• Info
  • La chiesa e la crisi degli anni sessanta.

leonardolugaresi

~ Vanitas ludus omnis

leonardolugaresi

Archivi Mensili: giugno 2020

Forse Dante ha dormito a casa mia. (#Dante, Inferno, canto XXVII, secondo trebbo romagnolo)

30 martedì Giu 2020

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

≈ 6 commenti

Tag

casa, Cesena, Dante, Romagna

Sto scherzando, ma non del tutto. Per spiegarmi devo prenderla un po’ alla larga.

Ho il privilegio di abitare nella stessa casa in cui sono vissuti i miei genitori e prima di loro i miei nonni paterni e prima ancora i bisnonni. Per quanto ne so,  dovrebbe averla acquistata il padre di mia nonna intorno agli anni ottanta del XIX secolo. È un edificio modesto, di nessun pregio architettonico, ma molto vecchio e confesso che mi dà una certa soddisfazione sapere che i miei ci vivono da quasi un secolo e mezzo. Fino a qualche tempo fa immaginavo potesse essere stato costruito alla fine del Settecento, perché sapevo che nella mappa catastale del 1825 figurava già; però recentemente il mio parroco – che ha fatto approfondite ricerche d’archivio sulla storia della nostra parrocchia (dedicata a San Pietro) in occasione del settimo centenario della sua fondazione, avvenuta nel 1319 – mi ha fatto vedere che la mia casa, o quantomeno una costruzione che sorgeva esattamente nello stesso luogo, compare già in una mappa del Seicento.

casa mia

Io abito esattamente nel punto in cui la carta (in basso) riporta un fabbricato posto ai confini della proprietà della parrocchia, proprio in corrispondenza del bivio tra la via Emilia e la via che conduceva al mare, cioè a Cesenatico. Siamo appena fuori dalla città, a pochi passi da Porta Santi (anticamente Porta Romana). Il parroco ritiene che la costruzione di un edificio in quella posizione “strategica” potrebbe risalire addirittura agli inizi del XIV secolo, quando appunto venne costruito il Porto Cesenatico, nel 1314, e fu sistemata la strada che ad esso conduceva e che in precedenza doveva essere poco più di un sentiero. A quell’epoca, però, la chiesa di San Pietro era un priorato monastico che preesisteva da secoli alla fondazione della parrocchia e la cui storia si intreccia con la congregazione dei canonici regolari di Santa Maria in Porto, di Ravenna. E podestà di Cesena in quegli anni era Ostasio da Polenta, mentre capitano del popolo era Guido Novello da Polenta, cioè due esponenti della grande famiglia ravennate che ebbe un ruolo così importante nell’ultima parte della vita di Dante.

Ora, la posizione di “casa mia”, ai confini della proprietà monastica e di fronte al punto di congiunzione di due importanti vie di transito, rende plausibile l’ipotesi che lì fosse collocata una sorta di foresteria o di ospizio per i viandanti, mentre il legame del priorato di san Pietro con Ravenna e gli interessi della famiglia da Polenta nelle cose cesenati rendono altrettanto plausibile l’ipotesi di una visita di Dante a Cesena proprio in quegli stessi anni (abbiamo già detto che i versi dedicati alla città nel XXVII canto sono la prova di una conoscenza diretta del luogo). Perché dunque vietarsi di immaginare che, se Dante è venuto a Cesena a svolgere qualche incarico per conto dei da Polenta abbia usufruito dell’ospitalità monastica di un’istituzione tanto legata a Ravenna e ai suoi signori?

Immaginazioni, lo so … però per quanto mi riguarda basta e avanza.  È deciso: Dante ha dormito a casa mia!

 

«Romagna mia …» (#Dante, Inferno, canto XXVII, primo trebbo)

28 domenica Giu 2020

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

≈ 2 commenti

Tag

Cesena, Dante, politica, Romagna

Aria di casa, finalmente. La tragica altezza del canto di Ulisse era sublime, ma anche difficile da sopportare a lungo, almeno per lettori prosaici come sono io. Sembra di stare in alta montagna, dove l’orizzonte è sconfinato e la veduta impressionante, ma l’aria così pura e rarefatta che stenti a respirare, e ogni passo ti pesa.

Ora si scende a valle, e per di più si va in Romagna, a casa mia. «Dolce paese», la chiama un altro poeta, romagnolo di nascita – che però si guardava bene dal tornarci («io, la mia patria or è dove si vive»), avendo preferito farsi il nido in Garfagnana. Non così dolce, invece, nella descrizione di Dante, fiorentino di nascita ma da un certo punto della sua vita in poi romagnolo di adozione (sia pur necessitata da circostanze che mai avrebbe scelto), ma egli la considera quasi esclusivamente sotto il profilo politico.

Il cambio di atmosfera, rispetto alla chiusa del canto precedente, è così brusco e netto da risultare quasi fastidioso, ma si vede proprio che c’era urgenza di scendere a terra. Congedato l’eroe omerico («con la licenza del dolce poeta», v. 3), subentra infatti immediatamente un’altra presenza, che ha qualcosa di intrusivo nel confuso borbottio con cui arpiona l’attenzione di Dante e Virgilio: «[…] un’altra, che dietro a lei venìa, / ne fece volger li occhi a la sua cima / per un confuso suon che fuor n’uscia» (vv. 4-6). Se la “fatica di parlare” de «lo maggior corno de la fiamma antica» aveva qualcosa di solenne e di sacrale (ci era venuto in mente un oracolo), qui pur restando nell’ambito di antiche leggende si evoca il paragone, truce e violento, del bue di rame in cui il tiranno Falaride cuoceva arrosto i suoi nemici per godersi i “muggiti” di dolore dei condannati (cfr. vv.7-15). Così, con la consueta tecnica dell’anticipo inavvertito, l’autore ci ha già immessi a nostra insaputa nell’ambiente spietato della politica politicante, quella che consiste solo nella lotta per il potere.

