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Tre cose buone della messa in “rito virale”.

22 lunedì Giu 2020

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coronavirus, Liturgia, Santa Messa

Dio, come è noto, scrive dritto su righe storte e anche da situazioni un po’ sgangherate sa trarre del bene. La regola vale pure in campo liturgico, dove può accadere che delle piccole buone riforme vengano non dalle pensate dei liturgisti (che Dio ce ne scampi), bensì da inopinate circostanze sfavorevoli e da rimedi abborracciati come quelli che si son visti in questi tempi di epidemia virale.

Dal mio limitatissimo punto di vista (che si esaurisce in pratica nella mia parrocchia) vedo tre cose buone nella “nuova messa di rito virale” scaturita dal famoso protocollo (su cui peraltro mantengo qualche ironica riserva).

  • La gente arriva per tempo in chiesa. Per tempo vuol dire prima che la messa abbia inizio. E alla messa, prima si arriva, meglio è. La cosa più preziosa che ho reimparato nei mesi di sospensione della celebrazione pubblica è stata l’adorazione eucaristica, che nella mia parrocchia si è fatta tutti i giorni per un’ora dalle 18 alle 19. Stare in chiesa, in silenzio, davanti al Signore: cosa c’è di meglio? A me sembra che, specialmente oggi, sia l’esercizio spirituale più salutare. Purtroppo, con la ripresa delle messe cum populo, il mio parroco non ha aderito al suggerimento che mi ero permesso di dargli, cioè di continuare con l’esposizione quotidiana del Santissimo almeno per un’ora prima della messa, ma non importa: adesso io cerco comunque di andare prima in chiesa e di star lì davanti al tabernacolo. Senza far niente di particolare: star lì e basta. In silenzio e ora anche in attesa del sacrificio eucaristico. Bene, vedo con grande soddisfazione che adesso lo fanno in molti. Domenica sono andato alla messa delle 10. Quando sono entrato in chiesa, verso le 9.30, c’era già qualcuno e alle 10 meno cinque la chiesa era praticamente piena. Come mai? Prima non succedeva. La parola magica è «posti limitati»: sapere che arrivare all’ultimo momento o addirittura in ritardo potrebbe “avere una conseguenza” è sufficiente a compiere il miracolo. (A volte ci vuol poco per migliorare i comportamenti umani: un euro in pegno basta e avanza a far sì che nessuno lasci in giro i carrelli della spesa al supermercato). Dio solo sa quanto bene potrebbe venire se questa pratica si consolidasse e si mantenesse nel tempo. Dieci minuti di attesa silenziosa del sacramento, esposti alla presenza del Santissimo possono fare molto di più di tante belle omelie e di tante energie vanamente spese nella “animazione liturgica” (horribile dictu). Certo, la condizione imprescindibile è il silenzio. E il silenzio viene osservato quanto più si è coscienti che in chiesa ci si va prima di tutto per ascoltare e adorare Dio e non per “coltivare i rapporti umani”, come invece pare nella vulgata neo-cristiana.
  • È stato abolito lo scambio del gesto di pace. Ci vogliamo bene esattamente tanto (o tanto poco) quanto prima, ma in compenso è stata tolta di mezzo una distrazione proprio al momento in cui ci si prepara a ricevere il corpo di Cristo
  • Il nuovo modo di distribuire la comunione è migliore di quello precedente. Intanto perché richiede più tempo, il che vuol dire più attesa del sacramento da ricevere e/o più tempo di ringraziamento per il sacramento ricevuto. Poi perché evita un’altra manovra di distrazione di massa con la formazione (sempre un po’ disordinata, in Italia) della fila dei comunicandi, con l’intoppo di quelli che dalle prime panche si vogliono inserire nella fila già formata, quelli che sbagliano a tornare indietro e soprattutto il pernicioso “effetto gregge”: tutti si alzano, si mettono in coda, e in automatico mi ci metto anch’io, che stia o che non stia “pensando chi vado a ricevere”. Infine perché la comunione la dà solo il sacerdote, e non tutti quei laici che una cattiva prassi ha promosso da “ministri straordinari” dell’eucarestia ad ausiliarii in servizio permanente effettivo, senza che ve ne sia una sola ragione al mondo: se anche ci vogliono cinque minuti in più per distribuire la comunione,  che problema c’è? Cos’è tutta questa fretta di andar via? Rispetto a questi vantaggi, mi pare che passi in secondo piano l’obbligo di ricevere la particola sulla mano. Ritengo infatti che il contesto ora consenta una maggiore serietà e concentrazione nel compiere il gesto (io prima preferivo sempre ricevere l’ostia in bocca e non sulla mano, ma il problema non era la mano in sé – che è esattamente tanto degna quanto la bocca – ma l’attitudine che l’un gesto o l’altro favoriva). Anzi, il fatto che il sacerdote mi dia l’ostia mentre sono fermo al mio posto e non quando mi devo muovere per farvi ritorno mi consente di tenerla sulla mano per qualche istante e compiere un atto di adorazione prima di mangiarla.

