Kichijiro è, a mio avviso, il personaggio più affascinante di Silence, il film di Scorsese sui martiri giapponesi del XVII secolo. È il cristiano che fa da guida ai due giovani gesuiti entrati di nascosto in Giappone, dove divampa la persecuzione, per andare alla ricerca di padre Ferreira, il loro antico maestro di cui si sono perse le tracce e che si dice abbia abiurato la fede. Anche Kichijiro lo ha fatto: qualche anno prima di incontrare i due gesuiti, costretto alla prova del fumi-e (calpestare un’immagine sacra per dimostrare di non essere cristiano) è scampato così, unico della sua famiglia, ad una morte atroce. Ha ceduto per paura, perché è un debole e, come dice lui, “che cosa può fare un uomo debole in tempi come questi?”. Però Kichijiro ha la fede, una fede incrollabile nella salvezza, che può sempre raggiungerlo, miserabile com’è, attraverso il sacramento: per questo chiede al padre Rodrigues di confessarlo. Poco dopo però lo tradisce, perché di nuovo non resiste alla tentazione, della paura ma anche del desiderio di una ricompensa. E ancora si pente e chiede di nuovo di confessarsi e non dispera, vile com’è. Va avanti così fino alla fine, quando lo vediamo (in una delle scene più belle e profonde di questo film che è tutto bello e profondo), ormai vecchio, chiedere un’ultima volta di poter confessare i suoi peccati allo stesso Rodrigues, che ormai è diventato un apostata anche lui. Vestito da giapponese, con un nome e una moglie giapponese che gli è stata imposta, è il triste prigioniero di una pantomima a cui si è lasciato costringere dai suoi persecutori: a fianco di un tristissimo Ferreira è impiegato a scovare e sequestrare, nel bagaglio dei pochi viaggiatori europei, qualsiasi segno cristiano si cerchi di importare di nascosto in Giappone. Eppure, proprio la richiesta che Kichijiro fa all’ex gesuita, di essere per lui, nonostante tutto, ancora una volta un prete che ascolta la sua confessione (cioè l’indispensabile strumento della grazia sacramentale), è forse l’occasione che lo salva, se è vero che nell’ultima scena del film vediamo il suo cadavere stringere, nascosta nel palmo della mano, una piccolissima croce, appartenuta a uno dei martiri cristiani che aveva conosciuto al suo arrivo.
C’è, nel film di Scorsese, una cosa geniale e audace, che non so se è stata sufficientemente notata: chi parla di misericordia, e più volte, sono solo i persecutori, quando, con tanta gentilezza e buon senso, invitano i cristiani a non perseverare in una resistenza irragionevole e disumana e li esortano ad avere, appunto, misericordia di sé e soprattutto degli altri, risparmiando loro sofferenze atroci e inutili. Ma a farla, la misericordia, sono i sacramenti: il battesimo, la confessione, l’eucarestia amministrati dai due padri gesuiti nel poco tempo in cui riescono a farlo. Non c’è misericordia nella saggezza degli inquisitori e non c’è misericordia neppure nella compassione dei due apostati.
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E i vescovi di Malta che cosa c’entrano? Niente. (Appunto). Però mi sono venuti in mente perché ho letto che l’altro giorno si sono riuniti in conferenza episcopale (fanno presto, perché sono solo in due) e hanno detto la loro su come applicare le indicazioni della Amoris Laetitia. Pare che il punto cruciale della dichiarazione sia il seguente:
«If, as a result of the process of discernment, undertaken with “humility, discretion and love for the Church and her teaching, in a sincere search for God’s will and a desire to make a more perfect response to it” (AL 300), a separated or divorced person who is living in a new relationship manages, with an informed and enlightened conscience, to acknowledge and believe that he or she are at peace with God, he or she cannot be precluded from participating in the sacraments of Reconciliation and the Eucharist (see AL, notes 336 and 351)».
Suona bene, e io non ho certo le competenze né l’autorità per criticare alcunché. Però c’è qualcosa che non capisco (e non per via dell’inglese). Dicono che se un divorziato risposato, avendo fatto tutto quel bel percorso di presa di coscienza, «manages to acknowledge and believe that he or she are at peace with God» (“arriva a riconoscere e credere di essere in pace con Dio”), non gli può essere impedito di partecipare al sacramento della riconciliazione: ma, a parte il fatto che nessuno mai ha pensato di impedirglielo, perché mai quel tale o quella tale dovrebbe andare a confessarsi? Se uno è sano, non ha bisogno del medico: chi sa o crede di essere in pace con Dio, perché dovrebbe far perdere tempo a un prete?
E un’altra cosa non mi è chiara: perché questo dovrebbe valere solo nel caso di un divorziato risposato? Non potrebbe funzionare anche in tutti gli altri casi?