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  • La chiesa e la crisi degli anni sessanta.

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~ Vanitas ludus omnis

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Archivi Mensili: Maggio 2022

Io e gli altri. (#Dante, Paradiso, Canto XI, vv. 1-12)

29 domenica Mag 2022

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Siamo fatti così, noi uomini: ciascuno di noi vuole distinguersi; sa di essere, in fondo, diverso da tutti gli altri. E ci tiene. I poeti ci tengono forse più degli altri, ed è per questo che, non bastandogli l’epica – poesia del noi, del “nostro popolo” che lotta contro il resto del mondo – hanno inventato la lirica, la cui formula implicita, o essenza segreta, non è appena l’io, ma piuttosto “io invece”. Cominciarono i greci, duemilaseicento anni fa, e da allora non hanno più smesso. Diceva uno: «I tesori di Gige non m’importano, / io non so emulazione, non invidio / divine imprese, non voglio tirannidi: / tutte cose remote alla mia vista»; rispondeva un’altra: «Quale la cosa più bella / sopra la terra bruna? Uno dice “una torma / di cavalieri”, uno “di fanti”, uno “di navi”. / Io, “ciò che s’ama”». Il ritornello nascosto, anche quando non diventa uno stilema, è sempre quello: ἄλλοι μέν … ἐγώ δὲ “gli altri così … io invece”.

Io invece: quanto sia fragile questa posizione umana, a cui pure siamo così attaccati da farne talvolta la sola ragione di vita, ce lo mostra in modo impressionante la paura che quella stessa diversità, tanto gelosamente coltivata, ci incute. Perché il paradosso della nostra esistenza è proprio questo: bramiamo la nostra unicità, perché temiamo che senza quella non saremmo nessuno (non vogliamo essere amati “al pari degli altri”: vogliamo essere preferiti); ma ci sgomentiamo al pensiero di essere soli “contro tutti”, diversi da tutti gli altri: “io invece” che si rivela come “solo io”. Dante ha già fatto la fotografia di questa condizione esistenziale, e l’ha anche giudicata, nel II canto dell’Inferno. Ricordate? «Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno / toglieva li animai che sono in terra / da le fatiche loro; e io sol uno // m’apparecchiava a sostenere la guerra / sì del cammino e sì de la pietate» (Inf. II, 1-5).

Hanno un bel gingillarsi, poeti retori e filosofi, nella comparazione delle scelte di vita (Priamel la chiamano quelli che se ne intendono) per rivendicare di “aver scelto la parte migliore”: la sostanza del problema è drammatica, per la contraddizione che abbiamo appena detto. Quando si esce dal gioco della letteratura e si tratta della vita – carne e sangue – quel benedetto io invece diventa una faccenda maledettamente seria. Ecco cosa ne fa Dante nel suo Paradiso, dall’alto del cielo del Sole, della Priamel delle scelte di vita (il che vuol dire anche di una tradizione letteraria che era già millenaria e veneranda ai suoi tempi):

O insensata cura de’ mortali,
quanto son difettivi silogismi
quei che ti fanno in basso batter l’ali!

Chi dietro a iura e chi ad amforismi
sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
e chi regnar per forza o per sofismi,

e chi rubare e chi civil negozio,
chi nel diletto de la carne involto
s’affaticava e chi si dava a l’ozio,

quando, da tutte queste cose sciolto,
con Bëatrice m’era suso in cielo
cotanto glorïosamente accolto.

La posizione umana dell’io invece che, nel suo soggettivismo sempre in fin dei conti patetico, qui in terra è fragilissima e velleitaria, qui – giudicata dal cielo – ha la saldezza trionfante di un giudizio. Come scopriremo, questo esordio è del tutto funzionale alla presentazione della vita di Francesco, che sta per arrivare, ma per ora facciamo finta di non saperlo, proprio come chi legge per la prima volta la Commedia. Anche così non possiamo fare a meno di sentirci come investiti da una ventata d’aria fresca: un vento gagliardo che ci dà un senso di gioiosa liberazione dalle innumerevoli, vane fatiche a cui noi uomini incateniamo le nostre esistenze: iura e amforismi, cioè diritto e medicina, le artes lucrativae di allora, noi diremmo il know how che dà potere e ricchezza; «sacerdozio»! (c’è anche un “darsi da fare“ religioso, o ecclesiastico, o clericale che, quand’anche benintenzionato, non è diverso dalle altre “carriere” mondane); «forza e sofismi», cioè tutta la politica; «rubare e civil negozio»: l’inclusione dei due in un solo verso dice più di quanto potrei spiegare!; «chi nel diletto de la carne involto / s’affaticava»: perché, alla fine, è una fatica anche quella, per chI vi si consegna mani e piedi; «e chi si dava all’ozio»: perché l’ozio, per chi vi si dà, è la fatica più grande.

Tutto questo è finito, tutto questo non c’è più: mentre gli uomini sulla terra, come tante formichine insensate, si sfinivano dietro a quelle cose, «da tutte queste cose sciolto, / con Beatrice m’era suso in cielo / cotanto glorïosamente accolto». Questa non è la versione dantesca del «bene munita tenere
edįta doctrina sapientum templa serena» vagheggiato da Lucrezio: nei templi sereni del cielo quel tormentato poeta immaginava di poterci stare da solo, per forza di dottrina epicurea. Dante è «con Beatrice», «cotanto gloriosamente accolto» dai santi del Paradiso. Cioè da un popolo.

A fondamento di questa lirica c’è un’epica.

Il volto purissimo del male.

25 mercoledì Mag 2022

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Male, omicido, Satana

Ieri un ragazzo di diciotto anni, di nome Salvador, che quasi certamente sarà stato battezzato, si è alzato, ha sparato a sua nonna; poi è salito in macchina, è andato alla scuola elementare del suo paese, ha ucciso diciannove bambini e le loro due maestre; poi è stato ucciso dalla polizia.

