Una buona educazione (ed anche una buona didattica) parte di solito dal bene: dal positivo, non dal negativo; da quello che c’è, non da quello che manca; dal riconoscimento e dall’approvazione di ciò che è corretto, non dalla correzione dell’errore. Per questo è quanto mai significativo che nel “percorso formativo” di ciascuna cornice del Purgatorio sia prevista per Dante prima la contemplazione della virtù che li si va a riguadagnare e poi un’attenta ricognizione dell’esito del peccato da cui ci si libera. La meditazione sull’errore, come sa chiunque abbia fatto scuola, benché secondaria e non primaria nel processo educativo, non è tuttavia meno importante e, se viene fatta al momento giusto, può essere condotta in modo efficace senza impiegarvi troppo tempo, come Dante mirabilmente ci mostra in questi versi del XII canto. Dopo tutto quello che abbiamo imparato, sulla superbia e sull’amore che la vince, da Maria, Traiano e Davide, da Umberto Aldobrandeschi, Oderisi da Gubbio e Provenzan Salvani, ora bastano tredici istantanee, tredici scatti di eccezionale maestria, tredici cartoline dall’inferno ad illustrarci in modo definitivo le conseguenze del peccato di superbia.
Se fosse una mostra fotografica (e sarebbe di quelle eccezionali, che forse persino io andrei a vedere … Cartier-Bresson o Steve McCurry o giù di lì), bisognerebbe intitolarla La caduta, pensando, più che al film di Hirschbiegel sugli ultimi giorni di Hitler (che però c’entra), soprattutto all’omonimo libro di Camus, che è una spietata confessione della vita senza amore dell’unico personaggio, un egotista capace sì di smascherare tutte le finzioni della propria superbia e di “abbattersi dal trono” di un’esistenza intessuta di false virtù, ma non di esserne redento perché non c’è nessuno, nell’orizzonte del suo inferno, che possa perdonarlo. «Io, io, io, ecco il ritornello della mia cara vita, riecheggiante in tutto quel che dicevo. Non ho mai potuto parlare altro che vantandomi, soprattutto se lo facevo con quella discrezione fragorosa di cui possedevo il segreto. Vero è che sono sempre vissuto libero e potente. Solo, mi sentivo affrancato da tutti per l’ottima ragione che non riconoscevo nessuno come mio pari. […] Quando mi interessavo agli altri, era per mera condiscendenza, in piena libertà, tutto il merito ricadeva su di me: salivo di un gradino nell’amore che provavo per me stesso». Il superbo, una volta abbattuto, non diviene per questo un povero, un umile, un amico di Dio.
Per tredici volte Dante ci mette davanti alla stessa scena, la caduta del superbo, e lo fa con un’intensità e una concentrazione stilistica – intesa anche come rigidissima economia dei mezzi espressivi – che non hanno eguali. Prima di tutto c’è un elemento introduttivo di cui spesso i critici non colgono la pertinenza assoluta al tema che qui l’autore persegue. Per descrivere le immagini istoriate nel pavimento della cornice, infatti, Dante le paragona alle lastre tombali che si trovavano in gran copia nelle chiese del suo tempo: «Come, perché di lor memoria sia, / sovra i sepolti le tombe terragne / portan segnato quel ch’elli eran pria, // onde lì molte volte si ripiagne / per la puntura de la rimembranza, / che solo a’ pii dà de le calcagne» (vv. 16-21). Sembra Foscolo, ma a ben vedere è il suo contrario. Quelle «tombe terragne» non evocano alcuna “celeste corrispondenza di amorosi sensi”, ma sono piuttosto l’emblema di una sconfitta: la sconfitta universale di ogni superbia umana di fronte alla morte. «Portan segnato quel ch’elli eran pria»: le nobili dame, i forti cavalieri, gli austeri prelati e i dotti giureconsulti che vi sono effigiati non esistono più, e la «puntura de la rimembranza» non serve a farli rivivere, né a far vivere noi con loro. «Solo a’ pïi dà le calcagne», cioè solo per chi ha pietas, l’ubbidienza fidente nel Dio che ha vinto la morte, la caduta mortale della superbia può diventare il punto di partenza di un nuovo cammino (questo cammino, che stiamo facendo in Purgatorio). Calpestando idealmente quelle lapidi, che non sono di per se stesse pegno di alcuna sopravvivenza benché artisticamente scolpite e poste nel pavimento di una chiesa, noi con Dante dobbiamo ora subire la visione delle tredici cadute rappresentate nella cornice dei superbi, a cui egli ci fa assistere: una più impressionante dell’altra.
