La parabola del buon samaritano, che oggi abbiamo riascoltato alla messa, ribadisce, tra le altre cose, un elemento fondamentale della rivoluzione culturale portata di Gesù Cristo nel mondo: quello della responsabilità dello sguardo.
L’uomo aveva sempre saputo di essere responsabile di ciò che faceva, Gesù gli insegna che è responsabile anche di ciò che guarda. Basti l’esempio, oggi urticante come non mai, di Mt 5,27-28: «Avete inteso che fu detto: “Non commettere adulterio”;» – ordine dell’azione: ci sta, uno prima di fare certe cose se lo deve immaginare che poi ci sono delle conseguenze – «ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore». Dall’ordine dell’azione si passa inopinatamente all’ordine della visione: fine del regime “guardare ma non toccare”. Tutti fregati, nessuno può vantarsi di essere a posto («Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia» si può chiosare con Rom 11,32).
Ma c’è di più. La precisazione della categoria di prossimità, a cui Gesù viene indotto dalla domanda dell’anonimo dottore della legge in Lc 10,25 ss. si impernia sull’idea di una responsabilità che non è neanche dello sguardo, inteso come focalizzazione intenzionale della mente, attraverso gli occhi, su un aspetto particolare della realtà piuttosto che su un altro. (Come era nel detto precedente, da cui infatti sono derivati nella tradizione ascetica cristiana secoli di pratiche di disciplina dello sguardo oggi pressoché dimenticate), ma è una responsabilità della visione. Gesù, con la parabola del buon samaritano, in sostanza ci dice che siamo responsabili di ciò che vediamo. Non solo di ciò che scegliamo di vedere, ma anche di ciò che ci accade di vedere anche senza che lo abbiamo scelto. «Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre» (10,31-32).
Che cosa fa scattare la responsabilità del sacerdote e del levita? Il puro e semplice fatto che hanno visto. Rispondendo alla domanda del teologo che vuole una definizione di “prossimo”, Gesù non pone alcun dovere morale di solidarietà nei confronti di una categoria, in qualsivoglia modo definita. Il prossimo è colui a cui tu sei vicino. Non fossero passati di lì quel giorno e a quell’ora, il sacerdote e il levita non avrebbero avuto nessuna responsabilità nei confronti di quel tale, così come non ne hanno alcuna, che ne so, per le vittime della criminalità, o per i politraumatizzati, o per chiunque altro. Sono responsabili perché sono lì, abbastanza vicino (la parola chiave che il testo impiega in greco è appunto πλησίον) da poter vedere.
Il cristianesimo antico ha impiegato questo rivoluzionario criterio introdotto da Gesù nell’orizzonte dell’umanità come fattore determinante della krisis operata sulla “società dello spettacolo” dell’impero romano, come ho cercato di dimostrare altrove (Il teatro di Dio, Brescia 2008). Contro il dogma di ogni “cultura dello spettacolo”, che vuole lo spettatore istituzionalmente innocente, invulnerabile e irresponsabile di ciò che guarda, il cristianesimo ha compiuto una mossa eversiva, che ha cambiato per sempre i termini della questione. Dopo Gesù Cristo, non ce la possiamo cavare più dicendo “non sono stato io”. La domanda è diventata: “C’eri? Hai visto? E che hai fatto?».
Quella fu una grande rivoluzione operata dal cristianesimo e se ne sentono ancora, benché attutiti e offuscati dalla secolarizzazione moderna, i benefici effetti. Da cento anni a questa parte, però, siamo alle prese con un altro rivoluzionario cambiamento antropologico, con cui la stessa rivoluzione cristiana deve fare i conti. E secondo me non li ha ancora fatti pienamente.