Tutti i discorsi che immagino si stiano facendo e che si faranno nei prossimi giorni, di qualunque natura essi siano: politica, sociologica, psichiatrica o altro, non devono distrarci dal punto che un fatto di questo genere ci impone di fissare: il volto purissimo del Male, cioè del Maligno.

Sappiamo che Dio «opera sempre» (Gv 5, 17). Se smettesse anche per un solo istante, tutto collasserebbe nel nulla. L’altro che lavora sempre, senza mai un secondo di pausa, è Satana, la simia Dei. Il Padre, amante della vita, eternamente opera per generare e creare. Il diavolo, che non ha figli e non sa creare nulla – e non ha nemmeno un corpo, per cui non dorme mai! – continuamente uccide. Quello che c’è da sapere di lui, ce lo ha detto Gesù Cristo: «Egli era omicida fin da principio e non stava saldo nella verità, perché in lui non c’è verità. Quando dice il falso, dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna» (Gv 8, 44).

La menzogna fa sì che egli normalmente si nasconda, si travesta e si confonda nell’azione degli uomini che lavorano per lui. L’omicidio (cioè l’odio per l’essere, che nelle sue molteplici forme è alla base di ogni peccato, compresi quelli che sembrano più “vitalistici”) in questo modo si “impasta”, per così dire, con delle “ragioni umane”: cattive ragioni, certo, ma ragioni; e soprattutto “umane”. Il male prende così un volto sopportabile, se non accettabile: qualcosa che è alla nostra misura, alla nostra portata. Si uccide qualcuno, sì, ma per questo o quel motivo umanamente intellegibile (perfino per amore, si dice a volte); si distrugge qualche parte dell’essere, ma per affermarne, malamente, qualche altra. Così nell’analisi delle “ragioni umane“ del male si perde il senso della sua radice “antiteologica”; non c’è nemmeno bisogno di cercarla, in fin dei conti, quella causa prima, perché le cause seconde bastano a spiegare. O almeno ce le facciamo bastare.

A volte però (sempre più spesso?) l’Omicida si fa vedere a volto scoperto, sembra non curarsi dei soliti travestimenti, tratta palesemente i suoi esecutori come meri strumenti materiali e non sente il bisogno di prestar loro “ragioni“ e moventi con cui dissimulare la sua firma. Chi può desiderare di uccidere diciannove bambini, senza una “ragione” al mondo? Chi “ha bisogno” della morte dei bambini, non come effetto di qualcos’altro, ma proprio in se stessa? Non basta essere omicidi, per volere questo: bisogna essere «omicidi fin dal principio».

Perché il «padre della menzogna» qualche volta (sempre più spesso?) sembra concedersi il lusso di non mentire? Chi lo sa: forse sa di poterselo permettere perché ormai quasi nessuno lo riconosce.

Proprio per questo, penso che la cosa più urgente da fare, di fronte a un fatto come il massacro di Uvalde, Texas, e gli altri che portano lo stesso marchio, sia levare lo sguardo e fissare quello che ho chiamato «il volto purissimo del male». Guardare Satana negli occhi e dirgli: «Ti conosco». In Cristo (e solo in Cristo) possiamo farlo, senza paura.

La cura di ogni male comincia dalla diagnosi, cioè dal giudizio. «Un nemico ha fatto questo» (Mt 13, 28): riconoscere il suo volto e non distogliere lo sguardo è l’inizio della nostra resistenza. Qualunque discorso culturale, sociale o politico che si possa fare su ciò che nel mondo non funziona o parte da questo riconoscimento o è un diversivo che fa il gioco del Nemico.

Dico la mia sulla “carriera alias” (che fino a ieri non sapevo neanche cosa fosse).

22 domenica Mag 2022

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Ricevo sul telefonino la pagina di oggi di un quotidiano locale, tutta dedicata al “problema” della cosiddetta “carriera alias” che, a quanto apprendo, qualche istituto scolastico della mia regione ha introdotto e altri stanno ipotizzando di introdurre. Con questa improbabile denominazione (vabbé, ormai i nomi alle cose vengono dati sempre più ad mentulam canis), ho inteso che si indichi la possibilità che uno studente o una studentessa a scuola siano registrati non con il nome (e il sesso) anagrafico, ma con un altro di loro scelta.

Nella pagina del giornale che ho letto, sono riportati i pareri di quattro brave presidi della nostra cittadina: una è apertamente favorevole, due cercano di dire il meno possibile, solo una avanza delle riserve. Tutte cercano di essere molto prudenti, e le capisco perché, non essendo ormai più tutelata nel nostro paese la libera manifestazione del pensiero (con tanti saluti all’art. 21 della defunta costituzione repubblicana), bisogna stare attenti a come si parla, soprattutto se si riveste un ruolo pubblico, e possibilmente non parlare affatto.

Nella mia fortunata condizione di anziano ἰδιώτης ho meno difficoltà a dire chiaro e tondo che cosa ne penso. Anche perché si fa presto. Delle due l’una: o questa “carriera alias” è una cosa seria o non lo è. Se è una cosa seria, il cambio di nome e di sesso nei registri della scuola e in tutti i documenti relativi agli atti che essa compie dovrebbe essere produttivo di effetti giuridici. Il che però significa, per esempio, che se colui che allo stato civile è, poniamo, “Leonardo” viene iscritto a scuola come “Vanessa” e così denominato in tutti i documenti ufficiali, il titolo di studio alla fine sarà lei a conseguirlo mentre lui resterà senza diploma, posto che la scuola, ovviamente, non ha alcun potere di intervento sulla sua identità anagrafica.

