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Altro che “la 194 non si tocca!”. Cosa dice veramente il testo (e non il sottotesto) della legge?

31 lunedì Ott 2022

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aborto, diritti, legge

Proseguo la lettura della legge 194 / 1978, di cui abbiamo esaminato il primo articolo nel post dell’altro giorno (qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2022/10/29/il-diritto-allaborto-non-esiste-lo-dice-anche-la-194/).

Articolo 2

I consultori familiari istituiti dalla legge 29 luglio 1975, n. 405, fermo restando quanto stabilito dalla stessa legge, assistono la donna in stato di gravidanza:

[…]

d) contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza. [Commento: poiché, come abbiamo detto, la ratio della legge è, ufficialmente, tutelare socialmente la maternità e combattere l’aborto clandestino facendo in modo che gli aborti che non si possono evitare vengano inseriti in un contesto pubblico che li trasforma in “interruzioni volontarie della gravidanza”, anzi in IVG, nell’implicito e indebito assunto che ciò ne cambi la natura, il dovere dei consultori familiari di impegnarsi attivamente per superare le cause che potrebbero indurre ad abortire ne consegue direttamente. Non è facoltativo. Se non lo fanno, violano la legge. Altro che “la legge 194 non si tocca!”].

I consultori sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita. [Commento: questa invece è una facoltà, non un obbligo, ma è esplicitamente prevista dalla legge ed è anche esplicitamente legata ad una significativa esemplificazione di intervento sociale a favore della vita (aiutare la maternità difficile dopo la nascita). Quindi l’attiva collaborazione di associazioni e movimenti pro-vita con le istituzioni pubbliche per contribuire a superare la cause che inducono all’aborto è non solo pienamente legittima, ma in qualche modo auspicata dalla legge. Tutte le proteste, gli scandali, le iniziative di opposizione a volte anche violenta a tali forme di collaborazione delle organizzazione pro-vita, a cui abbiamo assistito più volte negli ultimi quarant’anni sono contrarie allo spirito e alla lettera della legge. Altro che “la legge 194 non si tocca!”]

La somministrazione su prescrizione medica, nelle strutture sanitarie e nei consultori, dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte in ordine alla procreazione responsabile è consentita anche ai minori. [Commento: chiunque vede che l’espressione «le finalità liberamente scelte in ordine alla procreazione responsabile» è solo un fumoso giro di parole che sta per «l’interruzione volontaria della gravidanza». In un italiano onesto, la formulazione dovrebbe essere: «È consentito somministrare su prescrizione medica […] i mezzi necessari per interrompere la gravidanza anche ai minori». La disonestà del linguaggio è sempre lo specchio di una cattiva coscienza. Qui emerge quello che chiamo il “sottotesto” della 194, cioè quel “non detto” che condiziona e in parte stravolge il significato del testo e la rende una cattiva legge. Si ricordi però che è sempre e solo il testo di una legge quello che giuridicamente conta: sempre, anche quando tra le sue righe trapela l’ipocrisia del legislatore. È un principio generale del diritto, infatti, che «nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore» (art. 12 C.C.). In questo caso, nascondendola sotto la cortina fumogena della perifrasi in burocratese, il legislatore ha inserito un’eccezione al principio generale della incapacità di agire della minore, che può – nelle forme che sono poi specificate all’articolo 12 della legge – abortire anche senza il consenso dei genitori, necessario invece per poter fare un’infinità di cose di assai minore rilevanza].

Articolo 4

Per l’interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico istituito ai sensi dell’articolo 2, lettera a), della legge 29 luglio 1975 numero 405, o a una struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua fiducia. [Commento: un «serio pericolo» è un serio pericolo. Ripetete con me: «serio pericolo». Qualunque cosa voglia dire, non è nulla di meno di un serio pericolo. Questo dice il testo. Il sottotesto, invece, lo conosciamo bene, perché è quello che ha dispiegato i suoi effetti in questi quaranta e più anni, ed è più o meno questo: «vabbé, son cose che si dicono, e magari si scrivono anche, poi in realtà si fa un po’ come si vuole». Però la legge, applicata secondo il senso «fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse», dice «serio pericolo». Ogni aborto fatto al di fuori di questa condizione (che, come vedremo tra un attimo, va accertata) è contro la legge. Altro che “la legge 194 non si tocca!”]

Articolo 5

Il consultorio e la struttura socio-sanitaria, oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall’incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante, di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto. [Commento: qui viene ribadito, in modo più preciso articolato e assolutamente cogente, quanto era stato accennato già all’art. 2. Tutta l’impalcatura della 194, ufficialmente, si regge su questo: l’inserimento della donna alle prese con una gravidanza problematica dentro un percorso pubblico viene considerato decisivo per consentire un diverso trattamento dell’interruzione volontaria proprio e solo perché quel percorso pubblico è tutto finalizzato a tutelare la maternità e prevenire il più possibile l’aborto. Se cade questo, perché è solo una finzione, il sottotesto travolge il testo e la 194 diventa una legge abortista, mentre pretende di non esserlo. Altro che “la legge 194 non si tocca!”]

Quando il medico del consultorio o della struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia, riscontra l’esistenza di condizioni tali da rendere urgente l’intervento, rilascia immediatamente alla donna un certificato attestante l’urgenza.

Con tale certificato la donna stessa può presentarsi ad una delle sedi autorizzate a praticare la interruzione della gravidanza.

Se non viene riscontrato il caso di urgenza, al termine dell’incontro il medico del consultorio o della struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia, di fronte alla richiesta della donna di interrompere la gravidanza sulla base delle circostanze di cui all’articolo 4, le rilascia copia di un documento, firmato anche dalla donna, attestante lo stato di gravidanza e l’avvenuta richiesta, e la invita a soprassedere per sette giorni. Trascorsi i sette giorni, la donna può presentarsi, per ottenere la interruzione della gravidanza, sulla base del documento rilasciatole ai sensi del presente comma, presso una delle sedi autorizzate. [Commento: il testo dice che la struttura pubblica, di fronte ad una richiesta di abortire, anche se fatta in presenza di quel «serio pericolo» di cui sopra, non deve avere un atteggiamento di promozione dell’aborto, ma al contrario deve fare del suo meglio per evitarlo, rinviando la decisione. Il sottotesto invece dice: “è una pura formalità, ripassi tra sette giorni e il certificato è pronto”]

Articolo 6

L’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata:

a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; [Commento: qui non c’è niente da dire. È vero che non c’è amore più grande che dare la vita per un altro, ma questa verità evangelica non può diventare una legge dello stato. Quando sui piatti della bilancia ci sono due vite, anche se per una delle due la morte è una certezza e per l’altra è un grave pericolo, la legge degli uomini non può obbligare nessuno all’eroismo di rischiare la propria vita per darla a un altro].

