A quanto pare, succede anche questo: https://www.youtube.com/watch?v=XN8HAFMwzB4
Uno vorrebbe che fossero immagini false, ma purtroppo sono vere.
Rome, we have a problem!
27 giovedì Apr 2017
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inA quanto pare, succede anche questo: https://www.youtube.com/watch?v=XN8HAFMwzB4
Uno vorrebbe che fossero immagini false, ma purtroppo sono vere.
Rome, we have a problem!
26 mercoledì Apr 2017
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inAl mattino, mentre faccio colazione, ho l’abitudine di seguire la rassegna stampa di RaiNews 24. Mentre il (o la) giornalista legge (male) titoli e parti di articoli dei giornali, sulla parte inferiore del teleschermo compaiono le ultime notizie di agenzia. Stamattina vi ho potuto leggere: «Papa Francesco paga la spiaggia ai disabili». Una “notizia” del genere non può che provenire da una comunicazione inviata alle agenzie da quello che impropriamente qui chiamo l’ufficio-stampa del papa, intendendo qualcuno, in Vaticano, che è stato incaricato (o più probabilmente si è incaricato) di fare pubblicità a fatti come questo. Noto infatti che, con periodicità regolare e frequente, vengono pubblicizzati molti altri “eventi” simili: cose buone e normali come un contributo ad un’associazione di volontariato (la “carità del papa”, sostenuta fra l’altro da tutti i fedeli con l’obolo di San Pietro, esiste da sempre e fa da sempre migliaia di interventi), ma anche cose insignificanti (come la “notizia” che il papa – naturalmente in privato e senza nessun clamore! – va, a sorpresa!, a comprarsi gli occhiali!); sempre però con quel certo-non-so-che che si pensa possa attirare l’interesse e la simpatia del pubblico.
Non credo che chi si dedica a questo lavoro faccia un buon servizio al santo padre. Per almeno due ragioni. La prima è semplice e ben nota, perché sta scritta nel vangelo (libro con cui in Vaticano dovrebbero avere familiarità): «Quando dunque fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Quando invece tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,2-4). Perché togliere al papa il merito di una carità fatta in silenzio?
La seconda ragione è meno evidente, ma più importante ancora e si riferisce a una tendenza pericolosa, che è presente in misura crescente nella chiesa degli ultimi decenni, forse anche in correlazione con l’accresciuto ruolo mediatico della figura del papa. Si tratta del rischio di dare spazio, anche tra i cristiani, ad una sorta di culto della personalità. Abbiamo sentito ripetere tante volte l’aneddoto di don Bosco che correggeva i suoi ragazzi quando gridavano «Viva Pio IX!» invitandoli a dire piuttosto: «Viva il papa!». Bene, Don Bosco aveva la vista lunga, come è noto.
La spinta all’esaltazione della personalità del papa regnante – in forme diverse naturalmente, che possono andare dal puro ed innocente entusiasmo alla piaggeria e al servilismo – forse c’è sempre stata, ma, per limitarci all’ultimo secolo della storia della chiesa, credo abbia colpito i successori di Pietro in misura diversa: è stata assai forte durante il pontificato di Pio XII, il “Pastor Angelicus” (che poi l’ha scontata con la damnatio subita dopo la morte in tanti ambienti ecclesiali); ancora di più nei riguardi di Giovanni XXIII, il “papa buono” (espressione tanto popolare quanto orrenda, perché implica di necessità che tutti gli altri fossero cattivi). Fortissima nei riguardi di Wojtyla, l’esaltazione della personalità si ripresenta ora massicciamente nei confronti di Bergoglio. Per gli ultimi tre papi, si può inoltre notare che l’enfasi adulatoria è venuta, in misura crescente, anche da fuori, cioè dal “mondo”. Di per sé, ci tengo a precisarlo, ciò non toglie nulla ai meriti di questi papi (due santi e un venerabile!), ma dice molto su una grave tentazione che affligge la chiesa. Non è affatto conveniente che chi svolge una funzione autorevole vicaria, come sempre è in ultima analisi la natura dell’autorità nella chiesa, veda calamitare sulla propria personalità l’interesse, l’attenzione e al limite la devozione dei fedeli.
