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  • La chiesa e la crisi degli anni sessanta.

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~ Vanitas ludus omnis

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Archivi Mensili: febbraio 2021

Necrofili

28 domenica Feb 2021

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Questo l’ho visto ieri, facendo due passi. Qualcuno si è preso la briga di andare a cercare questi manifesti uno per uno (quello che ho fotografato si trova in un posto di scarsissimo passaggio, dove non l’avrà notato quasi nessuno) per coprirli nel modo che vedete. La cosa notevole è la forma del manifestino sovrapposto: praticamente un avviso funebre. Quel che c’è scritto non ha nessuna importanza, perché si tratta di vacuità prive di qualsiasi rapporto con i fatti (dove sono le strumentalizzazioni scorrette? dove si discute di libertà di scelta delle donne?). Conta invece lo stile grafico, che tradisce l’animo degli autori: sono necrofili. Se vedono la foto di un bambino, gli viene subito voglia, anzi l’impulso incoercibile di appiccicarvi sopra un manifesto funerario.

Che cos’è l’invidia. E cosa c’entra col sole. (#Dante, Purgatorio, canto XIII, vv. 7-21)

27 sabato Feb 2021

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#Dante, invidia, sguardo, sole, superbia

La migliore definizione di questo vizio è quella che ne dà san Tommaso nella Somma Teologica, riprendendo a sua volta una formula di san Giovanni Damasceno (De fide orthodoxa, II 14): «tristezza del bene altrui» (ST II – II, q.36 a 1 s.c.: «invidia est tristitia in alienis bonis»). È un peccato diffusissimo perché non ha bisogno dell’azione per compiersi: sta già nello sguardo, come un “male degli occhi e del cuore” che chiude al lieto e amoroso riconoscimento del bene, là dove il bene c’è. Per esempio: due sono amici per la pelle, sin dagli anni della scuola. Percorrono lo stesso cammino, anche dopo, andando d’amore e d’accordo. Poi uno dei due fa uno scatto in avanti: che ne so, una promozione, un premio, un concorso vinto, un salto di carriera … qualcosa per cui l’altro resta indietro. E questi non riesce a godere del bene toccato all’amico. Non ci riesce proprio; sì, le congratulazioni magari gliele fa, non impreca, non gli “getta il malocchio” … ma non è più come prima: sul cuore è sceso un velo pesante che offusca anche lo sguardo. Ecco, l’invidia è già insediata, nella sua pura essenza di tristezza del bene altrui.

Preziosa, questa definizione, anche perché ci aiuta a capire il nesso profondo e per così dire genetico che lega l’invidia alla superbia. L’invidioso, come è stato spesso notato, non è altro che un “superbo depresso” o frustrato. Il superbo si inorgoglisce del bene che possiede lui e nella sua narcisistica autarchia disprezza ogni altro bene: ad un Umberto Aldobrandeschi non importa nulla dell’eccellenza artistica di Giotto, che resta ai suoi occhi un vile plebeo, mentre per un Oderisi da Gubbio la nobiltà di sangue non ha alcun pregio di fronte al merito di un grande miniatore. Ma se qualcosa mette in crisi o addirittura annulla l’autosufficienza del superbo, eccolo diventare invidioso. Il bene altrui lo intristisce perché pensa che spetterebbe a lui. Ma su questo non ci fermiamo, perché quello di una matrice comune di tutti i peccati è un concetto fondamentale, che Dante ha ben chiaro e che sta alla base dell’intera configurazione del suo Purgatorio. Dovremo perciò tornarvi ad ogni cornice. Si dilettino pure, e giustamente, i moralisti con tutte le loro sottili distinzioni, le casistiche e le tassonomie dei peccati: noi, seguendo Dante, presteremo attenzione soprattutto alla verità fondamentale che ogni vizio, nella sua intima natura, altro non è che assenza di carità.