b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. [Commento: qui invece ci sarebbe moltissimo da dire, ma non possiamo farlo ora. Mi limito a questo: la scienza avrebbe un miliardo di cose impressionanti da dirci, circa lo sviluppo e la complessità dell’essere umano che comincia la sua vita dal concempimento fino ai 90 giorni, e sarebbero cose molto disturbanti per la vulgata abortista, ragion per cui non sta bene dirle pubblicamente. Ma che un feto di quattro, cinque o sei mesi sia a tutti gli effetti un bambino, beh questo è evidente a tutti. Perciò su un piatto della bilancia abbiamo la vita di un bambino, sull’altro un grave pericolo (neanche una certezza), non per la vita ma per la salute della madre. Sono situazioni comunque terribili, nessuno può permettersi di parlarne a cuor leggero dall’esterno; ma non si può neanche sfuggire alla tragica evidenza che, se si sancisce che il diritto alla salute di un essere umano prevale sul diritto alla vita di un altro essere umano, si stabilisce che il secondo è “meno umano” del primo. Non c’è niente da fare: Menschen e Untermenschen. La 194, naturalmente, evita di affrontare questo problema, che non saprebbe risolvere, ma non può esimersi, all’ultimo comma del successivo articolo 7, di precrivere che «Quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) dell’articolo 6 e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto». [Commento: con gli enormi progressi compiuti dalla medicina perinatale in questi quaranta anni, le possibilità di vita autonoma del feto sono aumentate moltissimo, quindi – stando al testo della 194 – i casi in cui dopo i novanta giorni si può procedere all’aborto al di fuori del pericolo di vita per la madre, si sono drasticamente ridotti. O dovrebbero …].

Articolo 19

Chiunque cagiona l’interruzione volontaria della gravidanza senza l’osservanza delle modalità indicate negli articoli 5 o 8, è punito con la reclusione sino a tre anni.

La donna è punita con la multa fino a lire centomila.

Se l’interruzione volontaria della gravidanza avviene senza l’accertamento medico dei casi previsti dalle lettere a) e b) dell’articolo 6 o comunque senza l’osservanza delle modalità previste dall’articolo 7, chi la cagiona è punito con la reclusione da uno a quattro anni.

La donna è punita con la reclusione sino a sei mesi.

Quando l’interruzione volontaria della gravidanza avviene su donna minore degli anni diciotto, o interdetta, fuori dei casi o senza l’osservanza delle modalità previste dagli articoli 12 e 13, chi la cagiona è punito con le pene rispettivamente previste dai commi precedenti aumentate fino alla metà. La donna non è punibile. [Commento: questo articolo, che non viene mai ricordato e ad una lettura superficiale potrebbe sembrare poco importante nell’impianto complessivo della legge, è invece fondamentale per una sua corretta comprensione. Esso ci ricorda che per il nostro ordinamento giuridico l’aborto, al di fuori del perimetro tracciato dalla legge 194, resta illecito. La 194, perlomeno nel suo testo (non nel sottotesto che dice il contrario), delinea una eccezione ad un principio generale che resta valido: si può abortire solo nelle circostanze, nei modi e nei luoghi che prescrive la legge: le stesse azioni, compiute al di fuori di quel determinato percorso istituzionale, sono considerati dei reati che la legge punisce. Poco importa che la sanzione applicata alla donna sia meramente simbolica: basta la sua esistenza, a certificare, al di là di ogni dubbio, che nella Repubblica Italiana non esiste alcun diritto all’aborto].

Quando il ministro Roccella, l’odiata ultracattolica, dice di volersi impegnare perché sia garantito alle donne il diritto di non abortire, non fa altro che sforzarsi di applicare, una buona volta, la legge 194 nel suo testo, sbarazzandosi del sottotesto. Altro che “la legge 194 non si tocca!”. L’hanno “toccata” sin dall’inizio, interpretandola come forse il legislatore (di nascosto) e certamente gli abortisti apertamente volevano, ma non secondo il suo testo, né secondo l’intenzione dichiarata dal parlamento che la votò. È forse giunto il momento di applicare bene quella legge, che nella sua ipocrisia non è certo una buona legge, ma non è così cattiva come l’hanno fatta diventare.

Il “diritto all’aborto” non esiste: lo dice anche la 194.

29 sabato Ott 2022

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aborto, diritti

Vedo che oggi tutti parlano tranquillamente di “diritto all’aborto”, dando per scontato che esista, sia che lo facciano per accusare il nuovo governo di minacciarlo, sia che si sbraccino per assicurare, al contrario, che nessuno lo toccherà. In realtà, tale presunto diritto in Italia non è sancito da alcuna alcuna legge, neanche dalla legge 194 del 1978, quella che “la legge sull’aborto non si tocca!”. Anche senza toccarla, basta leggerla. E ragionare, se ancora si riesce a farlo.

Quando l’ordinamento giuridico riconosce e garantisce un diritto, lo fa sempre a protezione e promozione di un bene, mai di un male. Esiste il diritto alla vita, ma non esiste il diritto alla morte. La morte è l’esito di un processo naturale o di una forza maggiore oppure, quando è voluta, è il risultato di una azione che l’uomo in certi casi ha la possibilità di compiere, ma non è mai un diritto. Anche i più sfegatati sostenitori della legalizzazione dell’eutanasia, del suicidio assistito o perfino dell’omicidio del consenziente, sostengono le loro posizioni in nome di un diritto alla libertà di scelta, non di un diritto alla morte. (Non entro qui nel merito se abbiano ragione o, come io credo, abbiano torto: è un altro discorso che non possiamo fare ora). Allo stesso modo, esiste il cosiddetto diritto alla salute (che sarebbe più appropriato chiamare diritto alla cura), perché la salute è un bene; non esiste il diritto alla malattia. Il diritto (per altro sottoposto a limiti) di rifiutare le cure, sancito dall’art. 32 comma 2 Cost., è un diritto alla libertà di determinazione sul corpo, non un diritto alla malattia. Esiste il diritto all’istruzione (che ex art. 34 comma 2 Cost. si configura come diritto-dovere, stante l’obbligatorietà dell’istruzione inferiore), ma non esiste alcun diritto all’ignoranza: restare ignoranti è una mera facoltà, non un diritto, perché l’ignoranza non è un bene. E così via.