Se il protocollo lo avesse previsto, si sarebbe potuto ottenere un altro vantaggio con la soppressione di tutti quegli orribili canti che infestano ogni celebrazione, anche la più sparuta. Visto che si era così preoccupati delle goccioline potenzialemente piene di virus, e così inclini a spaventare la gente, sarebbe bastato ammonire che cantando se ne emettono molte di più che tacendo, mascherine o non mascherine, e l’eliminazione della “colonna sonora”, che invece a quanto pare viene ritenuta indispensabile da tutti, avrebbe dato un altro piccolo contributo alla “riforma liturgica virale”. Ma non si può avere tutto.

Una modesta proposta (contro il dispotismo clericale)

11 lunedì Mar 2019

Posted by leonardolugaresi in minima liturgica

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Benedetto XVI, Canone Romano, riforma liturgica

La vacca sacra della chiesa contemporanea è la prassi liturgica instauratasi negli ultimi cinquant’anni, in modo largamente divergente dai desiderata dei padri conciliari ma millantando una diretta e, per così dire, cogente derivazione dal Concilio. Sembra che nella chiesa di oggi tutto si possa mettere in discussione, si possa dire impunemente qualunque cosa (e di fatto la si dice), ma alla riforma liturgica (che poi in realtà significa la prassi liturgica) non si può muovere alcuna critica o obiezione. Che una severa “riforma della riforma” sia un’urgente necessità della chiesa io credo che lo pensino in molti, e tra essi c’è sicuramente Benedetto XVI, il quale ha espresso più volte la convinzione che, essendo l’attuale crisi della chiesa una crisi di fede, la crisi di fede sia un tutt’uno con la crisi della liturgia. Per questa emergenza, però, egli da papa non è stato in grado, per ragioni che io ignoro, di fare altro che insegnare, esortare, dare il buon esempio e promulgare la Summorum pontificum, che forse si deve intendere, più che come un’apertura ai “tradizionalisti” per una soluzione dello scisma lefevriano, come un modo indiretto (e sostanzialmente fallito) di riaprire la questione liturgica per tutta la chiesa.

Negli anni recenti, chi ci ha provato (come ad esempio il cardinale Sarah, che dopo tutto sarebbe il prefetto della congregazione per il culto divino) è stato respinto con perdite, ed il recente piccolo episodio di Cremona – dove il vescovo ha immotivatamente respinto la richiesta di un gruppo di fedeli di poter celebrare la messa col vecchio rito, in dispregio della norma prevista dal motu proprio di Benedetto XVI, che è tuttora in vigore (vedi qui una ricostruzione della vicenda: http://www.lanuovabq.it/it/fedeli-umiliati-quella-messa-in-latino-non-sha-da-fare?sfns=mo) – non è altro che l’ennesima conferma di questo dato di fatto. Chi tocca i fili muore.

