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Avevo tirato in ballo Machiavelli, l’altro giorno, perché la ruina me lo aveva fatto subito venire in mente – essendo quella del ruinare degli stati l’ossessione che sottende, a mio modo di vedere, tutta la logica del suo Principe. Un acuto lettore di questo piccolo blog, (che ha dalla sua oltretutto il fatto di essere fiorentino e di vedere il cupolone del Brunelleschi ogni volta che apre la finestra), ha citato il capitolo XVIII del trattato, dove si dice che vi «sono dua generazione di combattere: l’uno con le leggi, l’altro con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie: ma, perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Per tanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo. Questa parte è suta insegnata a’ principi copertamente dalli antichi scrittori; li quali scrivono come Achille, e molti altri di quelli principi antichi, furono dati a nutrire a Chirone centauro».
La lingua di Machiavelli, come sempre, è splendida e presta al pensiero un apparente nitore a cui però spesso non corrisponde altrettanta sostanza. Che sia dell’uomo la legge e della bestia la forza, semplicemente non è vero e la mancata distinzione tra forza e violenza compromette tutto il ragionamento, che in realtà serve solo ad arrivare dove l’autore vuole arrivare, cioè all’esaltazione della “bestialità” del suo principe, il quale, come dirà subito dopo, sa essere golpe e lione a seconda delle circostanze.
Il punto dove volevo arrivare io, invece, è un paragone (forse eccentrico, ma spero mi venga perdonato) tra il modo in cui il segretario fiorentino guarda ai tiranni, pieno di ingenua infatuazione per l’uomo forte, il condottiero che si impone su tutti gli altri e con la violenza e con l’astuzia crea lo stato, cioè edifica l’unica struttura che – nella cupa visione machiavelliana – trattiene l’umanità dalla ruina, e il modo in cui Dante li tratta qui, nell’ultima parte del nostro canto.
La cosa meravigliosa è che, in un certo senso, non li tratta affatto. Non li incontra, non parla con loro, non dà loro la dignità di personaggi della sua opera. Sono presenze che quasi non si vedono, perché immersi fin sopra gli occhi nel sangue bollente del Flegetonte (v. 103: «Io vidi gente sotto infino al ciglio»), meritevoli appena di una menzione da parte di Nesso, frettolosa quanto quella di una guida turistica che, agli Uffizi, accompagna una mandria che deve riprendere il pullman e ha tempo solo per i due tre selfie di prammatica davanti alle opere più famose: “qui c’è questo, là c’è quello, facciamo presto che dobbiamo vedere ancora la Venere del Botticelli”.
Sottolineo, in particolare, nella calcolata indifferenza dantesca verso questi potenti abbattuti dai troni, quello che potrebbe essere un assoluto colpo di genio, un esempio persino esagerato dell’arte del togliere (e del tacere) che in un capolavoro è importante quanto e più di quella del mettere (e del dire). Dice il gran centauro: «E’ son tiranni / che dier nel sangue e ne l’aver di piglio» (v.106) – e già con questo li ha battezzati, assimilandoli, come è giusto, ai criminali comuni. Poi soggiunge: «Quivi si piangon li spietati danni; / quivi è Alessandro, e Dionisio fero / che fé Cicilia aver dolorsi anni» (vv.106-108). Quivi è Alessandro? Ma sta parlando di lui, di Alessandro Magno? Del mitico, se ma ce n’è stato uno? Dell’eroe per cui l’antichità e il medioevo stravedevano? (Si vedano i due volumi del Romanzo di Alessandro finora usciti nella collana dei classici greci e latini della Fondazione Valla, per farsene un’idea). E se la cava con tre parole di numero?
«Quivi è Alessandro». Punto. Non una sillaba di più (e si badi che non è che rimedia altrove, perché in tutta la Commedia, lo nomina solo in una simiitudine nel canto XIV dell’Inferno). Ecco una cosa che puoi fare solo se sei Dante (perché se non lo sei rischi il ridicolo). Ma se sei Dante e la fai, è meravigliosa, e definitiva come una pietra tombale, sotto la quale possiamo seppellire tutti i cosiddetti grandi della storia: i conquistatori, i condottieri, da Cesare a Napoleone (ed epigoni). Macellai.
Di qui, da questa vertiginosa altezza di giudizio condensata in un silenzio, possiamo chinarci a guardare Machiavelli che si balocca con la sua puerile infatuazione per gente come il Valentino (figuriamoci!), a cui dedica pagine memorabili. Perché il suo libro è bellissimo, intendiamoci, ma guai a prenderlo sul serio.
P.S.: io non darei retta a tutti quegli illustri professori che sostengono che qui Dante sta parlando non di quell’Alessandro bensì di Alessandro di Fere, oscuro tirannello della Tessaglia del III secolo a.C. (vedi qui, ad esempio: http://www.treccani.it/enciclopedia/alessandro-di-fere_%28Enciclopedia-Dantesca%29/). Per una ragione molto semplice: se voleva parlare di un Carneade come Alessandro di Fere, Dante lo indicava chiaramente, così come fa con Dionisio, permettendoci di capire che, tra tutti i Dionigi dell’antichità, lui si riferisce al tiranno di Siracusa. Se uno dice «Alessandro» e basta, è chiaro che si riferisce, o quantomeno che tutti capiscono che è quello. Infatti i commentatori antichi non avevano dubbi.