Dunque, per poter parlare di diritto all’aborto, bisognerebbe necessariamente postulare che l’aborto – che è, incontrovertibilmente, l’uccisione di un essere umano – sia un bene, il che ci farebbe piombare a capofitto in una concezione nazionalsocialista del diritto in cui vi sono esseri umani che è bene sopprimere. L’unica alternativa è allora quella di sostenere che sotto tale etichetta si intende in realtà difendere e promuovere un’altra cosa, cioè di nuovo un diritto alla libertà di scelta, in questo caso un diritto della donna alla libera determinazione sul proprio corpo. Questo, di per sé, può senz’altro essere considerato un bene meritevole di tutela. Se però ci si mette su questa strada, che è l’unica decentemente percorribile, bisogna necessariamente affrontare il problema di come tale diritto possa mai comporsi con il diritto alla vita del concepito, il quale è, senza alcun possibile dubbio, un individuo appartenente alla specie umana. L’aborto, infatti, come tutti sanno (anche se fanno finta di non saperlo) non è un atto che riguarda esclusivamente la donna; non è un trattamento del suo corpo e basta: l’aborto è la soppressione di un individuo appartenente alla specie umana. Ora, poiché il diritto alla vita è, senza alcun possibile dubbio, preminente in quanto previo a tutti gli altri, risulta concettualmente molto difficile sostenere che altri diritti – al di fuori di quello alla vita della madre che è parimenti preminente – possano prevalere sul diritto alla vita del concepito senza implicare ipso facto la conseguenza che allora alcuni esseri umani hanno meno diritto alla vita degli altri dato che devono morire per garantire ad altri la salute, il benessere, la libertà eccetera. Una volta ammesso tale principio discriminatorio, quando ci si pone la domanda immediatamente successiva, assolutamente inevitabile, cioè quali individui debbano trovarsi in questa condizione di deminutio capitis, si vedrà che l’unica risposta possibile è: i più deboli. Risposta che ci precipita nuovamente nella barbarie di quel diritto che sopra abbiamo chiamato nazista.

La legge 194 del 1978 è certamente una cattiva legge perché non affronta questo problema cruciale, e a causa dell’ipocrisia che la caratterizza e della malafede con cui è stata applicata ha molto contribuito alla diffusione e al consolidamento di una mentalità abortista nel nostro paese ma a) nell’intenzione dichiarata e b) nella sua formulazione testuale è tutto fuorché una legge che sancisca il diritto all’aborto. Chi c’era quando fu varata e ricorda l’intenso dibattito che preparò e accompagnò la sua approvazione, può testimoniare che non fu mai presentata come un “legge per l’aborto”; si sostenne, al contrario, che era necessaria “contro la piaga dell’aborto clandestino” (il milione di aborti all’anno di cui parlavano, mentendo, i radicali!). Nessuno mai sostenne, allora, che l’aborto fosse un bene; anzi, si sottolineava quale tragedia fosse per le donne che “lo subivano” e si rivendicava perciò la necessità di ridurne il più possibile l’impatto attraverso l’uscita dalla clandestinità e la “socializzazione” tramite un percorso di presa in carico di quel dramma personale da parte dell’istituzione.

Tutto questo è stato rimosso, sepolto sotto una pesante cortina di dimenticanza e di doloso travisamento. Però il testo della legge è ancora lì, a disposizione di chiunque lo voglia leggere. E parla chiaro, pur nella disonestà di fondo che sopra ho denunciato. Vediamone alcuni articoli: oggi il primo e la prossima volta gli altri.

LEGGE 22 MAGGIO 1978 n. 194: NORME PER LA TUTELA SOCIALE DELLA MATERNITA’ E SULL’INTERRUZIONE VOLONTARIA DELLA GRAVIDANZA

Articolo 1

Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. [Commento: la legge si occupa primariamente del diritto alla procreazione e della tutela della vita umana si dal suo inizio, anche se poi, disonestamente, non determina la natura e la portata di questa tutela. Queste finalità escludono di per se stesse l’esistenza di un diritto all’aborto].

L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. [Commento: una donna che abortisce per affermare il suo diritto alla libertà di rifiutare una gravidanza agisce contro la legge. Altro che “la legge 194 non si tocca!”. Sono più di quarant’anni che la si tocca e la si stravolge, stando almeno alla sua formulazione letterale.]

Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che lo aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite. [Commento: tutta l’operazione di traslazione dell’aborto dal privato / clandestino al pubblico – che è l’asse portante e il senso etico-politico della legge – viene solennemente (e ipocritamente) finalizzata all’obiettivo di ridurre il più possibile il fenomeno dell’aborto, inequivocabilmente qualificato come un disvalore].

Di quale diritto all’aborto si sta parlando? [Continua]

Per chi suona la chitarra. (#Dante, Paradiso, canto XX, vv. 142-148)

24 lunedì Ott 2022

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#Dante, attenzione alla realtà, musica, similitudini

Gli occhi di Dante io me li immagino spalancati alla realtà, e attentissimi a coglierne ogni dettaglio. Credo che la cura per le piccole cose sia una caratteristica dei magnanimi: non è vera grandezza quella di chi “pensa in grande”, ma trascura le infinite piccolezze di cui è fatta la vita degli uomini. Si dice sempre che il diavolo è nei dettagli: ma se sta lì, il nemico, è perché sa bene che nei dettagli, prima di lui, c’è la mano di Dio. Checchè se ne dica, Dante tutto aveva fuorché la testa fra le nuvole.

Così si spiega la profusione di mirabili descrizioni di frammenti di vita quotidiana di cui la Commedia scintilla, in particolare nelle similitudini: «come ‘l vecchio sartor fa ne la cruna»; «lo villanello a cui la roba manca, / si leva, e guarda, e vede la campagna / biancheggiar tutta; ond’ ei si batte l’anca …»; «quasi bramosi fantolini e vani / che pregano e il pregato non risponde …», ma scommetto che se ora noi della comitiva ci mettessimo a fare a gara per citare le più belle non la finiremmo più.

Nel nostro viaggio, solo qualche volta ci siamo fermati a coglierle: maiora premebant (e noi non siamo così grandi da avere tutto questo cuore per le piccole cose). Oggi però facciamo un’eccezione, che sarà gradita ai chitarristi che presumo non manchino tra i potenziali lettori di questo post:

«E come a buon cantor buon citarista / fa seguitar lo guizzo della corda, / in che più di piacer lo canto acquista, // sì, mentre ch’e’ parlò, sì mi ricorda / ch’io vidi le due luci benedette, / pur come batter d’occhi si concorda, // con le parole mover le fiammette».

Non ho mai imbracciato una chitarra (e tanto meno una cetra) in vita mia, ma un po’ di pianoforte, malamente, da ragazzo lo studiai. Questa finezza di ascolto, capace di fare attenzione non solo alla voce solista ma anche all’accompagnamento (e qui anzi di prediligerlo), è da veri intenditori.

“Tutto è grazia”, ovvero come fu che il pagano Rifeo andò in Paradiso. (#Dante, Paradiso, canto XX, vv. 118-141)

23 domenica Ott 2022

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battesimo, grazia, natura e grazia, salvezza dei non battezzati

Dicevamo che la storia di Traiano, il quale, per intercessione di Gregorio Magno, viene risuscitato dai morti giusto il tempo per poter essere battezzato e andare dritto come un fuso in Paradiso – storia vera e del tutto credibile per Dante, convinto che Dio è onnipotente e dunque di cose del genere ne può fare quante ne vuole; bizzarra leggenda medievale per noi moderni, che all’onnipotenza divina ci crediamo e non ci crediamo, ahinoi – è comunque straordinaria. Quella di Rifeo, nella sua “ordinarietà”, è molto più stupefacente e forse, finalmente, può aprire gli occhi anche a noi.