C’è però una cosa che qualunque buon sacerdote può fare, solo che lo voglia, senza dover chiedere il permesso a nessuno ed essendo perfettamente in regola con le leggi della chiesa: riprendere a celebrare la messa (la messa novus ordo, si intende) usando ordinariamente (che non vuol dire sempre, basterebbe farlo regolarmente) il canone romano. Un tempo era l’unica preghiera eucaristica valida per tutti in tutto il mondo – e c’era in questa unicità un segno profondo di unità universale a cui la chiesa ha deciso di rinunciare: se abbia fatto bene o  male non saprei, ma tant’è – ed oggi fa parte di un numero di preghiere eucaristiche che, nel messale italiano, credo ammonti a una decina. Non me ne intendo, quindi non saprei dire quanto questo pluralismo espressivo, che formerà immagino la delizia dei liturgisti, risponda ad una sensibilità più interessata a parlare con gli uomini che non a parlare con Dio, ma non è questo il punto che ora mi interessa. Il punto è che il canone romano c’è ancora, anzi è la prima delle preghiere eucaristiche del messale.

Solo che non la dice mai nessuno (o quasi). Tutti (o quasi tutti) i  preti dicono sempre (o quasi) la seconda preghiera e davvero non so perché. “Perché è più breve”, mi sono sentito rispondere candidamente qualche volta, quando ne ho chiesto il motivo: e basterebbe una risposta del genere a fornire materia di riflessione per tutti gli esercizi spirituali della quaresima del papa e dei cardinali!). Il canone romano è ormai sparito dalla memoria dei fedeli. Riportarcelo, sarebbe secondo me, una piccola rivoluzione, perché risentire, giorno dopo giorno, parole come quelle sono convinto che produrrebbe qualche effetto nelle menti e nei cuori. Sarebbe, oso sperare, almeno per qualcuno un piccolo shock.  Servirebbe, quantomeno, a porsi delle domande, a riaprire la questione.

Ripeto, in questa materia non ho competenze, sono un semplice fedele che va a messa. Qualcosa sulla bellezza e la forza del canone romano ho scritto qui tempo fa (a novembre 2017: chi vuole può trovare gli articoli digitando “canone romano” nella funzione di ricerca), ma altri saprebbero parlarne molto meglio di me.

Qui mi limito solo a mettere in evidenza un particolare fra i tanti: nel canone romano il sacerdote apprestandosi a consacrare il vino dice: «Dopo la cena, allo stesso modo, prese questo glorioso calice nelle sue mani sante e venerabili, ti rese grazie con la preghiera di benedizione, lo diede ai suoi discepoli, e disse: …». Questo calice, cioè quello che il sacerdote tiene in mano. Nelle altre preghiere dice “prese il calice”, e molti pensano che sta semplicemente raccontando quello che fece Gesù quella volta. Vi pare una cosa da poco?

Ecco, forse mi illudo, ma se i preti buoni riprendessero a pronunciarle, sull’altare, parole come questa; e se i fedeli tornassero a sentire, sull’altare, un linguaggio diverso da quello a cui sono stati (forzosamente) abituati da decenni, un piccolo seme sarebbe gettato. E non c’è superiore che potrebbe proibire di leggere quel che c’è scritto (ancora) sul messale.

Questo calice e le mani di Gesù. (Minima liturgica, 4)

12 domenica Nov 2017

Posted by leonardolugaresi in minima liturgica

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Adoro te devote, Canone Romano, eucarestia, Liturgia, spettacoli

Al momento della consacrazione, il Canone Romano dice così: «La vigilia della sua passione, egli prese il pane nelle sue mani sante e venerabili, e alzando gli occhi al cielo a te Dio Padre suo onnipotente, rese grazie con la preghiera di benedizione, spezzò il pane, lo diede ai suoi discepoli, e disse: Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi».

Nella seconda preghiera eucaristica – quella che si è imposta, senza che nessuno lo abbia esplicitamente deciso, ma per prassi, come la forma standard della messa che si esegue almeno nove volte su dieci – si dice così: «Egli, offrendosi liberamente alla sua passione, prese il pane e rese grazie, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli, e disse: Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi».