Quando arriva a parlare, il personaggio si rivela subito un “uomo di mondo” e un attento osservatore, ma l’apparente cortesia del suo eloquio forbito non dissimula del tutto una certa petulanza di fondo, che quasi obbliga mentre sembra pregare: «non t’incresca restare a parlar meco; / vedi che non incresce a me, e ardo!» (vv.23-24). Ha riconosciuto in Virgilio un “lombardo” (cioè un settentrionale) e vuole notizie «di quella dolce terra» – (pure lui, come Pascoli, la chiama così) – «latina ond’io mia colpa tutta reco» (vv.26-27). A questo punto anche un lettore non particolarmente attento avrà avvertito l’eco dell’episodio di Farinata e si sarà confermato nel sospetto che qui si parlerà di politica. Lo si farà, tuttavia, con un grado di coinvolgimento personale di Dante nella materia di gran lunga meno drammtico di quello che avevamo sperimentato durante il confronto con un “padre della patria” come il grande capo della parte ghibellina di Firenze. A essere coinvolto, infatti, è solo il personaggio ancora innominato, che tiene celata la sua identità ma non la sua “romagnolità”. Dante, infatti – a cui Virgilio demanda prontamente il compito di rispondere («Parla tu: questi è latino») – si dimostra sì preparatissimo sull’argomento («E io, ch’avea già pronta la risposta, / sanza indugio a parlare incominciai», vv.34-35), ma distaccato: «Romagna tua non è, e non fu mai, / sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni; ma ‘n palese nessuna or vi lasciai» (vv. 37-38). (Io sopra l’ho proclamato romagnolo di adozione, ma dubito che lui sarebbe d’accordo;  però noi siamo sempre stati bravi a “fidelizzare l’ospite”, e anche con Dante dopo tutto ci siamo riusciti, visto che risiede qua sulla riviera da settecento anni).

Segue un eccellente “pastone” giornalistico sulla politica romagnola del tempo, in cui, per non far torto a nessuno, ciascuna città ha la sua terzina, di ciascuna si dice l’essenziale e la disposizione è attentamente calcolata (non secondo un ordine geografico): prima viene Ravenna, che è anche la sola (insieme con Cervia, sua dipendenza) ad essere esplicitamente nominata – come si conviene ad una ex capitale imperiale e, soprattutto, all’ultima residenza del poeta. Seguono, indicate con perifrasi, Forlì, Rimini e Faenza; infine, in una posizione che io sarei propenso a ritenere privilegiata proprio perché finale, ecco Cesena: «E quella cu’ il Savio bagna il fianco, / così com’ella sie’ tra ‘l piano e ‘l monte, / tra tirannia si vive e stato franco» (vv. 52-54). Descrizione perfetta della Cesena di quel tempo; la più “geografica” di tutte quelle dell’elenco; indubitabilmente frutto di esperienza autoptica. Prova certa quantomeno del suo passaggio tra noi.

Dante a casa mia. Di questo parlerò la prossima volta, con una sorpresa.

Una presentazione del libro “Vivere da cristiani in un mondo non cristiano”

26 venerdì Giu 2020

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

≈ 2 commenti

Giovedì 2 luglio alle ore 21. Per circa un’ora. Ci sarà anche mons. Massimo Camisasca, che ha scritto la postfazione al libro. Chi lo desidera può collegarsi semplicemente cliccando qui:

Join Zoom Meeting diretto

https://zoom.us/j/95301083187?pwd=WmZScUh5dkNvRFdjWnNaTW55cTk3UT09

 

Meeting ID: 953 0108 3187

Password: 3Q4bDJ

(Non è come vedersi di persona, però c’è il vantaggio di poter stare comodamente a casa propria in ciabatte e, se uno si stufa, non deve alzarsi e andar via prima, che è sempre un po’ imbarazzante).

 

Ultime su Ulisse (#Dante, Inferno, canto XXVI, vv. 106-142)

25 giovedì Giu 2020

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

≈ 4 commenti

Tag

Dante, follia, Ulisse, vecchiaia

Ultime e per giunta in forma di frammenti, perché il tempo stringe e su questo canto siamo stati molto più che su tutti gli altri. Per cui, come in uno di quei detestabili viaggi organizzati in cui bisogna sempre risalire sul pullman per andare da un’altra parte, la povera guida si limita a indicare sommariamente qualcuna delle bellezze del luogo: “a destra guardate quello”, “di fronte a voi c’è quell’altro”, e poi ripartiamo.

«Io e ‘ compagni eravam vecchi e tardi» (v.106). Finita la “crociera nel Mediterraneo”, quando si arriva al dunque, al “caso serio” della vita, o cruna dell’ago o imbuto («quella foce stretta»!) che ben sappiamo … Dante ha il colpo di genio di presentarci un eroe vecchio. No, diciamo meglio: proporci come eroe un vecchio. «Vecchi e tardi» è una iunctura che mi intenerisce (se fossi il tipo, direi addirittura che mi commuove). Chi è il vecchio? È quello che ci mette un’eternità a sistemare le buste della spesa al supermercato, a tirar fuori i soldi dal borsellino, a uscire dal parcheggio quando tu aspetti di infilarti al suo posto. Quello che non capisce mai niente “al volo”, un po’ perché è mezzo sordo e molto perché è lento, e le cose gliele devi spiegare almeno tre volte. Quello che ti vien voglia di dire “lascia perdere che faccio io” anche quando c’è da avvitare una lampadina. Noi vecchi. Bene, con un’audacia e un’intelligenza senza pari  qui l’eroe è un vecchio. La letteratura, di solito, quando i vecchi non li umilia, li confina nella parte del “vecchio saggio”. (A proposito, così mi chiama la mia nipotina Monica che, così piccina, ha già imparato a burlarsi del nonno). Il vecchio eroe o combattente mi pare che sia un’eccezione rarissima. (Così sul momento mi viene in mente soltanto Clint Eastwood come autore da affiancare a Dante in questa geniale opzione). Eppure, non tocca forse per lo più ai vecchi il cimento più arduo di tutti, l’agone supremo, cioè morire? […]