Non ci stupiamo, quindi, che l’ingresso nella seconda cornice sia simile a quello nella prima: anzitutto c’è un’impressione di vuoto. Nel canto X Dante aveva detto: «restammo in su un piano / solingo più che strade per diserti» (vv. 20-21), ma poi quel deserto “metafisico” si era presto riempito di opere d’arte («conobbi quella ripa intorno / […] / esser di marmo canddo e addorno / d’intagli sì, che non pur Policleto, / ma la natura lì avrebbe scorno», vv. 29.31-33), e abbiamo notato il senso di questa preminenza delle cose sulle persone nel contesto di un discorso sulla superbia. Qui la desertificazione è ancora più accentuata perché ci viene detto subito che non c’è nulla da vedere: «Ombra non li è né segno che si paia: / parsi la ripa e parsi la via schietta / col livido color de la petraia» (vv. 7-9, una terzina che vive poeticamente del contrasto tra l’ossessiva ripetizione del verbo parere e la negazione del suo contenuto, un po’ come nell’icona negata del Quadrato nero di Malevic, dove siamo invitati a contemplare l’assenza della luce). Ma il tratto comune alle due cornici è l’iniziale latitanza dei personaggi, qui rilevata con pratico buon senso da Virgilio: «Se qui per dimandar gente s’aspetta / […] io temo forse / che troppo avrà d’indugio nostra eletta» (vv. 10-12). Non sapendo in che direzione andare e non essendoci nessuno a cui chiederlo, la guida di Dante si affida al corso del sole, ma lo fa con una solennità così ostentata da rendere impossibile, anche al lettore più distratto, non cogliere il cruciale valore simbolico del suo gesto. «Poi fisamente al sole li occhi porse; fece del destro lato a muover centro, / e la sinistra parte di sé torse. // “O dolce lume a cui fidanza i’ entro / per lo novo cammin, tu ne conduci”, / dicea, “come condur si vuol quinc’entro. // Tu scaldi il mondo, tu sovr’esso luci; / s’altra ragione in contrario non ponta, / esser dien sempre li tuoi raggi duci”.» (vv. 13-21).

Il sole c’è per tutti. Nessuno può intestarselo, nessuno può insuperbirsene, nessuno invidiarlo a qualcun altro. Splende ogni giorno in cielo come sigillo della gratuità dell’essere. Quando Gesù ha voluto chiarire ai suoi che cos’è l’amore di cui egli parla si è riferito al Padre celesete «che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni» (Mt 5, 45). Sui malvagi noi non vorremmo che brillasse, il calore regalato a loro ci sembra sottratto a noi giusti. Ma Dio non ci bada: con una «divina indifferenza» che è in realtà amore gratuito, lo accende ogni mattina su tutti gli uomini, nessuno escluso. Un dono elargito indiscriminatamente, senza guardare a meriti e demeriti di alcuno. Vorremmo esserne invidiosi?

«I am AI». L’uomo è superato?

25 giovedì Feb 2021

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Intelligenza artificiale, relazione, transumanesimo

Un amico dall’America mi manda questo video:

Difficile non esserne impressionati. Difficile non provare un brivido di sconcerto: chi vi dice “Io” appare tanto più forte e migliore di noi da generare il timore che l‘uomo sia superato. Se c’è qualcuno che sia più in grado dell’uomo di dire “Io”, l’uomo è finito: questo siamo tentati di pensare.

In effetti, se non si esce dalla prigione della concezione moderna del soggetto, che è individualistica, è proprio così.

Ma è davvero questa l’essenza dell’umano? La parola essenziale, per dirsi uomini, non è piuttosto “Tu”? Tu che mi fai. Tu che mi fai essere. Tu, al quale ogni fibra del mio essere tende in ogni istante della mia esistenza.

È la concezione relazionale della persona umana, quella che germina sin dalla prima parola della Bibbia («In principio Dio creò … Bereshit barà Elohim») e informa tutto il pensiero cristiano. Quella che la modernità ha in gran parte ripudiato: non per nulla, le sue Confessioni, che sono quelle di Rousseau, cominciano con “Io”; le Confessioni cristiane, che sono quelle di Agostino, cominciano con “Tu” (Magnus es Domine). Quella che nel secolo scorso ha di nuovo fecondato la filosofia occidentale nelle potenti intuizioni di pensatori “biblici” come Martin Buber e Emmanuel Lévinas e che oggi ispira importanti correnti del pensiero teologico e sociologico: è di questi giorni la pubblicazione di una preziosa riflessione di Pierpaolo Donati e Giulio Maspero, Dopo la pandemia. Rigenerare la società con le relazioni, che mi permetto di consigliare per meglio attrezzarci a comprendere il momento presente.

In questo orizzonte, che è molto più ampio (e quindi vero) dell’altro, non è più così inquietante che AI (Artificial Intelligence) possa ormai dire “Io” con maggior fondamento (ed anche maggior iattanza, per quanto occultata da buone maniere) di quanto non osiamo fare noi, smarriti come siamo.

Io so dire “Tu”, lui no. E questo è ciò che conta.

Post scriptum. Per un’ironia che risponde a qualche superiore intelligenza delle cose, lo spot di cui sopra è firmato “NVIDIA”. La “I” ci viene spontaneo aggiungerla noi. L’idolatrato/odiato pronome di prima persona si va così ad aggiungere al marchio, componendo una parola-chiave su cui rifletteremo domani insieme con Dante.