Mi pare evidente, quindi, che non si tratta di una cosa seria, ma di una cosa, non dico per finta ma “per modo di dire”: tu resti Leonardo nelle carte che contano ma, se vuoi, facciamo che qui ti chiamiamo Vanessa. Ci sarà, immagino, un doppio registro, una doppia pagella, un doppio diploma, quello vero e quello finto: un gioco, praticamente. Ora domando: è serio, tutto questo? È rispettoso delle persone e delle delicate problematiche di cui, a parole, si dichiarano così preoccupati i promotori di tali iniziative? Aiuta veramente qualcuno? Serve a qualcosa?

Si obietterà che, però, se non è una cosa seria almeno sarà innocua. Male non farà: dunque perché opporsi? Invece sono convinto che del danno possa farne, e molto. La questione di come una persona viene chiamata, infatti, al di là degli aspetti giuridici attiene alla sfera delle relazioni sociali e dunque chiama in causa la libertà e la responsabilità degli altri soggetti che hanno rapporto con lei. I motivi per cui qualcuno può sentirsi a disagio con il proprio nome (o il proprio cognome) sono tanti (non c’è solo quello a cui pensano i fautori di questa dissennata proposta) e, mentre è riservato esclusivamente alla legge dello stato (e non certo alla delibera di un consiglio di istituto o di un dirigente scolastico!) regolare gli aspetti giuridici della questione, la pratica dell’uso spetta primariamente alla regolazione autonoma dei rapporti interpersonali, all’interno degli ambiti in cui il soggetto vive. Uno può benissimo chiedere (o far capire) agli altri di non voler essere chiamato con il proprio nome ufficiale ma di preferirne un altro e in questo modo pone loro un problema che devono affrontare responsabilmente, giocando ciascuno la propria libertà: è una questione di rapporti tra persone. La finzione di una pseudo-norma che, per via burocratica, impone una linea di condotta è invece, nel suo piccolo, un altro tassello di quella deleteria opera di devitalizzazione della società, in corso ormai da tempo, che deresponsabilizza gli individui e sostituisce l’esercizio della libertà con l’esecuzione di protocolli comportamentali fissati dalle istituzioni.

A Ranchio si legge Dante.

20 venerdì Mag 2022

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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L’altro giorno ho ricevuto questa lettera, da un mio ex alunno:

Ciao prof, come va?

Le scrivo per raccontarle una cosa. 

Nel mio pellegrinare da precario, sono capitato nella scuola media di Ranchio.

In seconda media il programma prevede Dante.

Un giorno ho visto un video su You Tube dove lei sottolineava l’importanza di leggere tutta la Divina Commedia.

…e allora…

…e allora ho pensato: perché non tentare, perché non non provare a leggere tutto Dante. Così ho comprato il suo libro e ho fatto partire l’ambizioso progetto della lettura integrale dell’Inferno.

La classe è composta da 13 ragazzi metà sono extracomunitari, e forse , come dice lei, per qualcuno è l’unica occasione di ascoltare la bellezza della poesia.

E così il giovedì alle 9:15 nella seconda C della scuola media di Ranchio si legge Dante. 

Mentre fuori si vedono i caprioli che brucano l’erba e lo scoiattolo corre sui rami dell’albero vicino al cancello.

Io leggo Loro ascoltano.

Consegno una parafrasi del canto ad ognuno.

Leggiamo tutti i canti, anche l’undicesimo, e poi parliamo, ci confrontiamo, è bello.

Ad oggi abbiamo letto solo i primi 12 canti, il covid e qualche imprevisto hanno rallentato il lavoro.

Volevo condividere con lei questa mia esperienza, e se ha dei consigli…io ascolto.

Grazie

Luca

Questa piccola grande cosa mi sembra così bella che, a mia volta, desidero condividerla con tutti i membri della comitiva dantesca, e farla sapere anche agli altri lettori che passano di qui.

P.S.: Ranchio, per chi non è delle mie parti, è un piccolo paese che fa parte del comune di Sarsina. Qui una bella veduta, che dà l’idea della sua collocazione tra i boschi dell’Appennino tosco-romagnolo: https://www.romagnatoscanaturismo.it/arte-cultura-storia/ranchio/

La verità.

19 giovedì Mag 2022

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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«The decision of one man to launch a wholly unjustified and brutal invasion of Iraq. I mean of Ukraine». Così ha detto poche ore fa, in un discorso pubblico, George W. Bush, che quando si parla di Iraq è certamente “persona informata sui fatti”, visto che la guerra l’ha fatta lui.

Non è una gaffe, non è un lapsus, né un effetto dell’età o di qualche dipendenza. È la forza della verità.

«Silogizzò invidïosi veri»: un verso dantesco aguzzo e spigoloso. (#Dante, Paradiso, Canto X, vv. 133-138)

18 mercoledì Mag 2022

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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#Dante, dottrina, eresia, Teologia

Non c’è niente da fare: per quanto ci sforziamo di stargli dietro, il nostro maestro è sempre avanti a noi; è sempre oltre. Forse ci eravamo un po’ adagiati, l’ultima volta, a gustare l’incantevole dolcezza della danza dei sapienti e avevamo così rischiato di dimenticare che questi del cielo del Sole non sono dei “contemplativi puri” (come quelli che incontreremo più in là, nel cielo di Saturno), ma degli studiosi, ossia gente che pensa, elabora tesi e per questo legge libri, li critica e poi ne scrive altri, con tanto di note e bibliografia, destinati ad essere criticati da altri savants, con conseguenti dispute che talvolta degenerano in vere e proprie guerre, sia pure solo di parole (logomachie le chiama la prima lettera a Timoteo).