C’è, nella prima formula, un dettaglio che deve evidentemente essere sembrato superfluo agli estensori della seconda: le «mani sante e venerabili» di Gesù che prendono il pane. In effetti, se si guarda solo alla funzione referenziale del linguaggio, quel particolare si può ben dare per scontato: «prese il pane» basta e avanza per informare su quel che è successo. Con che cosa volete che lo abbia preso, quel pane? Con la forchetta?

Ma quel dettaglio – poeticissimo, a me pare, e commovente – rivela tutta la sua importanza se si pensa che la consacrazione, per noi cattolici, non è semplicemente la narrazione (e il conseguente ricordo) dell’azione di Gesù, ma la sua attualizzazione. Non ci viene raccontato ciò che Gesù fece, siamo presenti a ciò che Gesù fa. Non ascoltiamo solo delle parole, vediamo dei gesti. E quei gesti non sono pura mimesi, rappresentazione, cioè in definitiva teatro: sono evento. Un fatto a cui assistiamo, guardando (anche se con gli occhi della carne non si vede quasi niente, come ci ricorda l’Adoro te devote, un inno che secondo me bisognerebbe cantare sempre dopo la comunione).

Guardando con amore, se ne siamo capaci. E qui rifulge la genialità poetica di quel dettaglio delle mani. È proprio di uno sguardo innamorato, infatti, notare i dettagli: il volto amato non è mai ricordato dall’amante con la generica precisione di una foto segnaletica, ma sempre con la selettiva predilezione per certi particolari che solo quello sguardo coglie: quel certo modo di sorridere, o di aggrottare la fronte, una piccola ruga che a volte si forma e subito scompare, un piccolo difetto, magari …

Le «mani sante e venerabili» di Gesù noi le vediamo, in quel piccolo grande tocco di altissima poesia del Canone, come le vedeva la Maddalena, come le vedeva Maria sua madre. È solo un attimo, intendiamoci, ma è come se la liturgia stessa ci invitasse a distrarci dal pane per guardare le mani che lo sollevano. Mani di carne, ma di carne divina; corpo, realtà, fatto presente, non racconto e memoria di un remoto passato.

Tutto ciò è ancor più intensamente realizzato pochi istanti dopo, quando il Canone Romano fa dire al sacerdote, in persona Christi: «Dopo la cena, allo stesso modo, prese questo glorioso calice nelle sue mani sante e venerabili, ti rese grazie con la preghiera di benedizione, lo diede ai suoi discepoli, e disse: Prendete, e bevetene tutti [ecc.]».

La seconda preghiera, invece, suona così: «Dopo la cena, allo stesso modo, prese il calice e rese grazie, lo diede ai suoi discepoli, e disse: Prendete, e bevetene tutti [ecc.]».

Lasciamo stare se sia glorioso o meno; lasciamo stare anche le mani sante e venerabili; apprezziamo pure, come è giusto, l’estrema sobrietà della seconda formula … ma «questo calice» dice molto di più di «il calice». «Questo calice» chiede a noi la fede che il sacrificio di Cristo  si compie qui e ora; «il calice» ci lascia più tranquilli nell’equivoco (oggi forse considerato ecumenicamente provvidenziale) che si stia semplicemente parlando di quel calice, quello di quella volta là (che nessun archeologo ritroverà mai).

I vostri nomi sono scritti in cielo. (Minima liturgica, 3)

10 venerdì Nov 2017

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Lettera ai Romani, Liturgia, nomi, Paolo, riforma liturgica, Santa Messa

Qualche giorno fa notavo quanto sia bello e importante che il Canone Romano nomini copiosamente i santi: «Pietro e Paolo, Andrea, Giacomo, Giovanni,Tommaso, Giacomo, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Simone e Taddeo, Lino, Cleto, Clemente, Sisto, Cornelio e Cipriano, Lorenzo, Crisogono,Giovanni e Paolo, Cosma e Damiano e tutti i santi» e poi ancora «Giovanni, Stefano, Mattia, Barnaba, Ignazio, Alessandro, Marcellino e Pietro, Felicita, Perpetua, Agata, Lucia, Agnese, Cecilia, Anastasia e tutti i santi».