«L’altra, per grazia che da sì profonda / fontana stilla, che mai creatura / non pinse l’occhio infino a la prima onda, // tutto suo amor là giù pose a drittura» (vv. 118-121). “Che cosa importa? Tutto è grazia”: queste parole, che il curato di campagna di Bernanos pronuncia in punto di morte, ci aiutano a metterci nella posizione giusta per capire no, ma contemplare sì il mistero della grazia, così come Dante qui ce lo presenta. Senza voler minimamente entrare nei dettagli di una questione che è forse la più delicata, spinosa, controversa e tuttora aperta della teologia cristiana – quella del rapporto tra natura e grazia – possiamo però umilmente prendere atto della profonda verità di quanto egli ci sta dicendo: anche dopo il peccato originale, anche nello stato di natura lapsa in cui tutti gli uomini si trovano, è possibile che qualcuno «tutto suo amor» ponga «a drittura». E questo senza in alcun modo cedere a una concezione pelagiana, o semipelagiana, della natura e della grazia. Il fatto è che, davvero come dice Bernanos, tutto è grazia: grazia è la creazione della natura; grazia la sopravvivenza della natura creata anche dopo il rifiuto dell’amore divino espresso nell’orgogliosa impazienza di Lucifero (si veda qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2022/10/07/si-fa-presto-a-dire-e-un-mistero-ma-il-mistero-noi-lo-contempliamo-dante-paradiso-canto-xix-vv-1-78/) e nella sciocca disubbidienza dei progenitori; grazia la provvidenza che mantiene in vita il mondo; grazia l’ispirazione a fare il bene, nonostante tutto, che spunta continuamente in tanti cuori … La realtà è piena di grazia, invisibile per lo più ai nostri occhi offuscati, «per che, di grazia in grazia, Dio li aperse / l’occhio a la nostra redenzion futura; // ond’ei credette in quella, e non sofferse / da indi il puzzo più del paganesmo; / e riprendiene le genti perverse» (vv. 122-126). Rifeo, dunque, è un “cristiano di desiderio”; potremmo forse definirlo, in maniera inesatta e forzando i termini per farci capire, un “cristiano prima di Cristo”, nel senso di vissuto prima dell’incarnazione del Figlio di Dio ma tenendo a mente che il Figlio, nella sua eternità, è per così dire contemporaneo a tutti i tempi. Non è un cristiano anonimo, nel senso in cui lo intende una parte della teologia novecentesca: la sua diversità toccata dalla grazia si manifestò infatti – secondo quando immagina Dante – in una rottura rispetto a ciò che era prima, sì che «non sofferse / da indi il puzzo più del paganesmo; / e riprendiene le genti perverse»: espressioni, queste, così politicamente scorrette che mai troverebbero posto, oggigiorno, in un qualunque documento ecclesiastico riguardante i non cristiani!

Insomma, Rifeo ebbe il suo battesimo, benché la chiesa non ci fosse ancora: «Quelle tre donne li fur per battesmo / che tu vedesti da la destra rota, / dinanzi al battezzar più dìun millesmo». (Anche il curato di Bernanos, ricevuta l’assoluzione da un prete spretato, a casa del quale è andato a morire, spira senza il Viatico, che dalla più vicina parrocchia non fanno in tempo a portargli: “Che cosa importa? Tutto è grazia”).

Più di così non si può dire, e finalmente la fame di Dante è saziata, la ferita della coscienza è medicata: «Così da quella imagine divina, / per farmi chiara la mia corta vista, / data mi fu soave medicina».

C’era una volta … un re? No, un giusto sconosciuto. (#Dante, Paradiso, canto XX, vv. 67-117)

20 giovedì Ott 2022

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#Dante, conoscenza, giusti, grandi e piccoli, salvezza dei non battezzati

Dopo Davide, contato a parte in quanto pupilla dell’occhio dell’aquila, e le altre quattro teste coronate che ne disegnano il contorno (Traiano, Ezechia, Costantino e Guglielmo II d’Altavilla), «chi crederebbe giù nel mondo errante / che Rifëo Troiano in questo tondo fosse la quinta de le luci sante?» (vv. 67-69). In effetti, quaggiù nel mondo errante, abbiamo un po’ tutti la fissa dei “grandi della storia”, o più modestamente della cronaca, da cui stoltamente ci aspettiamo grandi cose, mentre dei piccoli non ci curiamo. Non così Dante: è ben vero che, per ragioni pedagogiche dichiarate da Cacciaguida nel canto XVII (vv. 133-142), le anime su cui si è maggiormente soffermato durante tutto il suo viaggio sono per lo più di personaggi famosi, ma se il suo «grido» ha percosso preferibilmente «le più alte cime», cioè «pur l’anime che son di fama note» e perciò più adatte a lasciare una durevole impressione sui lettori, questo non gli ha impedito di riservare talvolta una delicata attenzione a figure “minori”, comparse marginali in scene dominate da ben altri protagonisti, che il poeta invece predilige. Lo notammo, per esempio, nell’incontro con Giasone, nel XVIII dell’Inferno (qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2020/03/01/ruffiani-e-seduttori-stessa-roba-dante-inferno-canto-xviii-seconda-parte/). Mentre tutto il mondo guarda a Giasone e Medea, due divi della letteratura e del teatro, Dante si china con vera compassione sulla piccola Isifile, la ragazzina sedotta e abbandonata dal grand’uomo, di cui nessuno si interessa. Anche nel VI del Paradiso un lettore attento discerne che la perla preziosa – quella per cui il vangelo (in barba agli esperti di finanza) dice che conviene liquidare ogni altro asset e investire tutto il patrimonio – non sta nei 126 versi in cui troneggia Giustiniano, ma nei sedici finali, dedicati a Romeo da Villanova, «persona umìle e peregrina» (un altro giusto misconosciuto!).