«dov’Ercule segnò li suoi riguardi / acciò che l’uom più oltre non si metta» (vv.108-109). Le colonne d’Ercole: roba da pagani, appunto. Non sono mica le tavole della legge di Dio. Niente di cui un cristiano debba preoccuparsi, niente che dal punto di vista di Dante debba essere considerato un obbligo morale. “Non andare oltre”, “stare nei limiti”, thnetà phronein: questo è il succo della prudenza mondana, il massimo a cui può arrivare il paganesimo, guardarsi dall’hybris, non esagerare (meden agan) per non fare arrabbiare gli dèi. Più tardi, in un recupero moderno di questa saggezza del limite, si sarebbe detto: il faut cultiver notre jardin. Che successivamente, nella nostra epoca di volgarità trionfante, abbiamo ridotto a “farsi i cazzi propri”. Si è data la colpa al cristianesimo di aver rotta per sempre questa bella misura antica, mettendo in testa all’uomo moderno strane idee di infinito, ma l’uomo – anche pagano – “qualcosa che non andava” e non gli dava pace ce l’aveva fin dall’inizio: il cristianesimo lo ha solo svelato. […] Comunque: sia chiaro a tutti i lettori della Commedia: oltrepassando le colonne d’Ercole Ulisse non commette alcun peccato. Figuriamoci. […]

L’orazion picciola (vv.112-120). Uno dei più bei discorsi del mondo. Intanto perché è breve. Poi perché sembra onesto. Infine perché si fonda sull’ontologia dell’uomo non sulla morale o sul sentimento («considerate la vostra semenza»: mai ci fu argomento più cogente). […] Tralascio l’accenno, pateticissimo e ruffianissimo, alla «tanto picciola vigilia / d’i nostri sensi ch’è del rimanente» per il quale rinvio, pieno di ammirazione, a quanto detto sopra sull’epica della vecchiaia). […] La tragica fregatura di questo bellissimo discorso è in ciò che propone: «l’esperïenza, / di retro al sol, del mondo sanza gente» (v.117). Cioè una cosa impossibile. Si fosse trattato di oltrepassare le colonne d’Ercole per fare della navigazione costiera, verso sud o verso nord, sarebbe stata una cosa da nulla (i fenici del resto lo facevano tranquillamente); si fosse trattato di volgere la prua ad occidente per scoprire l’America sarebbe stata sì un’impresa temeraria e grandiosa, ma umana. Ma «il mondo sanza gente» vuol dire l’altro mondo. Non più il mondo della fisica, ma quello della metafisica. Questo facciamo un po’ fatica a capirlo: noi, che il mondo l’abbiamo tutto mappato al centimetro da Google Maps, dobbiamo fare davvero un poderoso sforzo di immaginazione per avere un’idea di che cosa esso fosse invece per un uomo dei tempi di Dante. A Finisterre, guardando l’Atlantico, un uomo dell’antichità o del medioevo non vedeva semplicemente un mare più grande degli altri, ma al di là del quale c’è un’altra terra che è esattamente come questa (a parte il fatto che là ci sono le patate, il tabacco, la cioccolata e i pomodori): no, vede l’infinito. Per quanto ne sa Dante, agli antipodi non c’è la Nuova Zelanda, cioè un posto che in fin dei conti è come l’Italia, ma senza la storia e senza l’arte): no, dall’altra parte del mondo c’è il Purgatorio!. Cioè l’Aldilà. L’Aldilà è di qua. Capite la differenza? Il «folle volo» di Ulisse non è semplicemente un’impresa temeraria (niente a che fare con Colombo o con Lindbergh). È un’impresa anche teoreticamente impossibile. «Folle» è parola-chiave quant’altre mai nel lessico della Commedia, e solo ora capiamo pienamente il senso dell’obiezione di Dante, così fortemente rintuzzata da Virgilio nel II canto: «temo che la venuta non sia folle» (II, v.35). La plausibilità del viaggio di Ulisse è la stessa di una missione spaziale che cercasse di arrivare ai “confini dell’universo” per vedere cosa c’è al di là. […]

Per questo la finale del canto è così stupendamente tragica, ma non ha nulla, proprio nulla, di grandioso o di “eroico”. Nulla di “agonistico”: qui non c’è alcun Prometeo sconfitto dagli dèi. La sorte di Ulisse non è una punizione per aver trasgredito un divieto, perché non di un divieto si tratta bensì di una tragica impossibilità. Si prendano il primo e l’ultimo verso della chiusa e li si meditino in sequenza: «Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto […] infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso».

P.S. In questi sciagurati tempi di iconoclastia bestiale, l’Ulisse dantesco non ha nulla da temere: non c’è un suo monumento che rischi di essere abbattuto dalle scimmie. Non c’è nemmeno un cippo, una lapide, un qualche orpello foscoliano che a egregie cose il forte animo accenda. Non è un granduomo, è l’uomo e basta, e il suo eroismo è quello dell’uomo in quanto tale.

Un povero vecchio con la sua ansia d’infinito.

 

Tre cose buone della messa in “rito virale”.

22 lunedì Giu 2020

Posted by leonardolugaresi in minima liturgica

≈ 6 commenti

Tag

coronavirus, Liturgia, Santa Messa

Dio, come è noto, scrive dritto su righe storte e anche da situazioni un po’ sgangherate sa trarre del bene. La regola vale pure in campo liturgico, dove può accadere che delle piccole buone riforme vengano non dalle pensate dei liturgisti (che Dio ce ne scampi), bensì da inopinate circostanze sfavorevoli e da rimedi abborracciati come quelli che si son visti in questi tempi di epidemia virale.

Dal mio limitatissimo punto di vista (che si esaurisce in pratica nella mia parrocchia) vedo tre cose buone nella “nuova messa di rito virale” scaturita dal famoso protocollo (su cui peraltro mantengo qualche ironica riserva).