È molto significativo, ed anche un po’ sorprendente per chi non ha ancora capito com’è Dante, che, avendo solo dodici posti da assegnare in questa prima corona di beati, egli ne riservi uno – quello d’onore oltretutto, nel senso che è quello a cui si dedica maggiormente – ad un personaggio che più controverso di così non potrebbe essere: Sigieri di Brabante, professore alla Sorbona nella seconda metà del XIII secolo, filosofo di tendenza averroista che distingueva nel modo più netto, probabilmente sino a separarle, la conoscenza filosofico-scientifica da quella propria della teologia, minando così il rapporto tra ragione e fede. Contro di lui avevano polemizzato sia Bonaventura che Tommaso. Per questo era incorso in condanne ecclesiastiche, se n’era dovuto andare da Parigi ed aveva perso la cattedra (ma forse anche la vita, dato che le circostanze della sua morte restano piuttosto oscure).

Che ci fa uno così, nella gloria dei sapienti in Paradiso? Ascoltiamo come San Tommaso, che in terra lo aveva tanto (e giustamente!) combattuto, qui in cielo lo presenta a Dante: «Questi onde a me ritorna il tuo riguardo, / è ‘l lume d’uno spirto che ‘n pensieri / gravi a morir li parve esser tardo» (vv. 133-135) – e sono parole che prima di tutto rendono a Sigieri quello che gli spetta, cioè il merito di una sofferenza autentica, il tormento di un pensatore che ricerca sinceramente una verità che gli sfugge, e in questo tormento, del tutto vero, che è così acuto da fargli desiderare la morte, paradossalmente – e su un piano che è altro da quello teoretico – a Dio, cioè alla Verità tutta intera, si avvicina ugualmente.

Poi Tommaso scandisce: «essa è la luce etterna di Sigieri, / che, leggendo nel VIco de li Strami, / silogizò invidïosi veri» (vv. 136-138). Terzina mirabile, perché sintetizza come meglio non si potrebbe il rapporto strettissimo, e al tempo stesso l’infinita distanza, che c’è tra il Cielo e la Terra. «Vico de li Strami» è la traduzione dantesca di Rue du Fouarre – una via del Quartiere Latino, oggi in parte rinominata rue Dante e in parte ancora esistente col vecchio nome, tra rue Lagrange e rue Galande – che poi vuol dire “Strada della paglia” (e sarebbe un bel nomen omen, pensando a quel che Tommaso, prossimo alla morte, diceva di tutto il suo immenso lavoro intellettuale: palea est). Lì aveva sede la Facoltà delle Arti, cioè di Filosofia, fiero covo di averroisti in polemica con i professori della Facoltà di Teologia, e lì Sigieri «leggeva», cioè faceva lezione. Vista da terra, nell’orizzonte delle dispute teologiche e filosofiche di quaggiù, la sua vita è dipinta con quel verso che sopra ho detto aguzzo e spigoloso: «silogizzò invidïosi veri» (con la dieresi che prolunga fastidiosamente la durata di quella “invidia”). Visti da terra – e noi così li dobbiamo anche vedere, perché in terra siamo ancora! – i suoi veri, per quanto impeccabilmente sillogizzati, erano invidïosi, cioè odiosi, forieri di divisioni e di rovina. In effetti, le dottrine che Sigieri filosoficamente professava, come l’eternità della materia (che nega la creazione), o il determinismo astrale (che nega la libertà), sono incompatibili con la Rivelazione.

Eppure, visto dal cielo dei sapienti, da quella remota altezza, quell’insegnamento così controverso e “invidïoso” è come suggellato da un verso indiscutibile, che risplende della «luce etterna di Sigieri». Com’è possibile? Non lo so, ma so che è possibile. Viste da lassù, le cose devono apparire diverse da come le vediamo dal basso.

In questo passo c’è per noi un messaggio profondo e non facile da intendere. Oggi nella chiesa sembra che molti, anche nelle più alte gerarchie, non tengano in gran conto la dottrina. La parola stessa, come più volte anche qui abbiamo avuto occasione di notare, dà fastidio; e “dottrinario” è il peggiore degli insulti. Tutto dev’essere liquido, come tutti ripetono (pappagalleggiando un Bauman forse mai letto), e la “rigidezza” viene stigmatizzata come il più grave dei peccati. Per costoro, le teorie di Sigieri si potrebbero benissimo insegnare anche nella Facoltà di Teologia: sono ben altre le cose che oggi gli farebbero perdere la cattedra! I pochi che invece alla dottrina ancora ci tengono, rischiano però forse di dimenticare che le definizioni, le formulazioni dogmatiche e i correlati anatematismi – che pur ci vogliono, perché quanto più una materia è vitale tanto più abbiamo bisogno di illuminarla, e quindi procedere per idee chiare e distinte non è sbagliato – sono pur sempre poveri tentativi umani di orientarsi nella luce abbagliante del Mistero divino. In quanto tali, essi dicono sempre molto di più di quanto noi intendiamo; e infinitamente di meno del contenuto che vorrebbero abbracciare.

Piano, quindi, con le patenti di eresia che oggi si rilasciano, da alcuni, con troppa facilità; e piano anche con la “demonizzazione” di pensatori che non ci piacciono. Fossi vissuto ai tempi di Dante, penso che Sigieri non mi sarebbe piaciuto per niente, e con ragione. Però … ecco «la luce etterna di Sigieri»! La contemplo, ad occhi spalancati, pur senza capire come sia stato possibile.

L’incontro dantesco di oggi.

14 sabato Mag 2022

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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Oggi pomeriggio s’è fatto quell’incontro di presentazione del libro sul Purgatorio di cui avevo parlato qualche tempo fa. A me è piaciuto, perché è andato come un po’ speravo: una chiacchierata tra amici, senza far cadere troppo le cose dall’alto, ma pensando a quel che si diceva. Niente di preparato, nessuno leggeva: pane sfornato lì per lì, che se non altro almeno è fresco; e le parole di Dante sono state pronunciate con rispetto, nella bella sala della Biblioteca che un tempo era l’aula magna del mio liceo, dove anch’io ,come tanti, ho dato l’esame di maturità.