Ora è la volta di Rifeo, un compagno di Enea che nel poema virgiliano scorgiamo solo per un attimo nel momento in cui muore durante la fuga da Troia in fiamme: nemmeno “personaggio minore” lo si può definire, piuttosto comparsa o figurante, a cui però Virgilio riserva l’omaggio di una lode che Dante – il quale ha “cercato” (cfr. Inf. I, 83-84 «vagliami ‘l lungo studio e ‘l grande amore / che m’ha fatto cercar lo tuo volume), cioè investigato, direi quasi inquisito con una lettura assidua e stringente l’Eneide – ha notato e preso sul serio. Diceva Virgilio: «Muore anche Rifeo, che fu in assoluto il più giusto dei Troiani, il più rispettoso dell’equo, [anche se] agli dèi parve altrimenti (cadit et Rhipeus, iustissimus unus / qui fuit in Teucris et servantissimus aequi / dis aliter visum)» (Aen. II, 426-428). Non sono sfuggiti, al poeta cristiano, l’iperbole di quei superlativi che il suo maestro pagano si è sentito in dovere di spendere per quello sconosciuto guerriero troiano, e il sibillino commento relativo agli dèi che, però, tale giustizia sembrarono non riconoscerla. Dèi pagani, quelli, cioè in definitiva immaginati dall’uomo, e dunque a sua misura. A misura, intendo, dell’uomo pagano ma anche dell’uomo cristiano (che poi tante volte vuol dire solo superficialmente cristianizzato), il quale infatti non riesce neppure lui ad immaginare che uno come Rifeo sia in Paradiso, lì dov’è, fra le teste coronate: «Chi crederebbe giù nel mondo errante …».

Anche per lui, come per gli altri cinque, c’è un “ora conosce”: «Ora conosce assai di quel che ‘l mondo / veder non può de la divina grazia, / ben che sua vista non discerna il fondo» (vv. 70-72). Davvero la presenza della grazia nel mondo è misteriosa: noi quaggiù non ne capiamo quasi niente, e perfino un’anima beata del Paradiso non ne discerne il fondo. Dante, umilmente, qui si rappresenta tanto ignorante quanto il resto del mondo errante e «de la bocca» si fa uscire un: «che cose son queste?» (v. 82), così semplice e rozzo da farcelo sentire proprio uno di noi, nostro fratello. L’aquila gli legge dentro tutto lo sconcerto per l’inopinata beatitudine del pagano Rifeo, privo di battesimo e perciò, per quel che Dante sa, di green pass di accesso al Paradiso, e con pazienza spiega: «Io veggio che tu credi queste cose / perch’io le dico, ma non vedi come; / sì che, se son credute, sono ascose. // Fai come quei che la cosa per nome / apprende ben, ma la sua quidditate / veder non può se altri non la prome» (vv. 88-93; avremmo mai detto che quidditas, termine del più tecnico e arido latino degli scolastici, potesse diventar poetico? Eppure …).

Ma come si fa a passare da una conoscenza puramente teorica, formale, che conosce i nomi ma non afferra le cose? Occorre l’esperienza dell’amore. Quell’amore che è la causa della salvezza dei non battezzati, perché con la sua dolce violenza “vince” la volontà divina – che da quell’amore vuole esser vinta! – sicché ci pensa Lei a battezzare, “di desiderio” si diceva un tempo, quei pagani che ora, nella gloria del cielo, non sono più tali: «Regnum celorum vïolenza pate / da caldo amore e da viva speranza, / che vince la divina volontate; // non a guisa che l’omo a l’om sobranza, / ma vince lei perché vuole esser vinta, / e, vinta, vince con sua beninanza» (vv. 94-99). In concreto, per Traiano e Rifeo le cose sono andate così: l’imperatore risuscitò dall’inferno (donde per legge non si esce mai!) come premio alle preghiere piene di speranza di papa Gregorio Magno, e tornò a vivere in carne ed ossa per il tempo strettamente necessario a professare a vera fede in Cristo e ad amarlo con ardore, per poi morire nuovamente e salire dritto al cielo. A noi, che saremo anche cristiani ma purtroppo siamo soprattutto moderni, questa pare una leggenda bizzarra e “medievale”; agli occhi cristiani di Dante, che ha una fede “diversa” dalla nostra nell’onnipotenza di Dio, è invece un storia così vera e così bella da meritare di essere ricordata per due volte nella Commedia: qui e nel già citato canto X del Purgatorio.

La storia di Rifeo è ancor più straordinaria, ma ne parliamo domani. (Niente di meglio che troncare un discorso a metà, per tener vivo l’interesse …)

I giusti ci sono! (e forse il mondo sopravvive per merito loro). (#Dante, Paradiso, canto XX, vv. 1-66)

17 lunedì Ott 2022

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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#Dante, giusti, giustizia divina

Dante, però, sulla faccenda della salvezza dei non battezzati (e sulla giustizia di Dio che in essa è implicata e, per così dire, sfidata), “il cuore in pace” di cui parlavamo l’altro giorno non se lo mette facilmente. E fa benissimo: c’è infatti una bontà apparente, sotto la quale si annida un sostanziale cinismo, che oggi ha gran corso (anche nella chiesa, ahimé) perché sembra far contenti tutti dichiarandosi felice che ognuno sia come sia, perché tutti sono buoni, tutti sono belli e tutti vanno già bene così. Della salvezza, in fondo, non c’è bisogno, perché tutti sono già salvi, a prescindere. (E Cristo è morto invano: è stato carino da parte sua, ma non ce n’era bisogno). C’è invece, all’opposto, uno zelo, una passione ardente e perciò scomodante, talora perfino urticante, che è propria di chi, avendo incontrato la salvezza, si strugge perché anche gli altri si salvino, e non si dà pace per quelli che rischiano di non salvarsi.

In questi giorni, si è parlato molto di don Giussani: ecco, lui era così. Io l’ho incontrato solo due volte, a tu per tu, nel corso della mia vita, parlando con lui per un totale forse di non più di trenta minuti, ma ne ho avuto l’impressione fortissima (e rarissima nella vita) di una persona totalmente presente a me (sconosciuto), alla mia vita e al mio bisogno, per tutta la durata di quei colloqui. Come se, per quella manciata di minuti, io e il mio destino fossimo l’unica cosa al mondo. Anche di lì deriva la mia certezza morale della sua santità, nella convinzione che un tratto distintivo della santità sia precisamente la totale adesione alla realtà, cioè l’assenza di distrazione. Il santo è un uomo che non si distrae.

Tornando a Dante: anche lui è uno che non si mette facilmente il cuore in pace e quindi sul problema della salvezza e della giustizia non gi basta il tanto che ne ha già detto nel XIX, ma ci torna sopra per tutto il XX. I due canti, in realtà, sono un tutt’uno, una sola grande trattazione del tema della giustizia divina. E di quella umana, perché, in forte e voluto contrasto con la rassegna dei principi ingiusti su cui si è chiuso il canto precedente, questo si apre con l’indicazione nominativa di “sei giusti” (due ebrei, due pagani e due cristiani) le cui luci rifulgono proprio nell’occhio dell’aquila. Il contrasto tematico si riflette anche nel tono: là era quello aspro dell’invettiva; qui è tutta dolcezza, a partire dalla similitudine dell’esordio (vv. 1-6), che ci fa contemplare il sole che tramonta e la stellata notturna che ne prende il posto, seguitando poi nell’apostrofe del v. 13 («O dolce amor che di riso t’ammanti») e nell’altra similitudine del ruscello che scende dal monte (vv. 19-21: «udir mi parve un mormorar di fiume / che scende chiaro giù di pietra in pietra, / mostrando l’ubertà del suo cacume»). L’aquila invita Dante a fissare il suo occhio, perché lì si trovano i «sommi» fra tutti gli spiriti giusti che la compongono.