Stasera parliamo di come (non) «Andare all’Inferno» e di come «uscirne» con #Dante.

23 martedì Feb 2021

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#Dante

Alle 21, su Youtube, qui: https://www.youtube.com/watch?v=fzVLOzv0n_s

Ne parlo con Gianfranco Lauretano, poeta e critico letterario, che ha letto il libro e ha delle domande da farmi. Se qualcuno della comitiva dantesca avesse voglia di intervenire fa ancora in tempo a dirmelo.

La cattedra di san Pietro (mi ripeto).

22 lunedì Feb 2021

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cattedra, chiesa cattolica, magistero, papa, San Pietro, scuola

Vado a leggere quello che avevo scritto due anni fa in questo giorno, in cui si celebra la più cattolica delle feste e, dato che la penso esattamente allo stesso modo, mi ripeto. Noi vecchi lo facciamo spesso (e finché ce ne accorgiamo va ancora bene).

«Oggi la chiesa celebra la festa della “Cattedra di san Pietro”. Festeggia la cattedra, chiunque la occupi. Si può anche dire: a prescindere da chi la occupa pro tempore. Festeggia e ringrazia Dio per avere il papa, non questo (o quel) papa.

La parola cattedra propriamente indica il trono, su cui il vescovo siede per impartire l’insegnamento ed esercitare il governo. A noi però fa venire in mente la scuola, e non è poi così sbagliato, giacché i padri della chiesa definivano la chiesa “una scuola in cui Cristo è il solo maestro” (Clemente Alessandrino).

Senza cattedra, non c’è scuola. Ma quelli che ci si siedono sono tutti supplenti. Qualcuno è meglio, qualcuno è peggio … ma come sa bene chi si intende un po’ di insegnamento, il vero problema è la continuità didattica».

«Pensa che questo dì mai non raggiorna!» (#Dante, Purgatorio, canto XII, vv. 73-136, ma soprattutto v. 84!)

19 venerdì Feb 2021

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#Dante, cammino, tempo

Dopo l’orribile “ritorno all’inferno” dei tredici quadri di superbia caduta che occupano, con i loro versi così belli e terribili, la prima parte del canto, la seconda è tutta movimento, tutta cammino lieto e ardimentoso, tutta leggerezza, canto, angelo e sorriso. Sì, sorriso; e addirittura sul volto di Virgilio, dove non l’avevamo visto mai: «a che guardando, il mio duca sorrise» (v. 136). La parola «cammino» spunta subito, al v. 74, riferita al sole, e di lì in poi è tutto un susseguirsi di espressioni di movimento: «colui che sempre innanzi atteso / andava» (vv. 76-77), detto di Virgilio; «Drizza la testa; / non è più tempo di gir sì sospeso» (vv. 77-78, che ci riportano al discorso sulla postura che abbiamo fatto l’altro giorno); «un angel che s’appresta / per venir verso noi […] a noi venia la creatura bella» (vv. 79-80.88) riferito all’angelo di guardia che, anche lui, non sta fermo ad aspettare i due pellegrini, ma gli va premurosamente incontro, come per agevolare e render più veloce il loro passaggio. Le sue parole, «Venite; qui son presso i gradi, / e agevolmente omai si sale» (vv. 92-93), annunciano una novità: finora salita voleva dire pena e fatica, ora invece si profila ai nostri occhi la piacevole facilità di un passo atletico, la naturalezza elastica con cui un corpo giovane, sano e allenato scala agilmente la montagna e sembra ignorare la forza di gravità, un po’ come se volasse. E infatti, subito dopo, si ricorda che noi saremmo nati per volare: «o genta umana, per volar sù nata, / perché a poco vento così cadi?» (vv. 95-96). Poi il testo continua a snocciolare verbi e sostantivi di moto, come «Menocci» (v. 97) e «l’andata» (v. 99); evoca per similitduine la visione delle «scalee» che rompono «l’ardita foga» del monte di San Miniato, una “bella salita” in cui la dinamica del movimento è come se fosse trasferita alla montagna stessa; infine culmina nella lieta sorpresa dell’inspiegabile leggerezza provata da Dante nel salire: «Maestro, dì, qual cosa greve / levata s’è da me, che nulla quasi / per me fatica, andando si riceve?» (vv. 118-120).