Ma la cosa più bella di tutte, quella che mi ha colpito enormemente, è che c’era Vanni. In persona, a rappresentare idealmente tutta la comitiva dantesca. (Di cui si è anche parlato). Ora, sarà che io sono un po’ tarato sotto questo aspetto, ma che Vanni sia venuto da Firenze a Cesena – che a me pare un gran viaggio – apposta per partecipare all’incontro!, mi ha fatto davvero impressione. Non sa quanto gliene sono grato.

Poi naturalmente sono grato anche a tutti gli altri che sono venuti, ma Cesena è piccola, gli spostamenti sono modesti, e quindi la meraviglia è minore.

Riccardo De Benedetti e Gianfranco Lauretano sono stati perfetti e l’Ombretta Sternini ha condotto l’incontro con mano sicura. Bene gli altri (come si scriveva nelle recensioni teatrali di una volta).

La danza dei teologi. (#Dante, Paradiso, canto X, vv. 64-81; 139-148)

12 giovedì Mag 2022

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#Dante, danza, sapienti, sapienza

Com’è fatto un sapiente? Noi, che non sappiamo bene neanche che cosa sia e facilmente lo confondiamo con il dotto, al massimo delle nostre capacità ce lo immaginiamo come fa Dante nel nobile castello degli spiriti magni nel Limbo: un signore austero, grave, che incute rispetto ma anche un po’ di soggezione con l’aura magisteriale che promana dalla sua figura. Ne abbiamo grande stima, lo ammiriamo, desideriamo magari che si degni di trarre anche per noi dal suo tesoro «cose antiche e cose nuove», ma restiamo a debita distanza, per non disturbarlo. (Ha ben altro da fare: deve studiare!). Difficile che ci attragga in senso proprio (quello del sex appeal, per intenderci).

Purtroppo, però, più che immaginarceli, noi i “sapienti” – o piuttosto le loro caricature, non sai se più patetiche o ridicole, quando non addirittura miserabili – li vediamo, perché di continuo si esibiscono sulla scena mediatica. Con la nomea di “scienziati” o “esperti”, vengono infatti chiamati a “rieducare il popolo”, distillando, a beneficio del pubblico di noi ignoranti, le loro oracolari sentenze su tutto lo scibile: de omnibus rebus et de quibusdam aliis. Per quante arie si diano, e nonostante tutti gli orpelli di cui si circondano – tra i quali non manca quasi mai l’imponente muraglia di libri (con quelli scritti da loro in primo piano), prova evidente della schiacciante superiorità della loro competenza, davanti alla quale troneggiano nei collegamenti televisivi – quei “sapienti” appaiono, a un occhio minimamente limpido, per quel che sono: tronfi, vanesi e suscettibilissimi detentori di una scienza che gonfia, come dice san Paolo (1 Cor 8,2); qualificati esperti che alternativamente “sanno tutto di nulla” o “sanno nulla di tutto”, cioè che padroneggiano un piccolissimo frammento di realtà eletto arbitrariamente a pietra angolare del tutto, oppure sanno maneggiare una clavis universalis che apre tutte le porte sol perché consiste in fin dei conti in nient’altro che una tecnica combinatoria di discorsi prefabbricati, buoni per tutte le occasioni. Ma soprattutto, di solito sono brutti. Non c’è in loro Bellezza, perché non ce n’è nel loro sapere, un sapere disgiunto dall’Amore.

Potremmo chiederci: almeno i “sapienti di Dio”, quelli che sanno qualcosa di Colui che è Tutto, cioè i teologi, almeno loro saranno diversi? In fondo la loro scienza è la più bella e la più amorosa che ci sia: avranno, almeno loro, in sé o attorno a sé, un po’ di quell’aura, un po’ di quel profumo … Mah. Temo che noi, sforzandoci, potremmo al massimo immaginarceli come dei bravi professori. Se ci va proprio bene, cioè quando non sono anche loro maestri del nulla.

E Dante? Dante come se li immagina i sapienti? Ah, Dante … Lui li fa entrare in scena, qui nel cielo del sole, così (vv. 64-81):

Io vidi più folgór vivi e vincenti
far di noi centro e di sé far corona,
più dolci in voce che in vista lucenti:

così cinger la figlia di Latona
vedem talvolta, quando l’aere è pregno,
sì che ritenga il fil che fa la zona.

Ne la corte del cielo, ond’io rivegno,
si trovan molte gioie care e belle
tanto che non si posson trar del regno;

e ‘l canto di quei lumi era di quelle;
chi non s’impenna sì che là sù voli,
dal muto aspetti quindi le novelle.

Poi, sì cantando, quelli ardenti soli
si fuor girati intorno a noi tre volte,
come stelle vicine a’ fermi poli,

donne mi parver, non da ballo sciolte,
ma che s’arrestin tacite, ascoltando
fin che le nove note hanno ricolte.

Tutte le «gioie care e belle» del mondo sono qui convocate, per descrivere la bellezza della Sapienza e dei suoi cultori, che hanno il fascino di una troupe di bellissime danzatrici. E se per caso l’incanto di questa visione non ci fosse bastato, il poeta ci concede un bis, dopo che Tommaso d’Aquino (il bue muto, cioè l’essere umano apparentemente più lontano dalla seducente levità di una ballerina!) ha nominato tutti e dodici i “professori” della ghirlanda che circonda Dante e Beatrice (vv. 139-148):

Indi, come orologio che ne chiami 
ne l’ora che la sposa di Dio surge 
a mattinar lo sposo perché l’ami,

che l’una parte e l’altra tira e urge, 
tin tin sonando con sì dolce nota, 
che ‘l ben disposto spirto d’amor turge;                     

così vid’io la gloriosa rota 
muoversi e render voce a voce in tempra 
e in dolcezza ch’esser non pò nota 

se non colà dove gioir s’insempra.