  • La gente arriva per tempo in chiesa. Per tempo vuol dire prima che la messa abbia inizio. E alla messa, prima si arriva, meglio è. La cosa più preziosa che ho reimparato nei mesi di sospensione della celebrazione pubblica è stata l’adorazione eucaristica, che nella mia parrocchia si è fatta tutti i giorni per un’ora dalle 18 alle 19. Stare in chiesa, in silenzio, davanti al Signore: cosa c’è di meglio? A me sembra che, specialmente oggi, sia l’esercizio spirituale più salutare. Purtroppo, con la ripresa delle messe cum populo, il mio parroco non ha aderito al suggerimento che mi ero permesso di dargli, cioè di continuare con l’esposizione quotidiana del Santissimo almeno per un’ora prima della messa, ma non importa: adesso io cerco comunque di andare prima in chiesa e di star lì davanti al tabernacolo. Senza far niente di particolare: star lì e basta. In silenzio e ora anche in attesa del sacrificio eucaristico. Bene, vedo con grande soddisfazione che adesso lo fanno in molti. Domenica sono andato alla messa delle 10. Quando sono entrato in chiesa, verso le 9.30, c’era già qualcuno e alle 10 meno cinque la chiesa era praticamente piena. Come mai? Prima non succedeva. La parola magica è «posti limitati»: sapere che arrivare all’ultimo momento o addirittura in ritardo potrebbe “avere una conseguenza” è sufficiente a compiere il miracolo. (A volte ci vuol poco per migliorare i comportamenti umani: un euro in pegno basta e avanza a far sì che nessuno lasci in giro i carrelli della spesa al supermercato). Dio solo sa quanto bene potrebbe venire se questa pratica si consolidasse e si mantenesse nel tempo. Dieci minuti di attesa silenziosa del sacramento, esposti alla presenza del Santissimo possono fare molto di più di tante belle omelie e di tante energie vanamente spese nella “animazione liturgica” (horribile dictu). Certo, la condizione imprescindibile è il silenzio. E il silenzio viene osservato quanto più si è coscienti che in chiesa ci si va prima di tutto per ascoltare e adorare Dio e non per “coltivare i rapporti umani”, come invece pare nella vulgata neo-cristiana.
  • È stato abolito lo scambio del gesto di pace. Ci vogliamo bene esattamente tanto (o tanto poco) quanto prima, ma in compenso è stata tolta di mezzo una distrazione proprio al momento in cui ci si prepara a ricevere il corpo di Cristo
  • Il nuovo modo di distribuire la comunione è migliore di quello precedente. Intanto perché richiede più tempo, il che vuol dire più attesa del sacramento da ricevere e/o più tempo di ringraziamento per il sacramento ricevuto. Poi perché evita un’altra manovra di distrazione di massa con la formazione (sempre un po’ disordinata, in Italia) della fila dei comunicandi, con l’intoppo di quelli che dalle prime panche si vogliono inserire nella fila già formata, quelli che sbagliano a tornare indietro e soprattutto il pernicioso “effetto gregge”: tutti si alzano, si mettono in coda, e in automatico mi ci metto anch’io, che stia o che non stia “pensando chi vado a ricevere”. Infine perché la comunione la dà solo il sacerdote, e non tutti quei laici che una cattiva prassi ha promosso da “ministri straordinari” dell’eucarestia ad ausiliarii in servizio permanente effettivo, senza che ve ne sia una sola ragione al mondo: se anche ci vogliono cinque minuti in più per distribuire la comunione,  che problema c’è? Cos’è tutta questa fretta di andar via? Rispetto a questi vantaggi, mi pare che passi in secondo piano l’obbligo di ricevere la particola sulla mano. Ritengo infatti che il contesto ora consenta una maggiore serietà e concentrazione nel compiere il gesto (io prima preferivo sempre ricevere l’ostia in bocca e non sulla mano, ma il problema non era la mano in sé – che è esattamente tanto degna quanto la bocca – ma l’attitudine che l’un gesto o l’altro favoriva). Anzi, il fatto che il sacerdote mi dia l’ostia mentre sono fermo al mio posto e non quando mi devo muovere per farvi ritorno mi consente di tenerla sulla mano per qualche istante e compiere un atto di adorazione prima di mangiarla.

Se il protocollo lo avesse previsto, si sarebbe potuto ottenere un altro vantaggio con la soppressione di tutti quegli orribili canti che infestano ogni celebrazione, anche la più sparuta. Visto che si era così preoccupati delle goccioline potenzialemente piene di virus, e così inclini a spaventare la gente, sarebbe bastato ammonire che cantando se ne emettono molte di più che tacendo, mascherine o non mascherine, e l’eliminazione della “colonna sonora”, che invece a quanto pare viene ritenuta indispensabile da tutti, avrebbe dato un altro piccolo contributo alla “riforma liturgica virale”. Ma non si può avere tutto.

All lives matter. Il resto è menzogna.

21 domenica Giu 2020

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

≈ 2 commenti

Tag

aborto, Black lives matter, totalità

Il discorso fatto ieri, in ambito dantesco, sull’essenziale bisogno umano di totalità e sull’intrinseca violenza di ogni parzialità che si erige ad assoluto ha un’applicazione diretta al nostro travagliato momento storico che forse è doveroso esplicitare.

Lo slogan Black lives matter, in nome del quale in queste settimane si stanno consumando nel mondo occidentale tante violenze e tante bestialità, è menzognero. Finge di opporsi ad un inesistente principio (Black lives don’t matter) che nessuno che sia sano di mente e che venga degnato di un qualche ascolto osa sostenere nello spazio pubblico.

Il mondo, ovviamente, è pieno di ingiustizie, sopraffazioni, violenze e negazioni della dignità umana. Bella scoperta. Anche il mondo occidentale lo è, benché, proporzionalmente, in misura minore di altri mondi, che invece non vengono toccati da nessuna contestazione (forse anche perché ci sarebbe da farsi male a contestarli). E tra le vittime di ingiustizie e di violenze ci sono certamente anche molti afroamericani, ma non vige da nessuna parte del nostro mondo, né viene teorizzato in alcun modo né si riflette in alcuna istituzione un principio come quello a cui lo slogan sopra citato finge di opporsi. Se proprio si volesse ricorrere ad una semplificazione che unisce in una sola categoria tutte le vittime, si dovrebbe piuttosto dire che le vite dei poveri non contano, ed anche in questo caso non perché esista un principio che lo afferma, ma perché il mondo è pieno di ingiustizie, violenze e sopraffazioni. Un afroamericano ricco è uno la cui vita conta esattamente come quella di ogni altro ricco, negli USA come altrove (forse negli USA di più). Ma la questione diventa allora chiedersi onestamente chi siano i poveri: ed è un discorso che porterebbe lontano.

Il vero senso di quello slogan, dunque, è «Only black lives matter». Perciò si può umiliare, sporcare e distruggere tutto ciò che è altro dal parzialissimo valore che esso assolutizza, comprese le vite di molti “neri” (noi anziani però diciamo “negri”, perché questa è la parola corretta, e non dispregiativa, che si usa in italiano). Per cui, paradossalmente, l’affermazione violenta del particolare contro “tutto il resto” si ritorce violentemente anche sul particolare stesso. Le vite di certi neri non contano, per i BLM che saccheggiano le loro case o i loro negozi.