Mi pare che solo a Paolo VI e a Benedetto XVI, per una singolare predilezione (e anche per loro merito particolare), sia stato risparmiato questo fardello e fatto invece il “dono” dell’incomprensione, dell’ostilità e dell’umiliazione da parte del mondo (e anche all’interno della chiesa, mica si è scherzato, nei loro confronti). Lo stesso vangelo di cui sopra dice anche: «Beati voi, quando vi insulteranno […] e mentendo diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia» (Mt 5,11).
20 giovedì Apr 2017
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inDiscernimento, più ancora che misericordia, è probabilmente la parola-chiave del pontificato di Francesco. Su questo concetto, e sul modo in cui viene impiegato sempre più diffusamente nella chiesa oggi, ha fatto delle considerazioni pertinenti e assai utili il padre Scalese nel suo blog, qualche giorno fa qui: http://querculanus.blogspot.it/2017/04/dottrina-vs-discernimento.html, e precedentemente qui: http://querculanus.blogspot.it/2016/07/a-proposito-di-discernimento.html.
Le condivido. Vorrei solo aggiungere che, mentre la parola “discernimento” è oggi di gran moda – benché (o forse proprio perché) non sia affatto chiaro che cosa si intende con essa –, la parola “giudizio” non gode di alcun favore tra i cristiani, anzi viene da molti esplicitamente rifiutata. La frase-emblema di questo pontificato, nella memoria dei più, temo che resterà quel «Chi sono io, per giudicare?», forse sfuggito di bocca al papa durante un colloquio coi giornalisti in aereo e che nella sua mente aveva presumibilmente il senso perfettamente cristiano che “solo Dio è giudice e nessun uomo può usurparne il ruolo”, ma che è stato infelicemente interpretato da quasi tutti nel senso che il giudizio è una cosa sbagliata, cattiva, non cristiana.
Invece giudizio è una parola profondamente cristiana (oltre ad essere la parola più religiosa che ci sia). È una parola bellissima, liberante, gloriosa: vivaddio, tutto è giudicato! Che cosa orrenda, ingiusta, informe, spugnosa sarebbe la vita dell’uomo e del mondo, se non ci fosse la certezza che il giudizio c’è. E c’è il giudizio perché c’è un Giudice (e non a Berlino, che staremmo freschi!).
Tuttavia, prendiamo atto che gli uomini del nostro tempo molto spesso questa parola cristiana, come tante altre, non la capiscono più. Intendono giudizio nel senso di regola astratta, rigida, disumana, che cala dall’alto sulla vita per condannarla … Non sanno cos’è il giudizio, come non sanno cos’è la dottrina. Bisogna tenerne conto.
In attesa che coloro che fanno da maestri nella chiesa si decidano a tornare ad insegnarle queste parole, adoperiamo pure discernimento. Purché sappiamo, almeno noi cristiani, che il discernimento altro non è che “il giudizio praticato”, il giudizio messo alla prova della vita quotidiana. «Impariamo a giudicare, è l’inizio della liberazione», ho sentito dire una volta da don Giussani, e mi pare un programma perfetto ancora oggi. Se non è esercizio del giudizio – che ovviamente implica l’uso di un criterio di verità, e la Verità è Cristo – il discernimento degenera fatalmente ad “arte del possibile”, prudenza mondana (poco importa se gesuiticamente rinominata), “discrezione” nel senso di Guicciardini. Tutte cose che poco o nulla hanno a che fare con il cristianesimo.
Il giudizio praticato, però, si potrebbe chiamare ancor meglio crisi o, se si preferisce, krisis, (alla greca, che fa sempre il suo effetto, e per evitare fraintendimenti). Krisis è il porsi di un giudizio che nasce dall’esperienza della Verità e si impatta con le altre posizioni umane, si gioca nel confronto e si lascia sfidare da esse e le “mette in crisi”. Cioè ha la capacità di innescare in esse un processo di revisione che, col tempo, le cambia. Perché distingue, separa, spacca i sistemi consolidati di pensiero, li disarticola, li rovescia. Fa un’altra cultura.
Esattamente quello che hanno fatto i cristiani dei primi secoli nei confronti del mondo greco-romano (sin da quando erano l’un per mille, o l’un per cento della popolazione!). e quello che facciamo tanta fatica a fare noi oggi.