Nominare è il primo e fondamentale atto di relazione: esso dice riconoscimento e rispetto dell’altro, ed è la premessa indispensabile per l’amore e la venerazione. L’odio, invece, in radice nega all’altro il suo nome, lo cambia, lo deforma, lo ignora.

La storia è, a mio avviso, anzitutto un grande esercizio di pietà, proprio perché si sforza di recuperare e conservare i nomi degli uomini e, in questo senso, direi che essa non può che essere anche prosopografica. Ma se l’uomo, in questo suo pur nobile sforzo, si scontra subito, tristemente, col limite della sua possibilità di memoria – che cosa possiamo ricordare noi? A stento, e malamente, un’infima particola degli innumerevoli nomi di uomini e donne che sono vissuti prima di noi –  Dio no.

Dio conosce tutti per nome e pronuncia eternamente il nome di ciascuno. Se smettesse anche per un solo istante di farlo, noi non saremmo.

I nomi dei santi, cioè dei cristiani, sono preziosi ai nostri occhi. Il Nuovo Testamento ne è pieno e dunque fanno parte a pieno titolo della Sacra Scrittura. Sono parola di Dio, e faremmo male a trascurarli perché “sono solo nomi”.

Domani, per esempio, alla messa si legge una parte del capitolo 16 della lettera ai Romani. È l’ultimo capitolo di quel testo poderoso, e si potrebbe essere tentati di pensare che, rispetto al resto, sia meno importante: saluti finali, titoli di coda a cui non si bada perché i film ormai l’abbiamo già visto. Non è così: quella serie di nomi, se la sappiamo leggere, è la carne della chiesa, il tessuto organico delle relazioni personali che sono la materia di cui è fatto il corpo di Cristo.

Ora, un merito indiscutibile della riforma liturgica postconciliare, come si dice sempre, è quello di avere ampliato grandemente la selezione delle letture bibliche che si fanno nella messa. Così, anche se solo una volta ogni due anni, nel sabato della XXXI settimana del tempo ordinario vengono proclamanti quei nomi cari e santi a cui Paolo teneva tanto. Però, siccome i liturgisti anche quando fanno una cosa giusta ci vogliono mettere del loro (e di solito fanno dei danni), per qualche a me ignoto motivo hanno stagliuzzato il testo del capitolo 16, inserendo nella lettura della messa solo i vv. 3-9, il v.16 e poi i vv.22-27.

Nei versetti mancanti Paolo dice così: «Vi raccomando Febe, nostra sorella, che è al servizio della Chiesa di Cencre: accoglietela nel Signore, come si addice ai santi, e assistetela in qualunque cosa possa avere bisogno di voi; anch’essa infatti ha protetto molti, e anche me stesso». Poi, nei versetti che si leggeranno domani ricorda «Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù. Essi per salvarmi la vita hanno rischiato la loro testa, e a loro non io soltanto sono grato, ma tutte le Chiese del mondo pagano. Salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa. Salutate il mio amatissimo Epèneto, che è stato il primo a credere in Cristo nella provincia dell’Asia. Salutate Maria, che ha faticato molto per voi. Salutate Andronico e Giunia, miei parenti e compagni di prigionia: sono insigni tra gli apostoli ed erano in Cristo già prima di me. Salutate Ampliato, che mi è molto caro nel Signore. Salutate Urbano, nostro collaboratore in Cristo, e il mio carissimo Stachi».

