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Paradossi del cristianesimo: per vivere bisogna morire; per avere bisogna dare; per essere liberi bisogna servire; per essere esaltati bisogna umiliarsi; per conseguire la grandezza bisogna farsi piccoli … Anche l’immagine di Dio è paradossale.
Abbiamo atteso tanto, per vedere Dio: noi della comitiva, per esempio, camminiamo da quasi tre anni dietro a Dante; siamo passati dai pericoli e dalle brutture dell’Inferno alle fatiche del Purgatorio, e poi attraverso i rapimenti vertiginosi del Paradiso, solo per giungere finalmente a questa meta. Che è l’unica, in fondo, per tutti. «Mostraci il Padre e ci basta!» implorò un giorno l’apostolo Filippo, dando voce al più profondo e universale dei nostri bisogni (l’unico che conti veramente, in definitiva), e si sentì rispondere come sappiamo: che l’aveva già visto, Dio (senza saperlo e senza capirlo!), in quell’umile frammento di spazio e di tempo costituito dalla sua familiarità con l’uomo che gli stava di fronte, Gesù di Nazaret.
Ma come sarà quando vedremo Dio, nella maestà della Sua infinita grandezza e nello splendore della Sua luce? Come sarà Dio, visto in faccia? Questo è il “tema impossibile” svolto da Dante negli ultimi canti del Paradiso. La prima risposta, qui nel XXVIII (che sarà poi anche l’ultima, estrema e definitiva, del XXXIII), è sorprendente per noi che abbiamo ancora in mente il canto spiegato dell’esordio («La gloria di colui che tutto move / per l’universo penetra, e risplende / in una parte più e meno altrove»). Ai vv. 16-21 il poeta dice:
un punto vidi che raggiava lume
acuto sì, che ’l viso ch’elli affoca
chiuder conviensi per lo forte acume;
e quale stella par quinci più poca,
parrebbe luna, locata con esso
come stella con stella si collòca.
Un punto! Ecco tutto quello che vede Dante, prima «riguardando ne’ begli occhi / onde a pigliarmi fece Amor la corda» (vv. 11-12), cioè nello sguardo di Beatrice, e poi di lì volgendosi a contemplare direttamente «ciò che pare in quel volume, / quandunque nel suo giro ben s’adocchi» (vv. 14-15). Tutto ciò che quel cielo immenso, il volume che contiene tutto il cosmo, squaderna alla vista di colui che lo perlustra in tutta la sua orbita, è concentrato ora in un punto di luce così intensa che la vista ne è bruciata e gli occhi decono chiudersi perché non lo sostengono. Una visione, dunque, che si tramuta immediatamente in cecità; ed una luce così intensa da diventare, paradossalmente, quasi impercettibile, talché la stella più piccola del firmamento, quella che quasi non si vede tanto è remota, parrebbe una luna al suo confronto.
Il «geometra» – (inteso non come il tecnico che fa le pratiche al catasto, ma come il discepolo di Euclide: una figura che significativamente incontreremo nell’ultimo canto del Paradiso) – riconosce nel punto un ente primitivo della propria scienza: spazio senza dimensioni, perciò non divisibile, non misurabile, non descrivibile. Se ha abbastanza senso religioso, pensando al punto egli piegherà le ginocchia e si metterà a meditarlo con devota ammirazione. Sarà per lui come l’ostia nel tabernacolo.
«Punto» è parola chiave in questo canto. Della quarantina di occorrenze che la parola, intesa come sostantivo, ha nell’intera Commedia, ben cinque si trovano qui. Non per caso (nulla è per caso, nel poema). Un’altra occorrenza, molto significativa, la troveremo nel canto XXXIII, a ulteriore conferma del legame tra i due canti. Vedremo. Intanto veneriamo anche noi, come geometri, quel puntolino quasi invisibile, dotato di una luce così intensa da risultare impercettibile ai nostri poveri occhi, in cui si rivolve la prima apparizione del volto di Dio.
Stiamo attenti, però: questo “fissare il punto”, in Dante, non è una forma traslata di onfaloscopia, cioè di contemplazione dell’ombelico che, come in certe pratiche orientali, astragga dal dramma della vita reale, dalla storia con tutti i suoi “punti discriminanti”. Se torniamo a scorrere l’elenco delle occorrenze di punto nel testo dantesco scopriamo infatti che «punto» compare la prima volta in Inf. I, v.11, a segnalare il momento critico di resa allo smarrimento che conduce l’uomo fuori strada («tant’era pieno di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai»); la seconda volta in Inf. II, v.51, per indicare un altro frangente decisivo, quello in cui Virgilio viene riscosso dall’immobile sospensione del Limbo per accorrere in soccorso di Dante («nel primo punto che di te mi dolve. // Io era tra color che son sospesi / e donna mi chiamò beata e bella …); e la terza volta – la più importante di tutte, come notò forse per primo Contini – il «punto» è nel discorso di Francesca, in un verso famoso la cui densità di significato ci si rivela soltanto ora (e che vedremo ripreso allusivamente anche nel canto XXX): «ma solo un punto fu quel che ci vinse» (V, 132). Il punto è il qui-e-ora in cui tutto lo spazio e il tempo del mondo e della storia si concentrano nell’urgenza di una decisione della libertà. Come scrive Contini, «il punto, sia esso spaziale o temporale o tematico, vince o supera, risponde a un rischio o cimento supremo nel soggetto, discrimine che sancisce la vera identità del vocabolo. […] Dall’occasione di tanto peccato alla visione divina, quale abisso e quale preterintenzionalità di parentela!» (Un esempio di poesia dantesca. Il canto XXVIII del Paradiso, in Un’idea di Dante, Torino 1976, p. 206).
Un punto, il punto: quello in cui, ogni momento, decidi della tua vita. E lì c’è Dio. (Oppure no).