella che (dopo che l’abbiamo capita) ci riempie di gioia, anzi di allegria (per usare la parola ungarettiana):
«ma lietamente a me medesma indulgo / la cagion di mia sorte, e non mi noia; / che parria forse forte al vostro vulgo» (vv. 33-36). Lietamente a me medesma indulgo è cosa troppo bella perché la si possa dire fuori del Paradiso. Direi che è il Paradiso, in un certo senso. Qualcosa che noi ancora non stiamo capendo; Dante lo sa bene e ce lo dice: «che parria forse forte al vostro vulgo». Il volgo siamo noi, troppo volgari per afferrarle al volo, certe cose.
Occorrerà che ci torni sopra un altro personaggio, il secondo protagonista di questo canto (in cui peraltro si parla quasi sempre di politica, come diremo), un altro soggetto poco raccomandabile quanto Cunizza, che lei, incorreggibile!, presenta a Dante chiamandolo «luculenta e cara gioia» (v. 37), un bel complimento in cui diremmo quasi che la luce ha qualcosa di sensuale, se si potesse dire una cosa del genere in paradiso!
Io mi fermo qui, sperando di aver seminato un po’ di desiderio per la seconda meravigliosa spiegazione che ci attende.