18 martedì Apr 2017
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inQuesta intervista pubblicata sull’Osservatore Romano, e riportata da Magister nel suo sito: http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2017/04/18/islam-religione-della-spada-lallarme-di-un-gesuita-egiziano/ mi sembra illuminante. Almeno per gli ignoranti come me.
15 sabato Apr 2017
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inIeri sera, partecipando alla Via crucis che ogni venerdì santo si fa, alla sera, nella mia città, ho pensato quello che penso tutti gli anni. La processione passava tra i tavolini dei bar affollati come sempre, nell’indifferenza dei passanti; sostava davanti a chiese, un tempo parrocchie, che resistono solo perché sono state affidate agli ucraini o ai rumeni; pagava il pedaggio “ecumenico” di una lettura biblica fatta insieme agli avventisti che da qualche anno piazzano il loro gazebo proprio davanti alla cattedrale; poi finalmente entrava in chiesa (tragitto breve, di quattro stazioni, anche perché oramai abbiamo tutti un’età …) per un breve discorso del vescovo e il bacio alla croce. E io mi ricordavo di quando, da noi, il venerdì santo era come se fosse morto un parente stretto: tutto era a lutto, volenti o nolenti. La televisione (due canali, in bianco e nero!), che già era seriosa di suo, quella sera diventava ancora più austera; di vita mondana allora se ne faceva poca ma quella sera per niente; il digiuno era osservato comunemente, magari solo per abitudine … Che fosse morto Gesù, era evidente a tutti, anche a chi non ci credeva.
Ogni anno penso: ecco, siamo tornati come ai primi secoli. Per i più, che sia morto Gesù è del tutto indifferente. (Un tizio è morto quasi duemila anni fa: può esserci una notizia più banale e irrilevante di questa?).
Noi siamo quelli a cui importa. I pochi a cui importa.
C’è qualcosa di impegnativo e di affascinante, in tutto questo. Dipendesse da me, farei riavvolgere il nastro e ritornerei volentieri indietro, ma persino io devo riconoscere che c’è qualcosa di paradossalmente entusiasmante in questo passaggio così rapido e traumatico da un “cristianesimo ambientale” a un “cristianesimo iniziale”. Perché di questo si tratta.
La notizia del giorno (che cercherete invano sui media) è che stanotte comincia il cristianesimo. Noi dovremmo essere come i primi cristiani. (Perché in un certo senso lo siamo: ogni cristiano lo è).
13 giovedì Apr 2017
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inDire “Buona Pasqua” invece dell’ipocrita “Buone feste” e del reticente “Auguri”, che ormai si sono diffusi come la gramigna, è un atto minimo di resistenza linguistica, una sorta di grado zero del parlare cristiano alla portata di ciascuno di noi. Dunque un dovere. Rispondere “Buona Pasqua anche a te” a chi ci ha appena augurato buone feste è già un piccolissimo atto di krisis, cioè di giudizio che invera la posizione dell’altro mettendo in gioco la propria. È già fare cultura.
10 lunedì Apr 2017
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Vedo i titoli dei giornali di oggi e sono del tipo “Sangue sulla Domenica delle Palme”. Come se fosse una notizia. Come se il sangue non c’entrasse niente con la domenica delle palme, anzi non c’entrasse niente con la messa. Ma che cosa credono? O meglio, che cosa crediamo? Che andare a messa sia l’equivalente liturgico di mangiare la pizza con Gesù e i suoi amici?
Fosse o meno una cena pasquale quell’“ultima cena” che Gesù celebrò allora (gli evangelisti non si sono ancora messi d’accordo su questo), è certo che di lì a poche ore “ci scappò il morto” e quelle misteriose parole che il Maestro pronunciò: «Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per molti» (Mc 14,24) non erano una figura retorica. L’odore del sangue, ad avere naso, si sentiva già.
Da allora, ad ogni messa (che è poi sempre quell’unica messa) “ci scappa il morto”. Insorgano pure teologi e liturgisti, a ricordarci che la messa è celebrazione del Risorto, non del morto. I realisti risponderanno che non può esserci risurrezione se prima non si muore. Veramente. Vere passum immolatum, si cantava una volta (e talvolta si canta ancora, magari sulla sin troppo dolce melodia di Mozart).