I liturgisti, a questo punto, hanno deciso che bastava, ma invece Paolo continua: «Salutate Apelle, che ha dato buona prova in Cristo. Salutate quelli della casa di Aristobulo. Salutate Erodione, mio parente. Salutate quelli della casa di Narciso che credono nel Signore. Salutate Trifena e Trifosa, che hanno faticato per il Signore. Salutate la carissima Pèrside, che ha tanto faticato per il Signore. Salutate Rufo, prescelto nel Signore, e sua madre, che è una madre anche per me. Salutate Asìncrito, Flegonte, Erme, Pàtroba, Erma e i fratelli che sono con loro. Salutate Filòlogo e Giulia, Nereo e sua sorella e Olimpas e tutti i santi che sono con loro».

Sempre i liturgisti hanno deciso di riassumere il tutto con il v.16 e poi di riattaccare dai vv.22-24: «Anch’io, Terzo, che ho scritto la lettera, vi saluto nel Signore. Vi saluta Gaio, che ospita me e tutta la comunità. Vi salutano Erasto, tesoriere della città, e il fratello Quarto» e Dio solo sa perché (ma forse nemmeno Lui) hanno escluso il v.21 che dice: «Vi saluta Timòteo mio collaboratore, e con lui Lucio, Giasone, Sosìpatro, miei parenti».

I nomi sono tutti importanti, perché «sono scritti in cielo» (Lc 10,20).

Altre bellezze (trascurate) del Canone Romano. (Minima liturgica, 2)

08 mercoledì Nov 2017

Posted by leonardolugaresi in minima liturgica

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Canone Romano, dono, Liturgia, padre Hamel, preghiera, sacrificio

La prima preghiera eucaristica – che qui l’altro giorno definivo, esagerando, “praticamente abolita” ma si potrebbe dire, più esattamente, “in via di estinzione” – comincia così:

«Padre clementissimo, noi ti supplichiamo e ti chiediamo per Gesù Cristo, tuo Figlio e nostro Signore, di accettare questi doni, di benedire queste offerte, questo santo e immacolato sacrificio.

Noi te l’offriamo anzitutto per la tua Chiesa santa e cattolica, perché tu le dia pace e la protegga, la raccolga nell’unità e la governi su tutta la terra, con il tuo servo il nostro Papa N., il nostro Vescovo N.,e con tutti quelli che custodiscono la fede cattolica, trasmessa dagli Apostoli».

Con queste parole si afferma, per prima cosa, che la messa è un sacrificio. Anzi: è il sacrificio. Il sacrificio di Cristo. Cristo, infatti, decreta la fine del Tempio, perché il Tempio è Lui; decreta la fine del sistema dei sacrifici, perché «entrò una volta per sempre (ἐφάπαξ) nel santuario» (Ebr 9,11) a spargere il suo sangue al posto di quello di capri e vitelli; decreta la fine della religione (e delle religioni) perché non spetta più agli uomini avvicinarsi a Dio dopo che Lui si è fatto intimo a noi. Non decreta però la fine del sacrificio, appunto perché sacrifica se stesso versando il suo sangue, e l’unico sacrifico di Cristo non è concluso in un fatto storico del passato, ma è un avvenimento presente. Il sacrificio avviene ora, nella messa. Quasi sempre in forma incruenta, ma una lunga storia di imbarazzanti miracoli eucaristici e soprattutto di “martirii eucaristici” (come quello di padre Jacques Hamel) sta lì a ricordarci che il sangue nella messa c’è, anche quando non si vede.

Poi si chiede a Dio il permesso di farlo, questo sacrificio. «Ti supplichiamo e ti chiediamo per Gesù Cristo […] di accettare questi doni». Chi è Dio e chi siamo noi! Questa liturgia ce lo ricorda e ci insegna a stare al nostro posto: noi, da soli, a Dio non saremmo neanche degni di farglielo, un dono. Prima di offrirglielo, dunque, lo supplichiamo di accettarlo. Gli antropologi, da Marcel Mauss in qua, ci hanno insegnato parecchie cose sull’economia del dono e sulle obbligazioni che essa comporta, ma anche senza di loro siamo tutti abbastanza scafati per sapere che quando si regala qualcosa ci si aspetta sempre qualcos’altro … Nella messa non è così. Dio non è tenuto ad esserci grato di niente.