Tutto questo, nel contesto del viaggio purgatoriale di Dante, ha una sua precisa motivazione, che viene fornita da Virgilio nei vv. 121-126, ma a noi interessa sapere come si fa, nel “cammin di nostra vita”, a provare un amalogo senso di fervida alacrità che fa allegra la vita. Come si acquista un passo come questo, che rende lieta anche la fatica? Come si alleggerisce il peso della vita, che a volte sembra schiacciarci? Dante ci offre due indicazioni per trovare la risposta: la prima si lega appunto alla ragione per cui lui, in quella situazione, sperimenta per la prima volta un senso di leggerezza, ed è che si è appena liberato di un peccato, anzi del più pesante dei peccati. Virgilio infatti gli spiega che l’angelo della prima cornice gli ha cancellato la prima delle sette P che il guardiano della porta del Purgatorio gli aveva inciso sulla fronte. Dunque l’umiltà, intesa nel suo giusto senso di libertà dal fardello della propria autostima, è il primo fattore della letizia che qui stiamo gustando e che vorremo sentire anche nella nostra esistenza quotidiana. L’indicazione del secondo fattore direi che è racchiusa tutta in un solo verso, splendido come una gemma, che Virgilio pronuncia rivolgendosi a Dante per prepararlo all’incontro con l’angelo: «Di reverenza il viso e gli atti addorna, / sì che i diletti lo ‘nvïarci in suso; / pensa che questo dì mai non raggiorna» (vv. 82-84). Pensa che un giorno come questo, un giorno come oggi – e vale per ogni “oggi”, anche per il più banale e ripetitivo – è unico e irripetibile. Un giorno come questo non tornerà mai più. Ne verranno altri, migliori o peggiori, pochi o tanti non importa, ma non questo. Non questo; questo non raggiorna mai più (ma quanto è bello il verbo “raggiornare”, inventato da Dante e non più usato da nessuno!). Vivi dunque questo giorno con il senso della sua unicità. Pensa che questo dì mai non raggiorna e sii attento al suo evento.

Potessimo svegliarci così, ogni mattina!

Due note al discorso di Mario Draghi.

17 mercoledì Feb 2021

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La prima può sembrare una pedanteria da professore in pensione. Citando papa Francesco, il presidente del consiglio ha ripetuto che «le tragedie naturali sono la risposta della terra al nostro maltrattamento». Con il dovuto rispetto, la frase è così infelice che non sta in piedi. Posto che con “tragedie naturali” si intendano “eventi catastrofici che provocano la morte di molti uomini e gravi danni all’ambiente umano”, si potrebbe al massimo affermare che «alcune» (o, se proprio si vuole, «molte») di esse «sono causate dal nostro maltrattamento della natura». È evidente, infatti, che molte altre non lo sono affatto: terremoti, maremoti, ed eruzioni vulcaniche, ad esempio, non dipendono affatto dal comportamento umano. Ci sono poi eventi catastrofici provocati da cattive azioni dell’uomo, ma per definizione non sono tragedie naturali, anche se provocano gravi danni all’ambiente (Chernobyl, per esempio), ed eventi naturali le cui conseguenze sono rese più gravi dal comportamento umano; ma la frase citata da Draghi, così come è stata formulata, ha la stessa qualità del tweet con cui l’altro giorno un Roberto Saviano sosteneva che «le donne hanno pagato un prezzo altissimo durante il lockdown, perché le ha costrette a una vicinanza continua con i propri carnefici», ignorando la distinzione logica tra «le donne» e «alcune donne». Lasciamo stare poi l’animismo implicito nella metafora della natura che «risponde» al nostro maltrattamento … Con tante frasi che si potevano citare, proprio quella doveva intestarsi?