Il principio, dunque, è quello che si ricordava ieri: “meno di tutto equivale a niente”. Se non c’è apertura alla totalità, c’è ingiustizia e violenza. Si tenga perciò a mente questa necessaria conseguenza: l’unica affermazione che possiamo accettare è che tutte le vite contano. Le vite non umane contano proporzionalmente al posto che occupano nell’ordine della creazione: ecco il fondamento di una sana ecologia e di un equilibrato rispetto degli animali. Le vite umane contano tutte e sempre allo stesso modo.

È facile vedere che l’unico che pratichi effettivamente e in modo rigoroso questo principio è Dio, per il quale davvero tutte le vite contano. A noi uomini è possibile solo aspirare e tendere con tutte le nostre forze (ma soprattutto con l’aiuto della grazia)  ad imitare la totalità divina, senza riuscirci mai pienamente. Però è importante che ne siamo almeno consapevoli.

Si adoperi questo criterio pratico di giudizio: ogni affermazione del valore di un particolare, che non contempli almeno implicitamente il riconoscimento del valore di tutti gli altri particolari che compongono il tutto, è falsa. Quindi, in radice, deriva dal padre della menzogna.

Per essere ancora più concreti, ogni volta che qualcuno si leva per affermare che “le vite di x” o “le vite di y” contano, gli si chieda se afferma contemporaneamente (e lotta altrettanto) per il principio che anche “le vite degli esseri umani non ancora nati” contano. Lo si deve fare non per un puntiglio ideologico, ma semplicemente perché nel mondo in cui viviamo l’aborto è di gran lunga la più grave forma di negazione del valore della vita umana che esista. Senza confronti quantitativi possibili con nessun altro fenomeno: siamo proprio in un ordine di grandezza diverso. Basti pensare che dal primo gennaio di quest’anno al momento in cui scrivo queste parole (21 giugno) si stima che siano stati uccisi più di venti milioni di di esseri umani in questo modo. Si veda qui: https://www.worldometers.info/abortions/

Perciò chiunque, nella propria difesa di un qualsiasi valore umano, non contempli, almeno implicitamente, anche la difesa di quelle vite è in una posizione di oggettiva e insanabile menzogna.

Ulisse e “il tutto nel frammento” (dove cerco di rispondere a Fiorenza) (#Dante, Inferno, canto XXVI, fin dove siamo arrivati)

20 sabato Giu 2020

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

≈ 8 commenti

Tag

Agostino, Dante, Leopardi, scuola, totalità, Ulisse, von Balthasar

Questo blog è minimo, ma ben frequentato. I commenti sono rari, ma sempre civili, spesso istruttivi, talvolta preziosi.

L’articolo di domenica scorsa (https://leonardolugaresi.wordpress.com/2020/06/14/la-grandezza-di-ulisse-dipende-dal-mare-dante-inferno-canto-xxvi-vv-100/#comments) ha suscitato un intervento bello e vibrante di indignazione, di una socia della “comitiva dantesca” che qui si è formata: fine e appassionata lettrice di Dante (lei che è dantesca fin nel nome), dissente fortemente da ciò che lì scrivevo. Sono sempre  lieto di sentir contestare le mie ragioni con altre ragioni contrarie, purché bene espresse, perché così si approfondisce il pensiero. Nel corso dei quaranta anni in cui ho insegnato, ho visto con malinconia scemare progressivamente e infine disseccarsi del tutto il rivolo di una corrente che, quand’ero a mia volta studente, era parsa per un momento impetuosa e travolgente, quella di una contestazione che, per quanto giovanilmente velleitaria, sgarbata, presuntuosa (e spesso proprio sbagliata) fosse, aveva in sé qualcosa di vivo e di vero, che poi si è perduto. Avendo fatto da studente una scuola piena sì di difetti e di magagne, ma dove c’era un protagonismo giovanile che poneva domande agli adulti, faceva critiche ai maestri (quasi sempre ingenerose e spesso inconsistenti) e progettava alternative (magari campate per aria), poi da insegnante ho assistito impotente, nel corso dei decenni successivi, all’imporsi di un conformismo sempre più pesante ed opaco di cui oramai la scuola sta morendo. Credo di aver cercato di oppormi, nel mio piccolo, ma ovviamente senza successo. Ben venga dunque chi dice “non sono d’accordo”!

Se comprendo bene l’argomento di Fiorenza, lei respinge le mie critiche alle “ingiustizie” di Ulisse e rivendica l’assolutezza della scelta di Ulisse. Dell’Ulisse di Dante, beninteso. Penso perciò di dover dire qualcosa – non per convincerla ma per rendere magari ancor più chiaro e fruttuoso il suo dissenso – sul problema della totalità, ossia sulla possibilità che si trovi il tutto nel frammento, come ho scritto in testa a questo pezzo, rubando l’espressione al titolo di un libro di Hans Urs von Balthasar. Mi pare il problema cruciale della vita e la ragione ultima del “torto” di Ulisse. Che cosa voglio dire? Provo a chiarirlo in maniera sintetica ed elementare.

L’uomo aspira alla totalità. Ogni uomo, anche se molti non ne sono consapevoli. Meno di tutto, per l’uomo è poco (per qualcuno è niente). Se no, vuol dire che l’uomo “si accontenta”. Cioè si acconcia, per rubare stavolta una parola di Pirandello, alla «pena di vivere così» (facendosela piacere per forza). «Scelgo tutto!»: così risponde, con la piccola Teresa, ogni bambino che si rispetti all’adulto che gli presenta una cesta di giochi dicendogli di prenderne uno; perché ciò corrisponde esattamente al sentimento universale di ogni anima umana, almeno finché non le sia stato inculcato che invece deve scegliere se no non avrà niente.