La dolcezza dell’eros coniugale («a mattinar lo sposo perché l’ami»: può esserci metafora più giusta di questa, per dire l’intensità di affezione che intride lo studio del sapiente per conquistare la sapienza?) e poi di nuovo l’armonia del canto corale («render voce a voce in tempra») e della danza, figurano a noi meschini una dolcezza «ch’esser non pò nota / se non colà dove gioir s’insempra».

Tutto un altro mondo.

Come si fa l’amore in Paradiso. (#Dante, Paradiso, Canto X, vv. 52-63)

07 sabato Mag 2022

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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#Dante, amore, Beatrice, Sofronia, Tasso

Al centro del canto c’è questo intermezzo amoroso in cielo, più profondo e intenso (carnalmente intenso) di qualunque rapporto carnale possiamo noi fantasticare qui sulla terra: «E Bëatrice cominciò: “Ringrazia, / ringrazia il Sol de li angeli, ch’a questo / sensibil t’ha levato per sua grazia”. // Cor di mortal non fu mai sì digesto / a divozione e a rendersi a Dio / con tutto ‘l suo gradir cotanto presto, // come a quelle parole mi fec’io; / e sì tutto ‘l mio amore in lui si mise, / che Bëatrice eclissò ne l’oblio. // Non le dispiacque, ma sì se ne rise, / che lo splendor de li occhi suoi ridenti / mia mente unita in più cose divise» (vv. 52-63).

Ho detto in cielo, ma forse dovrei dire “fra cielo e terra”, perché è alla terra che allude, per contrasto, questa meravigliosa scena d’amore, come l’ultimo verso lascia capire, in modo a prima vista sconcertante: «mia mente unita in più cose divise». Ma questa non è appunto l’esperienza, sempre irrisolta, che facciamo qui sulla terra, dove gli amori tanto spesso sono due – cioè uno di troppo? Ogni amore, infatti, vuole essere amato totalmente; e come potrà, questa esigenza di totalità, non comportare contrasto, lotta, al limite l’esclusione di altri amori, che pretendono la stessa dedizione? La dichiarazione d’amore (“io ti amo”) non accetta di essere completata (“ma amo anche …”), poiché l’amore si pretende completo e completante in se stesso. Su questo crinale cammina da sempre tutta la letteratura d’amore, che ha inventato mille storie e mille figure per cantare il conflitto tra gli amori e i tentativi, spesso drammatici, di comporli in armonia. Per quella via, però, l’amore, in totale contraddizione con la sua natura unitiva, sembra condurre quasi sempre alla divisione (“scegli: o me o l’altro amore”), alla sofferenza, perfino alla morte. Che era poi la questione posta da e a Francesca: «Amor condusse noi ad una morte»: copulazione sì, ma tragicamente rovesciata nella morte, cioè nel massimo della separazione (separazione del sé, che si scinde in anima e corpo); «a che e come concedette Amore / che conosceste i dubbiosi disiri?».

Ma qui, in cielo? Qui c’è la Donna che esorta soavemente il suo uomo ad amare Dio: «Ringrazia, / ringrazia il Sol de li angeli, ch’a questo / sensibil t’ha levato per sua grazia». “Guarda il sole, guarda il cielo, contempla la Sua Bellezza, e ringrazia Dio, ama Lui!”. È, a ben vedere, la stessa cosa che prova a fare un’altra donna forte, immaginata da un poeta che voleva sì essere cristiano come Dante, e lo voleva con tutte le sue forze, ma era anche già così moderno, così figlio di un mondo in cui gli amori sono sempre almeno due, che l’impresa di cantare l’Amore come Uno proprio non gli riesce. Anche la donna di cui parla quel poeta si sforza nobilmente di sublimare l’amore (perché ormai di sublimazione si tratta); anche lei, come Beatrice, dice all’amante di guardare il sole:

Amico, altri pensieri, altri lamenti,
per piú alta cagione il tempo chiede.
Ché non pensi a tue colpe? e non rammenti
qual Dio prometta a i buoni ampia mercede?
Soffri in suo nome, e fian dolci i tormenti,
e lieto aspira a la superna sede.

Mira ’l ciel com’è bello, e mira il sole
ch’a sé par che n’inviti e ne console.

Siamo nel II canto della Gerusalemme Liberata, lei si chiama Sofronia, ed è bellissima. Ha l’incanto di una bellezza dimentica di se stessa, dunque non inquinata dal culto ansioso della propria eccellenza. Una bellezza che non si cura di esser bella, non se ne dà pensiero perché è piena di un pensiero più alto. Sofronia è donna

d’alti pensieri e regi,
d’alta beltà; ma sua beltà non cura,
o tanto sol quant’onestà se ’n fregi.
È il suo pregio maggior che tra le mura
d’angusta casa asconde i suoi gran pregi,
e de’ vagheggiatori ella s’invola
a le lodi, a gli sguardi, inculta e sola
.