Si dice anche: «Te lo offriamo anzitutto per la tua Chiesa santa e cattolica»: questo è per chi sostiene che lo spirito della liturgia di una volta fosse ispirato ad una pietà individualistica, intimistica e che dopo la riforma invece … Invece niente: nulla è più ecclesiale di questa formula antica. Il sacrificio eucaristico è per la chiesa. E la chiesa così com’è, nella sua verità: gerarchica, ma non clericale. Qui, infatti, raccogliamo un’altra perla del canone romano: nella seconda preghiera eucaristica, quella che oggi viene detta quasi sempre, quando si prega per la chiesa, ce la si sbriga così: «Ricordati, Padre, della tua Chiesa diffusa su tutta la terra: rendila perfetta nell’amore in unione con il nostro papa N., il nostro vescovo N., e tutto l’ordine sacerdotale». Papa, vescovi, preti e diaconi e stop. Il canone romano invece aggiunge: «e con tutti quelli che custodiscono la fede cattolica, trasmessa dagli Apostoli». Anche i laici, dunque, (soprattutto quelli che soffrono per custodire la fede, mi permetto di aggiungere). Paradossale, no? Non è molto più aderente all’ecclesiologia conciliare questa formula rispetto all’altra?

Anche per un motivo più profondo: l’aggiunta di «tutti quelli che custodiscono la fede cattolica, trasmessa dagli Apostoli» non si limita ad estendere la platea dei destinatari a tutti i fedeli, ma spiega e giustifica anche il motivo per cui preghiamo per il papa, i vescovi e i preti. Non perché sono dei dignitari a cui occorre rendere omaggio, non per un esclusivo privilegio a cui abbiano diritto, ma perché essi esistono proprio per «custodire la fede cattolica, trasmessa dagli Apostoli» e dunque si prega perché lo facciano. Dio sa quanto ce n’è bisogno.

 

Perché è stato (praticamente) abolito il Canone Romano? (Minima liturgica, 1)

04 sabato Nov 2017

Posted by leonardolugaresi in minima liturgica

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Canone Romano, Liturgia, riforma liturgica, santi

Di solito, alla festa di Ognissanti, il mio bravo parroco diceva la messa recitando il cosiddetto “Canone Romano”, cioè quella che oggi è la “Prima preghiera eucaristica” delle quattro ordinarie previste dal Messale di Paolo VI  e prima della riforma liturgica era l’unica in uso. Quest’anno, per qualche ragione, non l’ha fatto e così ho perso probabilmente l’unica occasione che avevo di ascoltarlo durante tutto l’anno liturgico.

Questa preghiera, infatti – senza che nessuno l’abbia ufficialmente deciso (e nemmeno esplicitamente auspicato, per la verità) – è stata tacitamente di fatto abolita dalla liturgia cattolica, almeno per come essa viene normalmente eseguita nelle chiese italiane in cui mi è capitato partecipare alla messa negli ultimi quarant’anni.

Mi sono sempre chiesto il perché, senza arrivare ad una risposta. Qualche volta, in passato, provai a chiederlo a qualche prete, con scarso successo. Qualcuno mi obiettò che no, i preti a volte lo recitano (vorrà dire che in tutti questi decenni sono sempre capitato “le altre volte”); qualcun altro se la sbrigò dicendo che è più lungo della seconda preghiera, quella che infatti viene recitata quasi sempre; di quest’ultima i più dotti  vantarono anche l’antichità (risalirebbe al III secolo, come testimoniato dalla Traditio apostolica).

Quello della lunghezza non pare un granché come argomento: posto che la prima preghiera duri cinque minuti in più dell’altra e anche ammesso che cinque minuti in più di messa siano pastoralmente un grave handicap, si potrebbe facilmente risolvere il problema accorciando di cinque minuti l’omelia, e prendendo così due beati piccioni con una santa fava. In realtà, negli ultimi tempi sono arrivato a pensare che la pratica abolizione del Canone Romano sia semplicemente un altro  sintomo del fatto che “i preti non stanno bene”.

