Per leggere seriamente questo canto bisogna prendere sul serio la realtà dell’esilio. Per prendere sul serio l’esilio, bisogna che ci rendiamo conto di essere noi stessi degli esiliati. Finché crediamo di avere una patria e di “abitare a casa nostra”, possiamo sì sforzarci di immaginare, ma non saremo mai in grado di capire veramente la condizione dell’esule (e nemmeno quella del nomade, d’altro canto).
Cosa vuol dire che siamo tutti esuli? C’è un “esilio universale”, che riguarda tutta l’umanità e che consiste nel fatto che tutti noi siamo, in un certo senso, nel “posto sbagliato”. La cosmogonia / cosmologia dantesca, farlocca quanto si vuole, è genialissima nel renderlo plasticamente evidente: secondo lui in origine il nostro posto doveva essere un altro, agli antipodi rispetto a dove stiamo ora. Quando Satana, in conseguenza della sua ribellione a Dio, precipitò dal più alto dei cieli giù nell’«infima lacuna / dell’universo» (XXXIII, 22-23), le terre, che allora ricoprivano “l’altro emisfero” (cioè quello australe), ritraendosi davanti a lui si inabissarono e vennero a emergere nell’emisfero boreale, dove – secondo la geografia del tempo – si trova ora tutto il “mondo umano”. Come spiega benissimo Anna Maria Chiavacci Leonardi, con questa invenzione «Dante viene dunque a far dipendere dalla caduta del primo superbo non solo il formarsi dell’inferno e del purgatorio, ma l’emersione stessa della terra abitata nell’emisfero boreale. In un sol colpo l’universo si è strutturato diversamente dal suo inizio, in funzione della ribellione della creatura al Creatore, cioè della nascita del male». La “parte giusta” del mondo, in altre parole, è quella dove non abita nessuno (e nessuno può più abitare perché vi è solo l’oceano): «Lucifero cadendo ha rovesciato l’ordine dell’universo, provocando lo spostamento della terra emersa nell’emisfero boreale, l’emisfero dell’esilio e della colpa». Che l’uomo fosse in esilio, gli gnostici l’avevano detto forse per primi ma avevano perso il filo di quella intuizione, almanaccando di un mondo “fatto male” ad opera di un demiurgo non si sa se più malvagio o più inetto, da cui gli “spirituali” devono al più presto liberarsi. No, il mondo è fatto bene, da Dio; ed anche dopo la sovversione operata dal diavolo conserva imponenti vestigia della sua ordinata bellezza: siamo noi che ci siamo autoesiliati, facendoci cacciare dal paradiso terrestre, il luogo «fatto per proprio dell’umana spece» (I, v. 57), cioè l’unica terra rimasta dalla parte giusta, dove tutto è fatto a regola d’arte, per finire in questa regio dissimilitudinis, come direbbe Agostino, in cui quanto più siamo veri tanto più sentiamo che non è questa “casa nostra” (per fede, dice la Lettera agli Ebrei, i patriarchi abitavano sotto le tende, sapendo che la città dalle salde fondamenta era altrove).
Tutto ciò è molto bello, ma purtroppo quel che per Dante era storia, per noi è mito: pertanto a quella condizione di esilio ontologico, se così posso dire, che consegue al peccato originale e ci rende sempre un po’ stranieri dovunque ci troviamo, noi ci crediamo e non ci crediamo. Possiamo anche riconoscerla teoricamente, ma in pratica tendiamo sempre ad accomodarci, accendere il fuoco su cui far bollire la pentola con le cipolle d’Egitto, e sentirci tranquillamente a casa nostra nel mondo, se non interviene la storia a toglierci questa illusione. La storia individuale, se un giorno ci tocca, come è toccato a Dante, di dover lasciare «ogne cosa diletta / più caramente» (vv. 55-56) (quod Deus avertat!). Oppure la storia collettiva, come sta toccando a tutti noi italiani e, penso, tutti noi europei, in questi ultinmi tre anni. Probabilmente non ce ne siamo ancora resi pienamente conto, ma il “nostro mondo”, quello in cui, pur fra crescenti acciacchi e contrasti, eravamo abituati a vivere, semplicemente non c’è più: ci è stato sottratto, come sfilato da sotto i piedi e, presumibilmente, non ci verrà restituito mai più. Senza bisogno di andare fuori di casa (anzi, paradossalmente, standovi chiusi a doppia mandata per settimane e settimane, per ordini superiori), noi siamo stati mandati in esilio. Non siamo stati noi a dover fuggire dalla civitas, è la civitas che se n’è andata, è sparita, ha smesso di esistere. Ed ora noi non riconosciamo più le strade, le piazze, i luoghi della vita. Anche questo esilio storico, come quello metafisico dell’inizio, non dipende da qualche arcano accidente della natura, ma è opera dell’uomo. In questo senso è un auto-esilio. Il misterioso virus che ci ha colpiti all’inizio del 2020 (e che resterà sempre con noi) non era uno sbaglio di natura ma un’opera in cui l’ingegno umano ci ha messo del suo. Ormai lo sanno tutti, anche se lo si dice solo a mezza voce, perché si si gridasse forte bisognerebbe anche indicare i responsabili, e non si può fare. Quanto poi al modo in cui l’abbiamo combattuto, disintegrando in pochi mesi una parte rilevante della civiltà giuridica e politica che avevamo faticosamente messo insieme in secoli e secoli di storia, da che cosa è dipeso, se non dalla volontà dei nostri governanti? La guerra, infine; questa guerra assurda che sta finendo di distruggere quanto era rimasto in piedi della mura di “casa nostra”, di chi è l’opera?
Ecco, una volta presa coscienza, almeno un po’, del nostro misero stato di “senza patria”, possiamo accostarci in modo appropriato al canto XVII, in cui Dante affronta, per sé e per noi, la questione decisiva del senso di tale condizione.