Come non innamorarsene? Se ne innamora infatti un giovane, cristiano come lei, che si chiama Olindo. Le circostanze drammatiche della storia – che non stiamo ora a ripercorrere perché sono ben note – li fanno uscire dal riserbo in cui entrambi sono dapprima rinchusi (Ei che modesto è sí com’essa è bella, / brama assai, poco spera, e nulla chiede; / né sa scoprirsi, o non ardisce; ed ella / o lo sprezza, o no ’l vede, o non s’avede) e li congiunge – carnalmente avvinti l’uno accanto all’altra intorno al palo di un patibolo che sta per essere avvolto dalle fiamme. Entrambi hanno offerto la vita per amore: ma lei per amore di Dio, lui invece per amore di lei. Ora, in cima alla catasta di legna a cui i persecutori stanno per appiccare il fuoco, in un luogo che è al tempo stesso intimo come un talamo nuziale e pubblico come l’arena di un martirio, lui le dichiara il suo amore, che è bello, buono, del tutto umano. Ma gli amori sono due, e per quanto si attorciglino, non riescono a fondersi pienamente l’uno nell’altro. Tasso arriva a costruire questa scena drammatica, ma poi non è in grado di risolverla, se non con un lieto fine che potrà anche piacere a noi lettori, come piace lo zucchero o il mele («così a l’egro fanciul porgiamo aspersi / di soave licor gli orli del vaso»), ma al prezzo di imborghesire i due (sia pur diversamente) eroici personaggi, che si salvano in extremis dalla morte ma, ridotti ad una coppia come tante altre, in cui l’amore sfuma nella benevolenza (Volse con lei morire: ella non schiva, / poi che seco non muor, che seco viva...), escono dal poema un po’ alla chetichella. Se gli amori sono due, a volerli far stare insieme può succedere che si compongano nei limiti di una convenienza, che ha qualcosa del ripiego.

Ma qui, in cielo, che ne è dell’amoroso invito della Donna amata a guardare il «Sol de li angeli?». Qui accende nell’altro un amore così intenso da farsene consumare, si direbbe: «Cor di mortal non fu mai sì digesto / a divozione e a rendersi a Dio / con tutto ‘l suo gradir cotanto presto, // come a quelle parole mi fec’io; / e sì tutto ‘l mio amore in lui si mise, / che Bëatrice eclissò ne l’oblio». Confesso che quest’ultimo verso proprio non lo ricordavo e a chi mi avesse chiesto se il nome di Beatrice fosse mai associato all’oblio nel Paradiso dantesco, avrei risposto di no. Beatrice eclissata nell’oblio? Impossibile. Ma se gli amori son due, come può il divampare dell’uno non bruciare anche l’altro? E come può, colei che ne è “proprietaria” non provare un moto, se non di opposizione, di dispiacere; se non una resistenza, una freddezza almeno; un distacco, una rassegnazione; quanto meno il ritrarsi, sofferto, di fronte a un amore riconosciuto come più grande, ma difficile da amare in quel momento?

Ecco invece il miracolo, ecco il cielo: «Non le dispiacque, ma sì se ne rise, / che lo splendor de li occhi ridenti / mia mente unita in più cose divise». Il paradiso è un luogo in cui gli occhi della donna amata sono come Dio, perché sono in Dio che è tutto in tutto. La divisione non fa più paura: per quanto la mente si dvida, fosse anche tra mille cose, troverebbe sempre Dio. Amori innumerevoli si contano sempre a Uno.

Perché si può abortire, ma non invadere l’Ucraina?

04 mercoledì Mag 2022

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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#guerra, aborto, ipocrisia, morale, Ucraina

Su quale principio morale – non giuridico (di diritto internazionale) o politico (cioè di tutela di interessi), ma proprio morale – si fonda la nostra doverosa e imprescindibile condanna dell’invasione russa dell’Ucraina? Quello per cui non è lecito all’uomo fare violenza a un altro uomo. Mi pare che non possano esservi dubbi al riguardo, ma se qualcuno avesse buone ragioni per smentire tale assunto, sarei grato se me le facesse presenti, perché a me sfuggono.

Ora, noi sappiamo che la validità di un principio morale non dipende dalla coerenza di chi lo sostiene, ma ciò non significa che tale coerenza non si debba esigere, da se stessi e dagli altri. Poche cose sono più indecenti del moralismo degli immorali. Chiediamoci dunque: abbiamo noi le carte in regola per denunciare con tanta indignazione, come facciamo, l’immoralità dell’aggressione russa? È importante farsi questa domanda, perché è l’indignazione morale il carburante che alimenta il fuoco di una guerra sempre più intensa e sempre più estesa. Dal punto di vista giuridico, di fronte a una palese violazione del diritto internazionale, ci si dovrebbe chiedere chi e in che modi la può sanzionare; dal punto di vista politico ci si chiederebbe, “laicamente”, che cosa conviene fare; è lo scandalo per la violenza che immette in una mentalità da “guerra santa”, del bene contro il male. Quindi lo ripeto: abbiamo noi le carte in regola? A questa domanda bisogna rispondere onestamente, singolarmente e collettivamente, cioè come persone e come stati, e se la risposta è, come io credo, “no, non le abbiamo”, la conseguenza non sarà, ovviamente, quella di annullare, e nemmeno di attenuare di un filo la condanna della violenza dei russi, ma quella di accompagnarla con il riconoscimento delle nostre responsabilità (come mi sembra che anche il papa, l’altro giorno, abbia suggerito). Il che, di per sé, ci farebbe già uscire dalla logica di guerra e ci metterebbe in quella della trattativa, pur continuando a sostenere lo sforzo ucraino di difesa del proprio territorio. In guerra, infatti, non è ammesso riconoscere che anche noi siamo cattivi: la guerra ci rende assolutamente “buoni”, per necessaria antitesi al nemico che è sempre “cattivo” per definizione. Una prova eclatante della ferrea consequenzialità di questo ben noto meccanismo culturale è l’immediato “candeggio” di cui hanno beneficiato, nella propaganda occidentale, coloro che, prima della guerra, erano marchiati, dalle stesse fonti, con la più esecranda delle etichette: neonazisti! D’un tratto è divenuto obbligatorio pensare che esistano “neonazisti buoni” – neokantiani, come qualcuno spiritosamente li ha chiamati – e ben pochi hanno fatto una piega. C’è un’espressione, nella lingua della guerra, che in questi giorni mi è tornata spesso in mente: intelligenza col nemico. Equivale pressappoco a tradimento e, in guerra, è un crimine che va punito spietatamente, passando per le armi l’intelligente o quantomeno mettendolo in prigione e buttando via la chiave. Dato che noi “siamo parlati” dalla lingua almeno quanto la parliamo, forse c’è, nostro malgrado, in quella formula più di quanto essa direttamente non significhi. Forse in guerra è l’intelligenza tout court ad essere nociva. Forse, come stiamo ampiamente vedendo in questi giorni, anche solo cercare di ragionare, farsi domande, avere dubbi sulla giustezza di quanto i nostri comandanti stanno facendo è “intelligenza col nemico”. Questo fa “l’indignazione morale dei buoni”.