Il secondo rilievo è assai più sostanziale dal punto di vista politico. Dalle dichiarazioni programmatiche di Draghi si evince, mi pare, che in marteria di giustizia l’unico impegno del neonato governo sarà quello di «aumentare l’efficienza del sistema giudiziario civile», come l’Unione Europea richiede. È certamente un obiettivo importante, ma resto ugualmente molto colpito dalla rinuncia programmatica a fare alcunché per rimediare alla gravissima corruzione del sistema giudiziario nel suo insieme. In questo momento ci sono due fatti concomitanti che renderebbero forse possibile, e al tempo stesso assolutamente imprescindibile e urgente, un intervento politico sull’ordinamento della giustizia in Italia. Da una parte la sua profonda corruzione è stata resa palese nel suo vertice, cioè nel CSM, ed è sotto gli occhi di tutti, grazie al “caso Palamara”. Palamara sta alla magistratura come Buscetta stava alla mafia, nel senso che è un componente di livello apicale del sistema che, ad un certo punto, per ragioni sue, ha deciso di rivelare molte cose (non tutte) del funzionamento dell’organizzazione di cui faceva parte. Dunque non parla per sentito dire, di cose apprese da altri, ma riferisce fatti gravissimi di cui è stato testimone diretto o addirittura autore. Mentre però le rivelazioni di Buscetta ebbero un effetto, perché furono raccolte, verificate e utilizzate da Falcone per processare la mafia, ora non sta succedendo niente del genere. C’è un silenzio surreale e nessuno si muove. Dall’altra parte, il secondo fatto politicamente rilevante è che in questo momento la classe politica, se volesse, potrebbe essere unita nell’affrontare il problema perché per la prima volta dopo più di settanta anni c’è un governo che ha il sostegno di quasi tutte le forze presenti in parlamento. Mai come adesso ci sarebbero in teoria le condizioni per fare almeno qualche passo per riportare entro l’alveo della Costituzione la magistratura, nell’interesse di tutti. Una seria riforma del sistema di elezione del CSM sarebbe già tanto, perché ridurrebbe il potere delle correnti che attualmente fanno il bello e il cattivo tempo nella magistratura italiana. Tornare ad essere un paese in cui vige la divisione dei poteri e in cui i magistrati non fanno politica, vorrebbe dire aver fatto la madre di tutte le riforme. Diversamente, qualunque cosa questo o altri governi tentino di realizzare, resteremo sempre prigionieri di un sistema in cui – come dice Palamara, che sa il fatto suo – qualsiasi procuratore della repubblica abbastanza capace e spregiudicato, purché polticamente “coperto” da una corrente del CSM, può fare quello che vuole, senza limite alcuno, ed essere, di fatto, ben più potente di qualsiasi presidente del consiglio. Draghi compreso.

La caduta. Cartoline dall’inferno. (#Dante, Purgatorio, canto XII, vv. 16-72)

15 lunedì Feb 2021

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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#Dante, caduta, Camus, superbia

Una buona educazione (ed anche una buona didattica) parte di solito dal bene: dal positivo, non dal negativo; da quello che c’è, non da quello che manca; dal riconoscimento e dall’approvazione di ciò che è corretto, non dalla correzione dell’errore. Per questo è quanto mai significativo che nel “percorso formativo” di ciascuna cornice del Purgatorio sia prevista per Dante prima la contemplazione della virtù che li si va a riguadagnare e poi un’attenta ricognizione dell’esito del peccato da cui ci si libera. La meditazione sull’errore, come sa chiunque abbia fatto scuola, benché secondaria e non primaria nel processo educativo, non è tuttavia meno importante e, se viene fatta al momento giusto, può essere condotta in modo efficace senza impiegarvi troppo tempo, come Dante mirabilmente ci mostra in questi versi del XII canto. Dopo tutto quello che abbiamo imparato, sulla superbia e sull’amore che la vince, da Maria, Traiano e Davide, da Umberto Aldobrandeschi, Oderisi da Gubbio e Provenzan Salvani, ora bastano tredici istantanee, tredici scatti di eccezionale maestria, tredici cartoline dall’inferno ad illustrarci in modo definitivo le conseguenze del peccato di superbia.

Se fosse una mostra fotografica (e sarebbe di quelle eccezionali, che forse persino io andrei a vedere … Cartier-Bresson o Steve McCurry o giù di lì), bisognerebbe intitolarla La caduta, pensando, più che al film di Hirschbiegel sugli ultimi giorni di Hitler (che però c’entra), soprattutto all’omonimo libro di Camus, che è una spietata confessione della vita senza amore dell’unico personaggio, un egotista capace sì di smascherare tutte le finzioni della propria superbia e di “abbattersi dal trono” di un’esistenza intessuta di false virtù, ma non di esserne redento perché non c’è nessuno, nell’orizzonte del suo inferno, che possa perdonarlo. «Io, io, io, ecco il ritornello della mia cara vita, riecheggiante in tutto quel che dicevo. Non ho mai potuto parlare altro che vantandomi, soprattutto se lo facevo con quella discrezione fragorosa di cui possedevo il segreto. Vero è che sono sempre vissuto libero e potente. Solo, mi sentivo affrancato da tutti per l’ottima ragione che non riconoscevo nessuno come mio pari. […] Quando mi interessavo agli altri, era per mera condiscendenza, in piena libertà, tutto il merito ricadeva su di me: salivo di un gradino nell’amore che provavo per me stesso». Il superbo, una volta abbattuto, non diviene per questo un povero, un umile, un amico di Dio.