Segue la presentazione dei sei giusti, che si svolge in sei coppie di terzine, una per ciascun beato con perfetta simmetria, caratterizzate e unite dalla ripetizione, all’inizio della seconda terzina, del ritornello: «ora conosce». Ora conosce, come a dire che solo ora, in Paradiso, il giusto contempla il senso pieno e l’intero valore della sua vita. C’è nel giusto, infatti, una sorta di noncuranza, starei per dire (sbagliando, ma non mi viene un termine migliore) quasi una inavvertenza della sua stessa giustizia. L’uomo giusto è colui che fa quello che deve essere fatto, perché deve essere fatto: sa che è giusto farlo e dunque lo fa; non si pone il problema, non si ingombra il cuore col pensiero della propria giustizia. Non ne parla, non ci pensa troppo (come fece Giorgio Perlasca, che era fascista, e a Budapest, nell’inverno del 1944/45, salvò migliaia di ebrei dalla deportazione e dalla morte, semplicemente perché non si poteva lasciarli morire; e fece quel che fece semplicemente perché “così andava fatto”, e poi dopo la guerra non ne parlò neanche coi familiari). Una lunga tradizione, che è biblica nella sua origine, e percorre tutto l’ebraismo e il cristianesimo, ha coltivato il pensiero che è in grazia di pochi giusti sconosciuti (anche a se stessi, ma non a Dio!) che il mondo sopravvive. E forse è proprio così. Il Dante ancora intristito e sconsolato dell’Inferno si era fatto dire da Ciacco che nella Firenze del suo tempo «giusti son due, e non vi sono intesi» (Inf. VI, 73) ed era parso a lui e a noi che “due” non fossero niente. Il Dante illuminato e pacificato del Paradiso può invece contemplare con occhio limpido i sei giusti che l’aquila gli elenca. E sei ci bastano (Abramo era arrivato a dieci, contrattando con Dio, ma poi ci sono stati i saldi di fine stagione).

Il primo è Davide (vv. 37-42), che «ora conosce il merto del suo canto», cioè capisce che gran cosa ha fatto componendo i salmi. Poi c’è Traiano (vv. 43-48), ricordato non per i suoi successi politici ma perché «la vedovella consolò del figlio» (sulla sublime ironia di quell’episodio, narrato nel X del Purgatorio, scrivemmo qualcosa a suo tempo: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2021/01/10/tre-lezioni-sulla-vera-umilta-dante-purgatorio-canto-x-vv-34-93/): «ora conosce quanto caso costa / non seguir Cristo, per l’esperïenza / di questa dolce vita e de l’opposta» (vv. 46-48). Versi che sembrano fatti apposta per sparger sale sulla nostra ferita, perché il caso di Traiano è quanto mai imbarazzante: egli visse dopo Cristo ed ebbe la possibilità di conoscere il cristianesimo ma non vi aderì. Eppure fu giusto e ora è qui in Paradiso, addirittura tra i sommi: com’è possibile?

Il terzo è il re Ezechia (vv. 49-54), la cui giustizia consistette nel fatto che «morte indugiò per vera penitenza» e ora contempla la perfetta giustizia di questo modo di agire di Dio (la giustizia dei giusti – questo ci vuol dire Dante – non è la loro, ma è di Dio!). Il quarto sovrano giusto è Costantino (vv. 55-60, e anche per lui la lode dantesca ha un tratto di genialità paradossale: l’imperatore cristiano per eccellenza viene infatti ricordato non per altro ma per quella che agli occhi di Dante fu solo una benintenzionata, madornale cazzata: «sotto buona intenzion che fé mal frutto, / per cedere al pastor si fece greco», cioè lasciò Roma nelle mani del papa, fondando il potere temporale della chiesa, per andare a farne un’altra a Bisanzio. Niente paura: «ora conosce come il mal dedutto / dal suo bene operar non li è nocivo, / avvegna che sia ‘l mondo indi distrutto». (Dovessimo rispondere delle conseguenze delle nostre azioni, ex articolo 2043 del Codice Civile, davanti al tribunale di Dio, staremmo freschi!). Per quinto viene l’unico personaggio dei tempi “moderni” (dal punto di vista di Dante), cioè Guglielmo II di Altavilla, detto il Buono, che regnò sulla Sicilia nella seconda metà del XII secolo (vv. 61-66), che «ora conosce come s’innamora / lo ciel del giusto rege», capisce fino in fondo quale dono prezioso per il mondo sia, agli occhi di Dio, un principe giusto.

Un principe, appunto: i giusti di questo elenco sono tutti re, anche se come abbiamo visto il poeta inquadra la loro regalità da una prospettiva sempre molto particolare, direi quasi straniante. Ci aspettiamo dunque che pure l’ultimo lo sia, anche perché crediamo di aver capito che questa serie stia qui a fare da contraltare alla ben più nutrita compagine di puzzoni incoronati che erano stati enumerati nel canto precedente. Invece Dante, come sempre, ci sorprende. La prossima volta vediamo come.

Quando la vita polverizza l’accademia.

15 sabato Ott 2022

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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Colta al volo stamattina, durante la mia camminata. Mentre me ne andavo «solo e pensoso», godendomi quel sole di ottobre così mite e comprensivo verso le «sciagure umane» (e con queste due abbiamo fatto il pieno di citazioni letterarie per questo post), a un certo punto, in quel di Celincordia, ho incrociato due giovani runner (come ora si dice) che correvano e chiacchieravano (nello stesso tempo! beati loro) e ho captato questo frammento di conversazione: «… sì, ma in un corso di … Storia di Cavour … ci sono tante belle ragazze quanto in uno di Storia del teatro? Secondo me ce n’è meno …».

Ignoro il contesto, ma in un attimo ho visto festosamente crollare tutto il sistema universitario con tutte le sue pretese e millantate promesse, i suoi piani di studio, crediti formativi, curricola, profili personalizzati dell’offerta formativa e tutto il resto, davanti all’irrompere di questa elementare, sana e vivaddio perenne domanda maschile: “dove sono le ragazze?” Anzi, “le belle ragazze”, alla faccia di tutte le ipocrisie oggi obbligatorie.

(Poi mi è anche piaciuto che il ragazzo, per individuare il polo negativo della sua alternativa avesse immaginato un corso dedicato all’esecrabile conte di Cavour, frequentato da sparute studentesse per giunta racchie …).

«Ed è cattolico!»