Dunque la domanda urge: siamo buoni, noi? Sul piano personale, ognuno risponda per sé, nel segreto della sua coscienza. Una questione del genere, come è noto, fu posta da Gesù ad una folla di virtuosi che volevano punire, a norma di legge mosaica, una donna colpevole di un crimine allora considerato meritevole di lapidazione, e sappiamo come andò a finire quella volta. Sul piano collettivo, invece, potremmo e dovremmo dire un sacco di cose, relativamente ad ambiti e argomenti diversi.

Io ne dico una che è di stretta attualità, e che mi sembra particolarmente grossa. Pare che la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, oggi formata (grazie alle nomine fatte da Trump: gliene sia dato il merito), da giudici più rispettosi della legge di quanto non lo fossero i loro predecessori, sia in procinto di riconoscere ciò che è palese a chiunque sia onesto, cioè che la Costituzione degli Stati Uniti non vieta al popolo di nessuno degli Stati federati di legiferare in materia di aborto. Di conseguenza, per stare al caso su cui la Corte si deve pronunciare, se il popolo del MIssissipi, attraverso i rappresentanti che ha democraticamente eletto, vuole vietare l’uccisione dei feti oltre la quindicesima settimana di gravidanza, può farlo. Punto. Dal 1973 è invece obbligatorio fingere che nella costituzione americana sia sancito un “diritto all’aborto” che prevale sulla potestà legislativa degli Stati federati, i quali, come è noto, essendo appunto Stati, hanno competenza in materia di diritto penale. La diffusione, illegale ma non sorprendente (hanno sempre giocato sporco e sempre lo faranno), di una bozza della sentenza che la Suprema Corte sta preparando, sta facendo dare di matto a tutta l’America liberal, la stessa che brandisce con tanta enfasi lo scandalo morale per la violenza di Putin e se ne serve per fomentare in ogni modo la guerra in Ucraina, “guerra santa” del bene contro il male, che si deve concludere con la vittoria dei buoni e la caduta del cattivo. Contro la temuta sentenza della corte, si stanno già moltiplicando le manifestazioni e di qui sino al momento in cui dovrà essere emessa è facile prevedere che ci saranno pressioni di ogni tipo, oltre l’immaginabile, per farla cambiare. E non è detto che non vi riescano.

Ora, che cos’è l’aborto? L’uccisione di un individuo appartenente alla specie umana. E questo non è controvertibile. Chi lo nega, si autoesclude dal novero delle persone con cui si può parlare. Ma se l’aborto viene considerato un diritto, vuol dire che in certi casi è un diritto uccidere individui appartenenti alla specie umana. In quali casi? Qui bisogna essere onesti fino alla brutalità e dire le cose come stanno. E’ un diritto uccidere chi è così debole da non potersi in alcun modo difendere. Tale presunto “diritto”, infatti, si affievolisce quando la vittima ha un certo potere di far sentire la sua voce e scompare del tutto quando è abbastanza forte da impedirlo. Perché in alcuni stati americani si può abortire fine al momento della nascita, ma non si può uccidere il neonato? (Per ora, ma già cominciano a spuntare proposte di legge per rimediare a questa incoerenza e permettere anche l’infanticidio). Qual è la differenza, se non che uccidere un neonato è più “disturbante”? Nei termini della “teoria dell’attaccamento” di Bowlby e Ainsworth si drebbe che il bambino già nato ha la possibilità di creare, attraverso dei comportamenti di attaccamento, dei legami che lo proteggono, aumentando le sue probabilità di sopravvivenza. Il feto di nove mesi ce l’ha in misura molto minore, e l’embrione non “sembra” neanche un essere umano (ma tutti sanno che lo è).

Analogamente: nel mondo ci sono oggi decine e decine di guerre, guerricciole, oppressioni violente di popoli da parte di stati e formazioni politiche di vario genere: perché delle tante vittime innocenti di tutte le ingiustizie sparse per il mondo ce ne freghiamo bellamente? Perché sono così deboli da non essere in grado di difendersi “facendosi sentire” e dandoci fastidio. Punto. L’ipocrisia dell’immoralità dominante è sempre la stessa: sul piano delle singole esistenze, dice che si possono impunemente uccidere individui come i bambini non nati, perché sono così deboli da non essere in grado di protestare, mentre ci si deve virtuosamente scandalizare per le offese (anche infinitamente minori della morte) inflitte a individui più forti e organizzati; a livello politico internazionale sposa la linea che si possono tranquillamente aggredire popoli e stati tanto deboli e “periferici” da non fare paura e creare problemi a nessuno, ma se la vittima è un paese abbastanza importante da creare problemi a noi, allora è “intollerabile per la coscienza morale del mondo intero” l’aggressione ai suoi danni. E quindi, guerra!

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