Andare a messa, dunque, è assumersi un rischio, è voler condividere quella vicenda lì, essere uniti con colui che muore versando copiosamente il suo sangue, per risorgere. Tutto, però, cospira a distrarcene.
Dio prova a ricordarcelo in molti modi: per esempio, ogni tanto (meno raramente di quel che si pensa) fa dei “miracoli eucaristici”, e il sangue torna a scorrere, la carne si presenta come carne. (Non molti anni fa lo ha fatto a Buenos Aires – a Buenos Aires! – nel 1992 e nel 1996, ma se ne parla poco: chi non ne fosse informato, digiti “miracolo eucaristico Buenos Aires” e troverà pane per i suoi denti).
Ma c’è un altro modo, terribile, che viene invece dall’opera di Satana nel mondo, in cui siamo richiamati al vero senso della messa. Ci sono posti, al mondo, in cui andare a messa è realmente pericoloso. Posti, come l’Egitto o la Nigeria, in cui il corpo di Cristo può sanguinare ad ogni eucarestia.
È successo ieri in Egitto. Anche da noi è successo, la scorsa estate, col martirio di padre Hamel. Ma che ne abbiamo fatto di quell’enorme fatto simbolico, di quell’avvertimento terribile e glorioso?
08 sabato Apr 2017
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«Credo che la Chiesa sia l’unica cosa che renderà sopportabile il mondo terribile verso il quale ci stiamo avviando; l’unica cosa che rende sopportabile la Chiesa è che in qualche modo è il corpo di Cristo e di questo siamo nutriti. Sembra un dato di fatto che si deve soffrire tanto dalla Chiesa quanto per la Chiesa, ma se si crede nella divinità di Cristo si deve aver caro il mondo nel momento stesso in cui si lotta per sopportarlo (I think that the Church is the only thing that is going to make the terrible world we are coming to endurable; the only thing that makes the Church endurable is that it is somehow the body of Christ and that on this we are fed. It seems to be a fact that you have to suffer as much from the Church as for it but if you believe in the divinity of Christ, you have to cherish the world at the same time that you struggle to endure it)».
Parole scritte nel 1955 da Flannery O’ Connor, presumibilmente la più grande scrittrice americana del XX secolo. Perfette per oggi.
07 venerdì Apr 2017
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inQuindi, se ho capito bene, con Trump alla Casa Bianca comandano gli stessi che avrebbero comandato se avesse vinto la Clinton. Come diceva Mark Twain, se votare contasse davvero qualcosa non ce lo lascerebbero fare.
05 mercoledì Apr 2017
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Molti, nella chiesa, oggi dicono che le parole cristiane non sono più comprensibili agli uomini e che perciò bisogna trovarne altre. Nella prima affermazione c’è del vero, e non da oggi: quasi trent’anni fa, tanto per dire, don Luigi Giussani, “di spirito profetico dotato”, dedicava un capitolo della terza parte del suo Percorso di introduzione al cristianesimo proprio alla «difficoltà odierna nel capire il significato delle parole cristiane».
È certamente vero che il cristiano, oggi più che mai, deve stare attento a come parla. Il cristiano vuole, anzi deve farsi capire: nessun “disdegnoso gusto”, in lui, nel non essere compreso; nessuna vanità spirituale del sentirsi diverso, emarginato perché non capito. Sta al mondo anche per gli altri, il tesoro che gli è stato affidato è per tutti. Come potrebbe non preoccuparsi della chiarezza e della comprensibilità del suo messaggio? Religio nostra ne ignorata damnetur, diceva il nostro Tertulliano.
Può darsi che, in questo sforzo, sia giusto in certi casi anche cercare parole nuove, diverse da quelle che si sono usate in passato. Ma bisogna che siano sempre parole cristiane.
Quello che non si può fare, perché è sempre sbagliato e pericoloso, è parlare pagano, perché i pagani ci capiscano. La chiesa dei primi secoli non lo ha fatto (e quando si è accorta che qualcuno rischiava di farlo lo ha richiamato e al limite lo ha espulso). Solo se si parla cristiano si pensa cristiano. E solo se si pensa cristiano si vive da cristiani.
Nei prossimi giorni vorrei variamente tornare su questo argomento.