Per tredici volte Dante ci mette davanti alla stessa scena, la caduta del superbo, e lo fa con un’intensità e una concentrazione stilistica – intesa anche come rigidissima economia dei mezzi espressivi – che non hanno eguali. Prima di tutto c’è un elemento introduttivo di cui spesso i critici non colgono la pertinenza assoluta al tema che qui l’autore persegue. Per descrivere le immagini istoriate nel pavimento della cornice, infatti, Dante le paragona alle lastre tombali che si trovavano in gran copia nelle chiese del suo tempo: «Come, perché di lor memoria sia, / sovra i sepolti le tombe terragne / portan segnato quel ch’elli eran pria, // onde lì molte volte si ripiagne / per la puntura de la rimembranza, / che solo a’ pii dà de le calcagne» (vv. 16-21). Sembra Foscolo, ma a ben vedere è il suo contrario. Quelle «tombe terragne» non evocano alcuna “celeste corrispondenza di amorosi sensi”, ma sono piuttosto l’emblema di una sconfitta: la sconfitta universale di ogni superbia umana di fronte alla morte. «Portan segnato quel ch’elli eran pria»: le nobili dame, i forti cavalieri, gli austeri prelati e i dotti giureconsulti che vi sono effigiati non esistono più, e la «puntura de la rimembranza» non serve a farli rivivere, né a far vivere noi con loro. «Solo a’ pïi dà le calcagne», cioè solo per chi ha pietas, l’ubbidienza fidente nel Dio che ha vinto la morte, la caduta mortale della superbia può diventare il punto di partenza di un nuovo cammino (questo cammino, che stiamo facendo in Purgatorio). Calpestando idealmente quelle lapidi, che non sono di per se stesse pegno di alcuna sopravvivenza benché artisticamente scolpite e poste nel pavimento di una chiesa, noi con Dante dobbiamo ora subire la visione delle tredici cadute rappresentate nella cornice dei superbi, a cui egli ci fa assistere: una più impressionante dell’altra.

Mi limito a indicare i versi che più mi hanno sempre colpito (trafitto, dovrei dire). «Vedea colui che fu nobil creato / più ch’altra creatura, giù dal cielo / folgoreggiando scender, da l’un lato» (vv. 24-27). È la scena che vede Gesù in Lc 10,18, di cui questa terzina è una straordinaria parafrasi meditativa. Nell’eternità di Dio nulla è passato: la caduta dell’angelo che non volle amarlo non è avvenuta in illo tempore, in un passato così remoto che a noi uomini, immersi nel fluire della storia, può sembrare ormai svanito. È una caduta che continua, come un fulmine che non finisce mai, (folgoreggiando: ma quanto dura, questo gerundio di un verbo inusitato, forse inventato da Dante!). In opposizione a quella fulminea e però infinita caduta, ecco il gran peso immobile del corpo di Briareo «fitto dal telo / celestïal», «grave a la terra per lo mortal gelo» (vv. 28-30). Nessuno è mai stato così morto. Poi le «membra d’i Giganti sparte» (v.33) e Apollo, Minerva e Marte che le guardano (e neppure loro sembrano saper che fare ora). Sbalordimento che si dilata a dismisura nel fotogramma successivo: «Vedea Nembròt a piè del gran lavoro / quasi smarrito, e riguardar le genti / che ‘n Sennaàr con lui superbi fuoro» (vv. 34-36), ed è come il paesaggio di rovine di quello che doveva essere il Reich millenario, nella Berlino in macerie dell’aprile ’45 (ecco perché mi è venuto in mente il film, e l’Hitler di Bruno Ganz). Poi c’è Niobe, la moglie del re di Tebe (sempre a Tebe, si finisce: ricordate ciò che se ne è scritto qui, commentando il canto XXXII dell’Inferno?), che orgogliosa della propria fecondità si riteneva superiore alla dea Latona, che la punì facendo morire tutti i suoi figli: «O Nïobè, con che occhi dolenti / vedea io te segnata in su la strada, / tra sette e sette tuoi figliuoli spenti!» (vv. 37-39). Che «sette e sette» sia poeticamente molto più di quattordici, ciascun lettore lo capisce da sé; forse la “guida turistica” può servire per far notare un particolare di straordinaria finezza, che invece potrebbe sfuggire: «con che occhi dolenti» è un’anfibologia, cioè un’espressione che ha contemporaneamente due significati diversi, ugualmente probabili: «dolenti» sono gli occhi della madre straziata dalla vista dei figli morti, ma sono anche quelli di Dante che contempla quello strazio. Ed è bellissimo che sia così. Poi c’è il re Saul, suicida con la propria spada, in una terra «che poi non sentì pioggia né rugiada» (v.42). Poi una metamorfosi che, nella sua esasperata condensazione, è più terribile di quelle, un po’ barocche, della bolgia dei ladri, all’inferno (ma qui, appunto, siamo all’inferno): «O folle Aragne, sì vedea io te / già mezza ragna, trista in su li stracci / de l’opera che mal per te si fé» (vv. 43-45). «Mezza ragna» è formidabile, e «li stracci», per indicare i tessuti di alta moda di cui Aracne andava così superba da ritenersi superiore a Minerva, non è da meno. Poi ci viene mostrato Roboamo, il figlio di Salomone, decaduto da tiranno crudele a fuggiasco «pien di spavento», che a bordo di un carro cerca di scampare alla furia dei sudditi in rivolta (e quel carro a noi sembra il Suv con cui Gheddafi fuggiva quando fu preso e linciato dai suoi). Non ne possiamo più, ma ce ne sono ancora: Erifile, che per la brama superba di possedere il gioiello di una dea tradì il marito e fu uccisa per vendetta dal figlio, il quale così le «fé caro / parer lo sventurato addornamento» (vv.50-51); il re Sennacherib che viene ucciso dai figli; Tamiri regina degli Sciti che si vendica del re dei Persiani, che le aveva ucciso il figlio, mozzandogli la testa e gettandola in un otre pieno di sangue con queste feroci parole: «Sangue sitisti, e io di sangue t’empio» (v. 57); la rotta degli Assiri «poi che fu morto Oloferne, / e anche le reliquie del martiro» (vv. 59-60). Infine, quasi ad epitome di tutta la storia umana, fatta di superbia e di morte, ecco Troia: «Vedeva Troia in cenere e in caverne; / o Ilïón, come te basso e vile / mostrava il segno che lì si discerne!» (vv. 61-63).