Mi limito a indicare i versi che più mi hanno sempre colpito (trafitto, dovrei dire). «Vedea colui che fu nobil creato / più ch’altra creatura, giù dal cielo / folgoreggiando scender, da l’un lato» (vv. 24-27). È la scena che vede Gesù in Lc 10,18, di cui questa terzina è una straordinaria parafrasi meditativa. Nell’eternità di Dio nulla è passato: la caduta dell’angelo che non volle amarlo non è avvenuta in illo tempore, in un passato così remoto che a noi uomini, immersi nel fluire della storia, può sembrare ormai svanito. È una caduta che continua, come un fulmine che non finisce mai, (folgoreggiando: ma quanto dura, questo gerundio di un verbo inusitato, forse inventato da Dante!). In opposizione a quella fulminea e però infinita caduta, ecco il gran peso immobile del corpo di Briareo «fitto dal telo / celestïal», «grave a la terra per lo mortal gelo» (vv. 28-30). Nessuno è mai stato così morto. Poi le «membra d’i Giganti sparte» (v.33) e Apollo, Minerva e Marte che le guardano (e neppure loro sembrano saper che fare ora). Sbalordimento che si dilata a dismisura nel fotogramma successivo: «Vedea Nembròt a piè del gran lavoro / quasi smarrito, e riguardar le genti / che ‘n Sennaàr con lui superbi fuoro» (vv. 34-36), ed è come il paesaggio di rovine di quello che doveva essere il Reich millenario, nella Berlino in macerie dell’aprile ’45 (ecco perché mi è venuto in mente il film, e l’Hitler di Bruno Ganz). Poi c’è Niobe, la moglie del re di Tebe (sempre a Tebe, si finisce: ricordate ciò che se ne è scritto qui, commentando il canto XXXII dell’Inferno?), che orgogliosa della propria fecondità si riteneva superiore alla dea Latona, che la punì facendo morire tutti i suoi figli: «O Nïobè, con che occhi dolenti / vedea io te segnata in su la strada, / tra sette e sette tuoi figliuoli spenti!» (vv. 37-39). Che «sette e sette» sia poeticamente molto più di quattordici, ciascun lettore lo capisce da sé; forse la “guida turistica” può servire per far notare un particolare di straordinaria finezza, che invece potrebbe sfuggire: «con che occhi dolenti» è un’anfibologia, cioè un’espressione che ha contemporaneamente due significati diversi, ugualmente probabili: «dolenti» sono gli occhi della madre straziata dalla vista dei figli morti, ma sono anche quelli di Dante che contempla quello strazio. Ed è bellissimo che sia così. Poi c’è il re Saul, suicida con la propria spada, in una terra «che poi non sentì pioggia né rugiada» (v.42). Poi una metamorfosi che, nella sua esasperata condensazione, è più terribile di quelle, un po’ barocche, della bolgia dei ladri, all’inferno (ma qui, appunto, siamo all’inferno): «O folle Aragne, sì vedea io te / già mezza ragna, trista in su li stracci / de l’opera che mal per te si fé» (vv. 43-45). «Mezza ragna» è formidabile, e «li stracci», per indicare i tessuti di alta moda di cui Aracne andava così superba da ritenersi superiore a Minerva, non è da meno. Poi ci viene mostrato Roboamo, il figlio di Salomone, decaduto da tiranno crudele a fuggiasco «pien di spavento», che a bordo di un carro cerca di scampare alla furia dei sudditi in rivolta (e quel carro a noi sembra il Suv con cui Gheddafi fuggiva quando fu preso e linciato dai suoi). Non ne possiamo più, ma ce ne sono ancora: Erifile, che per la brama superba di possedere il gioiello di una dea tradì il marito e fu uccisa per vendetta dal figlio, il quale così le «fé caro / parer lo sventurato addornamento» (vv.50-51); il re Sennacherib che viene ucciso dai figli; Tamiri regina degli Sciti che si vendica del re dei Persiani, che le aveva ucciso il figlio, mozzandogli la testa e gettandola in un otre pieno di sangue con queste feroci parole: «Sangue sitisti, e io di sangue t’empio» (v. 57); la rotta degli Assiri «poi che fu morto Oloferne, / e anche le reliquie del martiro» (vv. 59-60). Infine, quasi ad epitome di tutta la storia umana, fatta di superbia e di morte, ecco Troia: «Vedeva Troia in cenere e in caverne; / o Ilïón, come te basso e vile / mostrava il segno che lì si discerne!» (vv. 61-63).
Siamo senza parole, come quando le scolaresche vanno ad Auschwitz. La conclusione di Dante, rivolta direttamente a noi, è come uno schiaffo: «Or superbite, e via col viso altero, / figliuoli d’Eva, e non chinate il volto / sì che veggiate il vostro mal sentero!» (vv. 70-72).