14 venerdì Ott 2022

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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Nella cacofonia di contumelie e reazioni rabbiose che l’elezione di Lorenzo Fontana a presidente della camera dei deputati ha provocato sui media e sui social – reazioni tra cui spicca, per miseria di pensiero e incompetenza grammaticale, questo tweet del segretario del PD Enrico Letta, che mette la virgola tra soggetto e predicato verbale: «Peggio di così nemmeno con l’immaginazione più sfrenata. L’Italia, non merita questo sfregio. #Fontana» – c’è un denominatore comune, talvolta esplicito più spesso implicito ma sempre presente, che merita di essere rilevato: basta grattare un po’ e si vede bene che in cima a tutte le nefandezze di cui è accusato c’è che «è cattolico!». (Come dicono i nazisti dell’Illinois quando identificano i fratelli Blues).

Per ora si dice: “ultracattolico” (che però vuol dire semplicemente che uno crede sul serio a ciò che insegna la chiesa cattolica), ma è una foglia di fico (o di rosmarino) che sta per cadere. Tra poco, “cattolico” sarà nel discorso pubblico un vero e proprio insulto, uno stigma d’infamia, a meno che la denominazione non sia diluita e purificata con l’aggiunta di un qualche solvente: “cattolico democratico”, “cattolico adulto”, “cattolico liberale”, “cattolico laico” … al limite “cattolico noncattolico”.

Non conosco Lorenzo Fontana e quindi non mi azzardo a prevedere se sarà un buon presidente della camera o meno (ma questo non lo sanno neanche i suoi attuali detrattori). Che sia cattolico, però, non mi pare un difetto. Piuttosto una rarità.

Chi sei tu per giudicare? (Ma Dante ne ha per tutti). (#Dante, Paradiso, canto XIX, vv. 79-148)

11 martedì Ott 2022

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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Europa, giudizio, giustizia

Dopo aver contemplato il mistero della divina economia – e solo dopo averlo fatto abbastanza a lungo! – siamo nella disposizione giusta per accogliere la replica dell’aquila alla nostra domanda-obiezione-protesta circa la sorte dei non battezzati: «Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna / per giudicar di lungi mille miglia / con la veduta corta d’una spanna?» (vv. 79-81). Lo stile ruvido del rimbrotto – che noi, influenzati da un episodio di recente e infelice memoria, saremmo tentati di parafrasare con un ancor più sbrigativo “chi sei tu, per giudicare?” – non deve però condizionarci. A questo punto (e solo a questo punto), dovrebbe esserci ormai chiaro che non si tratta di un ottuso diniego di dare delle ragioni o di un’ancor più ottusa rinuncia al giudizio, ma della severa e inoppugnabile presa d’atto della nostra inadeguatezza al giudizio; quel giudizio che pure dobbiamo continuamente cercare di esercitare, per vivere da uomini: «Oh terreni animali! oh menti grosse!» (v. 85). Quanto ci fa bene rammentarci la nostra stupidità!

A noi sfugge il disegno complessivo, la visione totale in cui ogni cosa va finalmente al suo posto, e tutto finalmente si spiega. Abbiamo però il potere (e dunque il dovere) di riconoscere i fatti per quello che sono, anche quando non riusciamo a comporli in una sintesi: «A questo regno / non salì mai chi non credette ‘n Cristo, / né pria né poi ch’el si chiavasse al legno», (vv. 103-105). Questo è un fatto, confermato dalla Scrittura: «In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati» (Atti 4, 12). Questo la chiesa ha insegnato sin dall’inizio e ininterrottamente per venti secoli fino ad ora. Che ora vi siano molti, nella chiesa, che non lo dicono più, non significa assolutamente nulla.

«Ma vedi: molti gridan “Cristo, Cristo!”, / che saranno in giudicio assai men prope / a lui, che tal che non conosce Cristo; // e tai Cristian dannerà l’Etïope, / quando si partiranno i due collegi, / l’uno in etterno ricco e l’altro inòpe» (vv. 106-111). Anche questo è un fatto, accennato più volte nel vangelo (cfr. ad es. Mt 7, 21; 8, 11-12; 12, 41), e confermato da innumerevoli indizi che ciascuno può trarre dalla propria esperienza. Morale della favola: invece di tormentarci col problema di come Dio faccia a salvare i non battezzati posto che il battesimo è necessario, mettiamo il cuore in pace (saprà Lui come fare) e pensiamo piuttosto all’ingiustizia e agli altri peccati di noi cristiani. Proprio come fa Dante, che alla peste che corrompe il mondo cristiano dedica l’ultima parte del canto, con nove terzine sprezzanti che marchiano a fuoco i “prìncipi cristiani” di tutta Europa, formando appunto l’acrostico della parola “lue”.

I capi dell’Europa di oggi, a differenza di quelli del tempo di Dante, non sono più neanche nominalmente cristiani, ma certo non sono migliori di loro, anzi sono ancora peggiori. Leggendo la sferzante rassegna dantesca dei vizî e delle colpe di quegli antichi sovrani, non possiamo dunque fare a meno di pensare ai nostri … e diventa pressoché impossibile resistere alla tentazione di forzare, ben oltre i confini del testo, l’interpretazione di una sorprendente esclamazione che troviamo ai vv. 141-142: «O beata Ungheria, se non si lascia / più malmenare!».

Si fa presto a dire: “è un mistero”. Ma il mistero, noi, lo contempliamo? (#Dante, Paradiso, canto XIX, vv. 1-78)

07 venerdì Ott 2022

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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#Dante, giustizia, Limbo, Mistero

Quando nel cristianesimo qualcosa ci scandalizza perché non riusciamo a farcene una ragione, di solito ci vengono date (o ci diamo da soli) due tipi di risposte: il primo, che era quello di gran lunga prevalente una volta, consiste sostanzialmente nel dire: “è un mistero, non si può capire. Credici e basta”; il secondo, che va di moda adesso, elimina l’ostacolo spiegando che semplicemente esso non esiste, perché anche se nella Bibbia o nell’insegnamento della chiesa si dice una certa cosa che ci sta sul gozzo, quella cosa non andrà intesa proprio nel modo che ci fa problema, ma in un altro che ci aggrada (e comunque, si sa che un conto è la dottrina, un altro è la vita …). Questa risposta è pessima, perché nega il mistero e così, una foglia dopo l’altra, alla fine del carciofo della fede non resta più nulla: un gambo di cristianesimo a misura d’uomo, di cui nessuno sa cosa fare, se non buttarlo via come il sale insipido di cui parla Gesù nel vangelo. Anche l’altra, tuttavia, non è un granché, dato che, pur senza negarlo, riduce di fatto il mistero ad un passepartout, un espediente per uscire dall’imbarazzo di una contraddizione dentro la quale, invece, ci farebbe bene sostare a lungo.