Siamo senza parole, come quando le scolaresche vanno ad Auschwitz. La conclusione di Dante, rivolta direttamente a noi, è come uno schiaffo: «Or superbite, e via col viso altero, / figliuoli d’Eva, e non chinate il volto / sì che veggiate il vostro mal sentero!» (vv. 70-72).

Questioni di postura: guardare in alto, guardare in basso. (#Dante, Purgatorio, canto XII, vv. 1-15)

13 sabato Feb 2021

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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#Dante, corpo, educazione, postura, sguardo

In questa nostra lettura della Commedia cerchiamo di fare attenzione al corpo di Dante, ai suoi gesti e movimenti. Sotto questo aspetto, la prima parte del XII canto ci dà qualcosa su cui riflettere. All’inizio c’è quel suo camminare curvo, che sembra mimare la faticosa andatura di Oderisi piegato sotto il macigno della sua superbia da purgare: «Di pari, come buoi che vanno a giogo, / m’andava io con quell’anima carca, / fin che ‘l sofferse il dolce pedagogo» (vv. 1-3). Ci ricorda un po’ la posa assunta con Brunetto Latini, nel XV dell’Inferno, che là veniva spiegata come una sorta di istintivo moto di reverenza per compensare la posizione di superiorità rispetto all’antico maestro in cui Dante si era venuto a trovare, in modo per lui imbarazzante: «Io non osava scender de la strada / per andar par di lui; ma ‘l capo chino / tenea com’uom che reverente vada» (vv. 43-45). Qui si sottolinea maggiormente, mi pare, la sua volontà di condividere, sia pure solo simbolicamente, la penitenza dell’amico. Attitudine quanto mai benintenzionata, diremmo noi, che però è solo temporaneamente tollerata dal pedagogo Virgilio, il quale ad un certo punto richiama il discepolo al suo dovere, che è un altro, non quello di far compagnia ai penitenti ma procedere con la massima solerzia verso la meta: «Lascia lui e varca; / ché qui è buono con l’ali e coi remi, / quantunque può, ciascun pinger sua barca» (vv. 4-6). La schiena di Dante immediatamente si raddrizza e la postura diviene quella del camminatore: «dritto sì come andar vuolsi rife’mi / con la persona» (vv. 7-8), anche se i pensieri rimangono «e chinati e scemi» (v. 9). Le battute successive evocano una marcia alacre e senza sforzo: «Io m’era mosso, e seguia volontieri / del mio maestro i passi, e amendue / già mostravam com’eravam leggeri» (vv. 10-12), ma, a sorpresa, essa non si accompagna, come ci sembrerebbe naturale e quasi scontato, all’apertura dello sguardo del viandante che, mentre sale su per la montagna si leva a contemplare l’orizzonte e il cielo, bensì al comando, ricevuto da Virgilio, di guardare a terra: «Volgi li occhi in giùe: / buon ti sarà, per tranquillar la via, / veder lo letto delle piante tue» (vv. 13-15).