Perché la tragedia dell’esistenza è questa: la totalità a cui l’uomo aspira gli è radicalmente preclusa. Egli non ne può mai fare l’esperienza, se non forse nella forma primordiale, aurorale ed irriflessa, della soddisfazione che prova da lattante quando, al seno della madre, gode di tutto il bene del mondo («Exceperunt ergo me consolationes lactis humani […] divitias usque ad fundum rerum dispositas», scrive Agostino nelle Confessioni). Poi ne assaggia ancora il sapore, già intriso di preventiva nostalgia,  nella non-esperienza, del tutto virtuale e in fin dei conti illusoria, della potenzialità che è concessa all’adolescente. Cosa intendo lo spiega benissimo Leopardi ritraendo Silvia: «sedevi, assai contenta / di quel vago avvenir che in mente avevi». La contentezza, (cioè di nuovo la soddisfazione,  avere abbastanza: una buona misura, scossa e traboccante, in pratica tutto) consiste unicamente nel pensiero della possibilità: l’avvenire che rende contenta Silvia è tale solo perché è vago: poter essere qualsiasi cosa, vivere in qualsiasi posto … nulla di deciso, nulla di compromesso, ma anche nulla di attuato. Il passaggio dalla potenza all’atto, implica però la scelta, e la scelta – ogni scelta, come ha ribadito meglio di tutti Kierkegaard – è tragica perché significa la rinuncia, cioè la perdita di tutto ciò che non si sceglie, cioè di quasi tutto. Altro che esperienza della totalità: sembra che l’uomo sia condannato a fare comunque l’esperienza di una parzialità e, paradossalmente, quanto più in alto pone e assolutizza il particolare che ha scelto (o che la vita gli ha imposto), tanto più violento e ingiusto rischia di apparire il suo modo di vivere, pur quanto eroico sia.

Anche Ulisse, in fondo, “sceglie tutto”, ma questo – ripeto – nemmeno a lui è possibile. Ecco perché ho tanto insistito sui suoi torti, sulle cose (che poi sono persone) che lascia fuori dal suo “tutto”, sul bene che sacrifica.

Come si esce da questo cerchio tragico? Solo se il Tutto entra nell’orizzonte della storia e dell’esperienza umana e si identifica con un particolare, con un punto nel tempo e nello spazio. L’incarnazione. Solo l’incarnazione di Dio apre all’uomo l’accesso alla totalità. Essa infatti indica il metodo per cercare il “tutto nel frammento”: l’unica possibilità di vivere – che significa necessariamente vivere di particolari – trovando in ogni particolare il senso, cioè il nesso con la totalità.

Con questo filo, con questa chiave, si può scegliere di varcare le colonne d’Ercole e attraversare l’oceano, oppure restare a Itaca e rendere a Penelope il debito amore che deve farla lieta. Non è più così importante: ogni strada porta alla grandezza. («Voglio tutto, per questo sono cattolica», diceva Flannery O’ Connor, ma questo Ulisse non può saperlo).

“Vivere da cristiani in un mondo non cristiano”: un’intervista radiofonica e una presentazione (fra qualche giorno).

16 martedì Giu 2020

Posted by leonardolugaresi in Vivere da cristiani in un mondo non cristiano

≈ 3 commenti

Sabato ho parlato del libro nel corso di un programma radiofonico che si chiama Il posto delle parole. L’intervista, condotta dal curatore del programma, Livio Partiti, si può ascoltare qui: https://ilpostodelleparole.it/libri/vivere-da-cristiani-in-un-mondo-non-cristiano/ oppure qui: https://www.youtube.com/watch?v=submZtDwEQg&t=24s.

Tra un paio di settimane, più o meno, si dovrebbe fare un incontro di presentazione del libro, con uno di quei marchingegni che adesso vanno tanto di moda e che a me piacciono poco, ma che se non altro offrono la comodità di non dover uscire di casa. Quando saprò data e orario e il modo di collegarsi li comunicherò.

 

La grandezza di Ulisse? Dipende dal mare. (#Dante, Inferno, canto XXVI, vv. 100-111)

14 domenica Giu 2020

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

≈ 6 commenti

Tag

desiderio, mare, Ulisse

Parlavamo, tre giorni fa, della ragione di Ulisse; l’unica ragione che, nel suo onestissimo discorso, egli porti per spiegare la scelta, oggettivamente ingiusta, di mancare ai suoi doveri verso il figlio, verso il padre e verso sua moglie. Questa ragione è «l’ardore … a divenir del mondo esperto», cioè il desiderio. La posizione che viene enunciata è precisamente quella che si definisce come “dittatura del desiderio”. Dicevo, un po’ ruvidamente, ma davvero senza alcun disprezzo (come potremmo averne, per quel povero legno storto che noi stessi siamo?) che non c’è differenza di sostanza tra la libidine intellettuale di Ulisse e quella carnale di Francesca. Il mondo erige monumenti all’audace navigatore, al condottiero, al grande scrittore o all’inesausto ricercatore di nuove terre o nuovi campi del sapere e non chiede loro conto delle ingiustizie consumate, in quella che per convenienza si definisce “vita privata”, in nome del loro ardore. Ma il padre o la madre di famiglia che abbandonano coniuge e figli perché hanno “incontrato il grande amore” sono titolari di un ardore che ai loro occhi è altrettanto nobile e cogente. E l’ingiusto dolore delle vittime è lo stesso.

Questa durezza, che capisco possa essere urtante (ma che mi pare sia di Ulisse stesso più che mia), non sminuisce affatto la grandezza tragica dell’impresa che ora ci viene narrata. Ma com’è possibile che un desiderio ingiusto (ingiusto perché impone sul tutto la tirannia di un particolare, sacrificando senza riguardo ogni altra parte della vita), innalzi chi se ne fa dominare ad una dimensione così elevata, anche se così tragica, come quella documentata in questo canto? Azzardo una risposta: dipende dal mare. L’uomo o la donna che abbandonano la famiglia per “la grande passione” consumano il loro ardore in un altro uomo o in un’altra donna. La cosa comincia e finisce lì: «questi, che mai da me non fia diviso», dice Francesca del “suo” Paolo (che non apre bocca, che piange soltanto, che non si sa che tipo sia, sicché noi non possiamo neppure decidere se ne valesse la pena …), e chissà se c’è ancora un po’ di tenerezza o piuttosto del dispetto e dell’angoscia per questo vincolo eterno che li lega. Ulisse, invece, si mette in mare: «ma misi me per l’alto mare aperto» (v.100). Quant’è potente questo verso! L’allitterazione iniziale sembra per un attimo farci intravedere un egotismo quasi petrarchesco («ma misi me» un po’ come «di me medesmo meco mi vergogno» del primo sonetto del Canzoniere). L’allitterazione è una figura retorica molto “fisica”, immediata nella sua percezione (piace molto ai bambini e ai poeti arcaici), efficacissima nel raggomitolare le parole le une sulle altre, sicché mentre il significato della frase procede il significante resta sempre sullo stesso suono: così, nel caso in ispecie, sembra che non si esca mai dall’io. In Petrarca, effettivamente, non se ne esce, ma si resta lì con lui a contemplare il suo ombelico, ma in Dante no: «ma misi me» è ancora soggettivismo allo stato puro, tirannia della volontà (l’io pone se stesso, avrebbe forse detto quel tale), ma poi nel secondo emistichio l’orizzonte si allarga, e non perché l’io ponga il non io, ma perché alziamo lo sguardo all’infinito: «per l’alto mare aperto».