Perché il punto è che quella preghiera è bellissima. Anzi, non basta dire così: è di una bellezza (cioè di una profondità spirituale) da togliere il fiato. Provare per credere. Perché allora trascurare (cioè offendere) tanta cristiana bellezza?  Perché privarne il popolo di Dio?

Faccio un esempio, perché temo che, dei miei ventiquattro lettori, almeno una ventina non ricordi neppure come è fatta. Ho detto prima che il mio parroco la recitava almeno una volta all’anno il giorno della festa di tutti i santi. C’è il suo perché. Nella messa che ci fanno fare di solito, con i santi ce la caviamo così: «Di noi tutti abbi misericordia: donaci di aver parte alla vita eterna, insieme con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio, con gli apostoli e tutti i santi, che in ogni tempo ti furono graditi: e in Gesù Cristo tuo Figlio canteremo la tua gloria».

Nel Canone Romano, invece, prima della consacrazione si dice:

«In comunione con tutta la Chiesa
Ricordiamo e veneriamo
Anzitutto la gloriosa e sempre vergine Maria
Madre del nostro Dio e Signore Gesù Cristo
San Giuseppe, suo sposo,
i santi apostoli e martiri:
Pietro e Paolo, Andrea,
Giacomo, Giovanni Tommaso, Giacomo,
Filippo, Bartolomeo, Matteo, Simone e Taddeo,
Lino, Cleto, Clemente, Sisto, Cornelio e
Cipriano, Lorenzo, Crisogono, Giovanni e
Paolo, Cosma e Damiano e tutti i santi;
per i loro meriti e le loro preghiere
donaci sempre aiuto e protezione».

La sentite la differenza? Quei nomi! Quei nomi cari, santi e benedetti. Quei nomi amati, nomi di persone, nomi che sono volti, incontri, storie, sono la storia … uomini in carne ed ossa, la chiesa! La chiesa, viva, concreta, lì trionfante e qui militante. Qui davvero “comunione dei santi” smette di essere un’idea astratta e diventa esperienza (cioè dottrina! Perché chi non capisce che la dottrina è questo, non ha capito ancora niente del cattolicesimo). Ecco allora il bisogno di inanellarli, quei nomi, in un elenco che si vorrebbe continuare all’infinito, e non troncare con il generico “tutti i santi”. “Tutti i santi” non vuol dire niente: «Pietro e Paolo, Andrea, Giacomo, Giovanni, Tommaso, Giacomo, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Simone e Taddeo» vuol dire eccome. E poi come è bello non fermarsi solo agli apostoli e andare avanti coi papi: «Lino, Cleto, Clemente, Sisto, Cornelio», e poi con i non papi, «Lorenzo, Crisogono, Giovanni e
Paolo, Cosma e Damiano» … e poi basta, ma solo perché ormai abbiamo capito che li dovremmo/vorremmo pronunciare tutti, quei nomi che sono scritti in cielo.

Ma in realtà non basta ancora (anche perché in questo spicchio di paradiso che la liturgia ci ha dischiuso non abbiamo visto le donne!) e infatti dopo la consacrazione, verso la fine della preghiera, il Canone torna a dirne degli altri, di quei bellissimi nomi:

«Anche a noi, tuoi ministri, peccatori,
ma fiduciosi nella tua infinita misericordia,
concedi, o Signore,
di aver parte nella comunità
dei tuoi santi apostoli e martiri:
Giovanni, Stefano, Mattia, Barnaba,
Ignazio Alessandro, Marcellino e Pietro,
Felicita, Perpetua, Agata, Lucia,
Agnese, Cecilia, Anastasia
e tutti i santi:
ammettici a godere della loro sorte beata
non per i nostri meriti,
ma per la ricchezza del tuo perdono».

Ripeto la domanda. Perché tutta questa ricchezza resta sepolta, come i talenti della parabola?

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