Siamo fatti così, noi uomini: ciascuno di noi vuole distinguersi; sa di essere, in fondo, diverso da tutti gli altri. E ci tiene. I poeti ci tengono forse più degli altri, ed è per questo che, non bastandogli l’epica – poesia del noi, del “nostro popolo” che lotta contro il resto del mondo – hanno inventato la lirica, la cui formula implicita, o essenza segreta, non è appena l’io, ma piuttosto “io invece”. Cominciarono i greci, duemilaseicento anni fa, e da allora non hanno più smesso. Diceva uno: «I tesori di Gige non m’importano, / io non so emulazione, non invidio / divine imprese, non voglio tirannidi: / tutte cose remote alla mia vista»; rispondeva un’altra: «Quale la cosa più bella / sopra la terra bruna? Uno dice “una torma / di cavalieri”, uno “di fanti”, uno “di navi”. / Io, “ciò che s’ama”». Il ritornello nascosto, anche quando non diventa uno stilema, è sempre quello: ἄλλοι μέν … ἐγώ δὲ “gli altri così … io invece”.
Io invece: quanto sia fragile questa posizione umana, a cui pure siamo così attaccati da farne talvolta la sola ragione di vita, ce lo mostra in modo impressionante la paura che quella stessa diversità, tanto gelosamente coltivata, ci incute. Perché il paradosso della nostra esistenza è proprio questo: bramiamo la nostra unicità, perché temiamo che senza quella non saremmo nessuno (non vogliamo essere amati “al pari degli altri”: vogliamo essere preferiti); ma ci sgomentiamo al pensiero di essere soli “contro tutti”, diversi da tutti gli altri: “io invece” che si rivela come “solo io”. Dante ha già fatto la fotografia di questa condizione esistenziale, e l’ha anche giudicata, nel II canto dell’Inferno. Ricordate? «Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno / toglieva li animai che sono in terra / da le fatiche loro; e io sol uno // m’apparecchiava a sostenere la guerra / sì del cammino e sì de la pietate» (Inf. II, 1-5).
Hanno un bel gingillarsi, poeti retori e filosofi, nella comparazione delle scelte di vita (Priamel la chiamano quelli che se ne intendono) per rivendicare di “aver scelto la parte migliore”: la sostanza del problema è drammatica, per la contraddizione che abbiamo appena detto. Quando si esce dal gioco della letteratura e si tratta della vita – carne e sangue – quel benedetto io invece diventa una faccenda maledettamente seria. Ecco cosa ne fa Dante nel suo Paradiso, dall’alto del cielo del Sole, della Priamel delle scelte di vita (il che vuol dire anche di una tradizione letteraria che era già millenaria e veneranda ai suoi tempi):
O insensata cura de’ mortali,
quanto son difettivi silogismi
quei che ti fanno in basso batter l’ali!
Chi dietro a iura e chi ad amforismi
sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
e chi regnar per forza o per sofismi,
e chi rubare e chi civil negozio,
chi nel diletto de la carne involto
s’affaticava e chi si dava a l’ozio,
quando, da tutte queste cose sciolto,
con Bëatrice m’era suso in cielo
cotanto glorïosamente accolto.
La posizione umana dell’io invece che, nel suo soggettivismo sempre in fin dei conti patetico, qui in terra è fragilissima e velleitaria, qui – giudicata dal cielo – ha la saldezza trionfante di un giudizio. Come scopriremo, questo esordio è del tutto funzionale alla presentazione della vita di Francesco, che sta per arrivare, ma per ora facciamo finta di non saperlo, proprio come chi legge per la prima volta la Commedia. Anche così non possiamo fare a meno di sentirci come investiti da una ventata d’aria fresca: un vento gagliardo che ci dà un senso di gioiosa liberazione dalle innumerevoli, vane fatiche a cui noi uomini incateniamo le nostre esistenze: iura e amforismi, cioè diritto e medicina, le artes lucrativae di allora, noi diremmo il know how che dà potere e ricchezza; «sacerdozio»! (c’è anche un “darsi da fare“ religioso, o ecclesiastico, o clericale che, quand’anche benintenzionato, non è diverso dalle altre “carriere” mondane); «forza e sofismi», cioè tutta la politica; «rubare e civil negozio»: l’inclusione dei due in un solo verso dice più di quanto potrei spiegare!; «chi nel diletto de la carne involto / s’affaticava»: perché, alla fine, è una fatica anche quella, per chI vi si consegna mani e piedi; «e chi si dava all’ozio»: perché l’ozio, per chi vi si dà, è la fatica più grande.
Tutto questo è finito, tutto questo non c’è più: mentre gli uomini sulla terra, come tante formichine insensate, si sfinivano dietro a quelle cose, «da tutte queste cose sciolto, / con Beatrice m’era suso in cielo / cotanto glorïosamente accolto». Questa non è la versione dantesca del «bene munita tenere
edįta doctrina sapientum templa serena» vagheggiato da Lucrezio: nei templi sereni del cielo quel tormentato poeta immaginava di poterci stare da solo, per forza di dottrina epicurea. Dante è «con Beatrice», «cotanto gloriosamente accolto» dai santi del Paradiso. Cioè da un popolo.
A fondamento di questa lirica c’è un’epica.