Il mare: ecco ciò che fa la differenza. L’ardore di Ulisse può anche essere ingiusto e tirannico (come sempre è l’io nel suo volersi imporre) nel suo spunto iniziale, ma se non decade nell’angustia e nella meschinità a cui sarebbe altrimenti condannato è perché egli non va semplicemente “a fare un viaggio”, “a conoscere il mondo”, “a cercare nuove esperienze”: questo, specialmente al giorno d’oggi, son capaci tutti di farlo (tranne me). No. Ulisse si mette «per l’alto mare aperto», cioè si consegna a qualcosa di ignoto, di superiore, di non determinabile da lui. Apre a quella cosa umanamente insopportabile che è l’infinito. Questo rimette in gioco, direi quasi suo malgrado, quella dimensione della totalità che il desiderio soggettivo di per sé escluderebbe. C’è un fatto di cui credo dobbiamo tener conto: gli antichi rifuggivano con terrore dalla navigazione in mare aperto: privi di bussola e di sestante, cercavano il più possibile di navigare sotto costa: le rotte del Mediterraneo erano fatte in modo da rimanere il più possibile a contatto visivo con le terre che circondano questo mare interno o le numerose isole che lo punteggiano. L’oceano era tutta un’altra faccenda.

Non è dunque una crociera, quella del vecchio Ulisse e della sua compagnia di pensionati: si noti, a conferma, la trascuratezza con cui nomina tante località che nel dépliant dell’agenzia viaggi sarebbero invece decantate come mete di possibili sbarchi: «L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna, / fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi, / e l’altre che quel mare intorno bagna, / […] da la man destra mi lasciai Sibilia, / da l’altra già m’avea lasciata Setta» (vv. 110-111). Fin dall’inizio, c’era dunque in quel desiderio di «divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore» qualcosa di più e di diverso, che sfonda l’orizzonte mondano. Per diventare un “uomo di mondo”, le mete turistiche sarebbe forse andate bene. Ma per quello che Ulisse, senza saperlo, vuole, bisogna mettersi «per l’alto mare aperto».

Gli Stati generali del menga.

12 venerdì Giu 2020

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

≈ 4 commenti

Tag

modernità, politica, potere, rappresentanza

Dice che fa gli “Stati generali”, lui. E tutti a ripetere come pappagalli: “Stati generali, Stati generali”, anche coloro che li criticano prevedondo che saranno una pagliacciata (e avendo probabilmente ragione).

Non sanno nemmeno che cosa siano gli Stati generali, né se ne curano. Il che non stupisce: nell’Occidente contemporaneo, mortalmente (e io credo satanicamente) infettato dal virus dell’odio verso se stesso, grandissimo è, di conseguenza, anche l’odio verso la storia. La conoscenza della storia, infatti, se non serve a rendere migliori gli uomini, dà un suo piccolo contributo a preservarli dalla bestialità. Perciò viene aborrita.

Se lo sapessero, forse capirebbero che evocarne il nome significa anche sollevare il problema più grave della politica e, ahimé, aprire il coperchio del pozzo nero in cui noi sventurati italiani siamo da tempo scivolati e ora stiamo affondando: quello della mancata rappresentanza politica o, se si vuole, della carente rappresentatività delle istituzioni politiche. La prima e fondamentale domanda a cui la politica – ogni politica, ma specialmente quella che deve affrontare emergenze catastrofiche  come la presente – deve infatti rispondere è: in nome di chi e/o di che cosa governa colui che governa? La nostra storia (di nuovo, la storia!) ci ha formati all’idea che qualsiasi risposta a tale domanda fondamentale, per essere accettabile, deve comprendere la parola consenso. Chi governa deve avere, in un modo o nell’altro, il consenso dei governati (più esattamente: una quota sufficiente di consenso dei governati).

Ora, gli Stati generali del regno di Francia erano una istituzione importante, seria e a suo modo efficiente, che assolveva egregiamente a questo compito nella società che li aveva creati, cioè quella tardomedievale. La loro funzione era infatti quella di mediare tra il potere del re e le istanze dei ceti, o ordines, in cui era articolata la società secondo la rappresentazione medievale ancora prevalente, imperniata sull’idea, semplice e bella, delle tre funzioni essenziali per la vita sociale: lavorare, combattere e pregare. Il corpo sociale, in questa visione, si compone dunque di tre parti: coloro che lavorano (laboratores) e così danno da mangiare a tutti; coloro che combattono (bellatores) e così facendo difendono tutti dai pericoli esterni e interni; e coloro che pregano per tutti (oratores). Li ho elencati in quest’ordine perché sono anch’io un uomo di oggi e ho assimilato, mio malgrado, l’idea che l’economia sia la base di tuto, ma allora si ragionava all’opposto: primo stato era il clero, il secondo la nobiltà e poi c’era appunto il “terzo stato”. I membri di questa assise, che il re convocava (o era costretto a convocare) quando c’erano dei problemi che non era in grado di affrontare da solo (tipicamente quando aveva bisogno di soldi), eletti da tutti i componenti del rispettivo ordine di appartenenza, si riunivano per corpi separati; all’interno di ciascuno “stato” si deliberava in base alla volontà della maggioranza dei membri, ma poi nell’assise generale si votava “per stati”, non per singoli deputati. Tutto questo aveva un senso ed una logica politica all’interno di quella visione di società e, in quel contesto, assicurava più che decentemente il principio di rappresentanza di cui sopra.