I Padri della chiesa facevano gran conto della postura eretta che, fra tutti gli animali, caratterizza in modo peculiare la nostra specie e vi riconoscevano un segno, strutturalmente inscritto nella forma stessa del corpo, della fondamentale vocazione dell’uomo a trascendere l’orizzonte terrestre per aspirare al cielo. “Levare lo sguardo” sembra dunque essere la prima istanza di ogni autentico movimento di crescita dell’uomo verso il proprio destino, e “guardare a terra”, al contrario, la prima diserzione dalla chiamata divina – come d’altronde dirà splendidamente Dante stesso, alla fine del canto XIV: «Chiamavi ‘l cielo e ‘ntorno vi si gira, / mostrandovi le sue bellezze eterne, / e l’occhio vostro pur a terra mira» (vv. 148-150). Qui però apprendiamo che ci sono anche delle volte, nella vita, in cui bisogna “guardare in basso”. Così come nel canto IX dell’Inferno avevamo capito che ci sono cose che non bisogna assolutamente guardare (vv. 55-60) ed altre a cui invece è necessario «drizza[re] il nerbo / del viso» (vv. 72-73) per non perdere neanche un particolare di ciò che si presenta ai nostri occhi.

Da che cosa dipende? Dalla realtà. Che è mutevole, varia, imprevedibile, sempre superiore all’idea che ne abbiamo e che non si lascia dominare dai nostri schemi. Ecco perché occorre un maestro, qualcuno che ci dica: guarda qui, guarda là; alza la testa, ora invece abbassala; ora chiudi gli occhi, ora spalancali e sta bene attento … L’educazione, in gran parte, consiste in questo.

Domani vediamo anche noi che cosa ha da vedere,Dante, nel «letto de le piante sue».

Appuntamenti danteschi.

10 mercoledì Feb 2021

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

≈ 7 commenti

Questa sera, una lettura del canto VII del Purgatorio. Alle 21, sul canale Youtube del Centro culturale Campo della Stella: https://www.youtube.com/channel/UCglb9daw8Z4qvAO9K0FPdDQ.

Venerdì 19 febbraio, alle 21,15, una presentazione del libro Andare all’Inferno (e uscirne), a cura dell’Associazione culturale Eliot, di Parma. Per ulteriori informazioni, si può andare sulla pagina facebook, qui: https://www.facebook.com/AssociazioneCulturaleEliot/photos/a.1519276374920523/1766439576870867/.

Martedì 23 febbraio, alle 21, sempre su Youtube, un’altra presentazione del libro con il Campo della Stella: dovrebbe avere la forma di una conversazione tra me e Gianfranco Lauretano, che è poeta e critico letterario e, a questo proposito, mi è venuto in mente che forse sarebbe bello se qualcuno dei membri della comitiva dantesca che ha preso parte al viaggio all’Inferno, intervenisse per dire la sua. Chi ne avesse voglia, mi contatti sul blog o per mail e ci mettiamo d’accordo per come fare. Comunque di questo appuntamento darò un ulteriore avviso.

Anche troppa roba, si dirà, e tendenzialmente sarei d’accordo. L’abbiamo già osservato, di tutti questi collegamenti online cominciamo a non poterne più, però è anche vero che ogni rovescio ha la sua medaglia. La comodità di non dover uscire di casa (d’inverno specialmente!) e di poter stare spaparanzati sul divano, in vestaglia e ciabatte, eventualmente sgranocchiando noccioline mentre l’altro si arrabatta a leggere e spiegare, e il vantaggio di poter chiudere in qualsiasi momento appena ci si stufa … beh, tutto questo non ha prezzo (anche se Dante, probabilmente, lo stigmatizzerebbe come «bassa voglia»).

Infine, non un appuntamento ma un’occasione: l’editore che ha pubblicato il mio libro, fa ora un’offerta dantesca che credo possa interessare qualcuno degli avventori del blog: https://www.medusa-mcedizioni.com/un-triangolo-per-dante/?fbclid=IwAR3-KZMXRRO2AaS2SqE2ZZXq3Ez-hwUWKoDgl2mp6BlNV_Zs4kiZB5nBBPs Mi pare un “tre per due” da prendere in considerazione.

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