Il mondo in cui Gesù proclama la responsabilità della visione è un mondo in cui gli uomini vedono solo ciò che è fisicamente loro vicino. Ciò che vedono è quasi sempre anche “a portata di mano”, o quanto meno “a portata di gambe”. Il sacerdote e il levita, dopo aver visto l’uomo malmenato dai briganti, dovevano fare solo pochi passi per raggiungerlo e fare quel che poi farà il samaritano. Ciò che è visibile è raggiungibile, e ciò che è raggiungibile (di solito) è anche visibile. Così funzionava il mondo: certo, esistevano anche le cose lontane, che si sapevano “per sentito dire”, ma Gesù non parla affatto di quelle. Non c’è nessuna parabola che dica: “Un sacerdote, avendo letto sul giornale che un tale era stato aggredito sulla strada da Gerusalemme a Gerico, voltò pagina senza fare nulla … invece un samaritano, avendo letto l’articolo, decise di andare a cercare quell’uomo eccetera eccetera”.
La visione da lontano (cioè la tele – visione, intesa ovviamente nel senso più lato possibile, e aperto a tutti gli inopinati sviluppi che purtroppo può avere …) ha cambiato tutto. Ha cambiato il mondo e ha cambiato l’uomo. Oggi siamo nella condizione di vedere soprattutto ciò che è lontano (per giunta con il massimo della precisione dei dettagli, perché come è noto, “le cose in televisione si vedono meglio”). Nella pagana società dello spettacolo, tornata trionfalmente in auge e oggi assolutamente dominante, questo non è un problema. Assai meglio degli antichi romani che nell’arena guardavano morire i protagonisti degli spettacoli cruenti (professionisti o condannati che fossero) comodamente assisi sulle tribune, noi siamo nelle condizioni di assistere da casa nostra a tutte le catastrofi del mondo, nella più perfetta invulnerabilità espensierata “innocenza”. Come già cantava l’epicureo Lucrezio, è uno spasso veder gli altri naufragare, sapendo di avere la terra sotto i piedi. È talmente seducente, che c’è tutta una pornografia del dolore altrui di cui però parliamo troppo poco …
Ma da cristiani? Essendo stato risvegliato nella nostra coscienza quel principio di responsabilità dello sguardo di cui si diceva, come viviamo la nuova condizione in cui siamo, quella in cui “si vede tutto”? Se vedo tutto, sono dunque responsabile di tutto? Fosse una cosa che vedo oggi la parabola del samaritano, dovrei dire: “sulla strada da Gerusalemme a Gerico io non c’ero, ma l’ho visto in televisione”. Potrei averlo visto addirittura “in tempo reale”: essere lì, a guardare mentre i briganti lo picchiavano. (Tanti anni fa, non restammo tutti svegli, presidente della repubblica in testa, un’intera notte a veder morire un bambino in un pozzo?). Tutti i giorni sono “lì vicino”, ma solo con la vista. Nella pratica impossibilità di fare come il samaritano, e perciò facile preda di chi vuole sfruttare il mio disagio.
Che ne è, in questa mutata condizione, della responsabilità dello sguardo? Trovo che qui ci sia un punto di crisi fortissima nel rapporto tra il cristianesimo e il mondo contemporaneo, che non è stato ancora affrontato adeguatamente. Per molto tempo, ad esempio, mi pare che all’ipertrofia della visione si sia risposto, in una certa pastorale ecclesiastica, con una retorica della colpevolizzazione: le immagini strazianti della sofferenza dei bambini di quello che allora si chiamava terzo mondo, hanno innescato, in tanti giovani della mia generazione che si sono sentiti “colpevoli” di essere nati nel primo, insieme a molti generosi tentativi di fare qualcosa per aiutarli, anche un disagio che in certi casi si è fatto insostenibile, è degenerato in tristezza e in rabbia ed è stato la causa di esiti, umani e politici, quanto mai infelici.
In che senso, in che modo, entro quali limiti sono responsabile di ciò che vedo, anche nel mondo in cui “si vede vicino anche ciò che resta lontano”? Ecco una questione su cui sarebbe urgente un serio lavoro culturale.