Convocati la prima volta agli inizi del XIV secolo, si riunirono un’ultima volta nel 1614-1615, perché l’affermarsi dello stato moderno, nella sua prima forma, quella dell’assolutismo monarchico (più o meno illuminato) li aveva resi obsoleti. La società che poteva riconoscersi nell’ancestrale schema tripartito di cui sopra, infatti, non esisteva più e gli antichi “stati” erano divenuti dei gusci vuoti, larve del passato. Furono riesumati 174 anni dopo, nella primavera del 1789, perché la Francia si trovava, come noi oggi, di fronte ad una recessione economica gravissima, che aveva messo in crisi l’assolutismo monarchico, cioè la prima forma assunta dallo stato moderno (quello che noi impropriamente siamo soliti chiamare  ancien régime). Non è il mio campo di studi, e non so chi precisamente abbia avuto l’idea di resuscitare quell’arcaico congegno istituzionale, però c’è una certa ironia nel fatto che per compiere un passaggio rivoluzionario tutto interno alla modernità ci si servisse di uno strumento medievale. Il re, poveretto, anche allora non si rendeva ben conto di che cosa stava facendo (stava preparando la sua decapitazione, in effetti), e i cerimonieri di corte dovettero compulsare antichi volumi per ricostruire il protocollo da seguire nella solenne giornata di apertura dell’assemblea, quel fstidico 5 maggio 1789; ma la lunga e accurata fase di preparazione di quell’appuntamento, iniziata nell’agosto dell’anno precedente, risultò decisiva per mettere in piedi l’apparato socio-culturale e ideologico e il personale politico che poi, nel giro di poche settimane portò alla rivoluzione. Già alla metà di giugno, infatti, gli Stati generali non esistevano più perché l’autoproclamata Assemblea nazionale ne aveva preso il posto.

La finisco qui perché non è mia intenzione fare un bignamino di storia della rivoluzione francesce. Il lettore avrà già capito: quella era roba grossa, roba seria, e la gente che era lì rappresentava veramente qualcosa di importante, nel bene e nel male. Il nostro governo chi e che cosa rappresenta? In nome di chi e che cosa governa? E le “menti brillanti”, come dice il demiurgo di questa iniziativa, che ha deciso di convocare a suo capriccio, chi e che cosa rappresentano?

Quindi, Stati generali de che? Basta avere un po’ di rispetto verso le parole per rendersi conto di quanto sia grottesca l’applicazione di quel nome alla performance che va in scena domani. Usare le parole a sproposito può indurre al sorriso, se lo fa un bambino; da adulti, è uno stigma inconfondibile …

← Vecchi Post

Iscriviti

  • Articoli (RSS)
  • Commenti (RSS)

Archivi

  • marzo 2023
  • febbraio 2023
  • gennaio 2023
  • dicembre 2022
  • novembre 2022
  • ottobre 2022
  • settembre 2022
  • agosto 2022
  • luglio 2022
  • giugno 2022
  • Maggio 2022
  • aprile 2022
  • marzo 2022
  • febbraio 2022
  • gennaio 2022
  • dicembre 2021
  • novembre 2021
  • ottobre 2021
  • settembre 2021
  • agosto 2021
  • luglio 2021
  • giugno 2021
  • Maggio 2021
  • aprile 2021
  • marzo 2021
  • febbraio 2021
  • gennaio 2021
  • dicembre 2020
  • novembre 2020
  • ottobre 2020
  • settembre 2020
  • agosto 2020
  • luglio 2020
  • giugno 2020
  • Maggio 2020
  • aprile 2020
  • marzo 2020
  • febbraio 2020
  • gennaio 2020
  • dicembre 2019
  • novembre 2019
  • ottobre 2019
  • settembre 2019
  • agosto 2019
  • luglio 2019
  • giugno 2019
  • Maggio 2019
  • aprile 2019
  • marzo 2019
  • febbraio 2019
  • gennaio 2019
  • dicembre 2018
  • novembre 2018
  • ottobre 2018
  • settembre 2018
  • agosto 2018
  • luglio 2018
  • giugno 2018
  • Maggio 2018
  • aprile 2018
  • marzo 2018
  • febbraio 2018
  • gennaio 2018
  • dicembre 2017
  • novembre 2017
  • ottobre 2017
  • settembre 2017
  • agosto 2017
  • luglio 2017
  • giugno 2017
  • Maggio 2017
  • aprile 2017
  • marzo 2017
  • febbraio 2017
  • gennaio 2017
  • dicembre 2016
  • novembre 2016
  • ottobre 2016
  • settembre 2016
  • agosto 2016
  • luglio 2016
  • giugno 2016
  • Maggio 2016
  • aprile 2016
  • marzo 2016
  • febbraio 2016
  • gennaio 2016
  • dicembre 2015
  • novembre 2015
  • ottobre 2015
  • settembre 2015
  • agosto 2015
  • luglio 2015
  • giugno 2015
  • Maggio 2015
  • aprile 2015
  • marzo 2015
  • febbraio 2015
  • gennaio 2015
  • dicembre 2014
  • novembre 2014

Categorie

  • Atti degli apostoli
  • Cristianesimo e spettacoli
  • Dante per ritrovarsi
  • giudizio
  • minima liturgica
  • Scuola Ratinger
  • Scuola Ratzinger
  • Senza categoria
  • Vivere da cristiani in un mondo non cristiano

Meta

  • Registrati
  • Accedi

Crea un sito o un blog gratuito su WordPress.com.

Privacy e cookie: Questo sito utilizza cookie. Continuando a utilizzare questo sito web, si accetta l’utilizzo dei cookie.
Per ulteriori informazioni, anche sul controllo dei cookie, leggi qui: Informativa sui cookie
  • Segui Siti che segui
    • leonardolugaresi
    • Segui assieme ad altri 160 follower
    • Hai già un account WordPress.com? Accedi ora.
    • leonardolugaresi
    • Personalizza
    • Segui Siti che segui
    • Registrati
    • Accedi
    • Segnala questo contenuto
    • Visualizza il sito nel Reader
    • Gestisci gli abbonamenti
    • Riduci la barra
 

Caricamento commenti...