Ciò che scandalizza Dante è il problema della salvezza dei giusti non battezzati. La soluzione del limbo, a cui pure ha diligentemente aderito anche lui nel IV canto dell’Inferno, non lo convince affatto (e con ragione, perché non sta in piedi!) e questa sua insoddisfazione è più volte riemersa durante il viaggio (potrete trovare i riferimenti, e le osservazioni che a suo tempo facemmo in proposito, attivando la funzione di ricerca nel blog con “limbo”). Dopo tanti mugugni, ora parlando all’aquila della divina giustizia, in cui si fondono tutti gli spiriti giusti del cielo di Giove, il nostro pellegrino può finalmente esprimere apertamente le sue obiezioni, anzi non ha nemmeno bisogno di farlo perché quella «bella image» formata dalle «anime conserte», che dice «“io” e “mio”, / quand’era nel concetto e “noi” e “nostro”» (vv. 2-3. 11-12), gli legge dentro e dà voce lei stessa al suo pensiero: «Un uom nasce a la riva / de l’Indo, e quivi non è chi ragioni / di Cristo, né chi legga né chi scriva; // e tutti suoi voleri e atti buoni / sono, quanto ragione umana vede, / sanza peccato in vita o in sermoni. // Muore non battezzato e sanza fede: / ov’è questa giustizia che ‘l condanna? / ov’è la colpa sua, se ei non crede?» (vv. 70-78). Oh, finalmente un Dante che pensa e parla proprio come noi! Così ci viene istintivo pensare, ed in effetti per una volta sembra proprio uno dei nostri: la stessa fiducia baldanzosa nella forza della propria logica, la stessa protervia nell’accusare Dio di ingiustizia, lo stesso fondo di vittimismo. (Come si vede, non c’è bisogno di aspettare la modernità per essere moderni; se vogliono, ci riescono benissimo anche i medievali, perché certe cose l’uomo le sa fare sin dal primo giorno della sua comparsa sulla terra).

Quello che è totalmente diverso da noi è il contesto in cui questo frammento di moderna lamentazione si inserisce: prima del brano che abbiamo citato, infatti, ci viene proposta una lunga, esaltante e commossa contemplazione del mistero di Dio che crea il mondo (la Trinità economica, direbbero i teologi). Preso atto dell’inespressa domanda di Dante, accolto con carità il suo gran bisogno di sapere («solvetemi, spirando, il gran digiuno / che lungamente m’ha tenuto in fame, / non trovandoli in terra cibo alcuno», vv. 25-27), l’aquila, prima di formulare, nel modo che sopra abbiamo riportato, il quesito (o meglio la protesta) che lo angustia, sembra “prenderla alla larga”: «Colui che volse il sesto / a lo stremo del mondo, e dentro ad esso / distinse tanto occulto e manifesto, // non poté suo valore sì fare impresso / in tutto l’universo, che ‘l suo verbo / non rimanesse in infinito eccesso» (vv. 40-45). Attenzione! Noi, da «La gloria di colui che tutto move / per l’universo penetra e risplende» (I, vv.1-2) in qua, abbiamo sempre riposato sulla gloriosa idea della corrispondenza del creato al suo Creatore («e questo è forma / che l’universo a Dio fa simigliante»). Ma ce n’è un’altra, molto più “disturbante”, ed è quella dell’infinito scarto, dell’infinito eccesso del Creatore rispetto alla creatura: quel vuoto infinito che non sappiamo fissare, perché ci sgomenta. Com’è possibile che Dio, che è Tutto, faccia essere qualcosa di altro-da-sé , qualcosa-che-non-è-Dio? Come può pensarsi qualcosa che non è Dio, eppure è qualcosa? Qualcosa di “fatto da Dio” – anche nel senso volgare che diamo a questa espressione nella lingua quotidiana! – con infinita cura dei particolari («Colui che volse il sesto / a lo stremo del mondo, e dentro ad esso / distinse tanto occulto e manifesto»). Non l’opera pasticciata di un demiurgo cattivo e/o incapace a cui dovettero ricorrere gli gnostici, per venire in qualche modo a capo dello scandalo. La creazione, la creazione stessa è il primo gran mistero che, se ci pensassimo, dovrebbe lasciarci confusi e senza fiato! Dicendo che Dio «non poté» (!!!) imprimere per intero il suo infinito valore nel mondo creato così che il suo verbo (il Logos, la seconda persona della Trinità, il Figlio) vi fosse infinitamente compreso, Dante sta audacemente penetrando nel più vertiginoso dei misteri: la creazione, dal nulla, di qualcosa che è da Dio ma non è Dio. E la prova che non è Dio sta in un secondo, conseguente, vertiginoso mistero: «E ciò fa certo che ‘l primo superbo, / che fu la somma d’ogne creatura, / per non aspettar lume, cadde acerbo» (vv. 46-48). Confesso di non aver sentito mai nessun altro parlare così del peccato di Satana: non una ribellione, ma un’impazienza! Cioè un vivere la propria condizione di fatto-da-Dio-ma-non-Dio non nell’attesa e nella domanda che l’infinito Amore trinitario colmasse la distanza abbracciando l’essere creato nella propria vita intima, bensì desiderando di essere Dio senza esserlo. È un’intuizione di una profondità abissale: come potrebbe Lucifero, l’angelo bellissimo, creato perfettamente bene da Dio infinitamente buono, volere qualcosa d’altro da Dio, che è tutto? Come potrebbe, non tentato da alcuno (mica come quei poveri due dell’Eden!), volere altro-da-Dio? Può però volere, poiché non è Dio!, qualcosa d’altro rispetto alla volontà di Dio. Fosse pure, quest’altro, anche “andare verso Dio”. Volere Dio non come Dio vuole.

Basta, perché l’aria rarefatta di queste altezze non ci faccia venir meno, noi terragni, torniamo a volgere lo sguardo sulle conseguenze del mistero della creazione: «e quinci appar ch’ogne minor natura / è corto recettacolo a quel bene / che non ha fine e sé con sé misura» (vv. 49-51). È l’uomo capax Dei? Fino a un certo punto: «Dunque vostra veduta, che convene / esser alcun de’ raggi de la mente / di che tutte le cose son ripiene, / non pò da sua natura esser possente / tanto, che suo principio non discerna / molto di là da quel che l’è parvente» (vv. 52-57).

Solo ora, dopo aver lungamente contemplato il mistero del rapporto tra Dio e il mondo (quanto lungamente? Una vita intera, direi), possiamo volgerci a considerare quel particolare aspetto di tale rapporto che ci faceva tanto problema, cioè la giustizia di Dio! «Però ne la giustizia sempiterna / la vista che riceve il vostro mondo, / com’occhio per lo mare, entro s’interna; // che, ben che da la proda veggia il fondo, / in pelago nol vede; e nondimeno / èli, ma cela lui l’esser profondo». La grande metafora del mare è parlante: a chi lamenta che il fondo si vede solo dalla riva, e poi scompare, è come se Dante dicesse di navigare a lungo, continuando a guardare il pelago finché il senso della sua smisurata grandezza e profondità gli riempie l’animo. A quel punto, e solo a quel punto, può veramente credere che il fondo c’è, anche se non si vede, e capire ciò che crede.

Così anche noi della comitiva dantesca, umilmente, ci disponiamo ad ascoltare, la prossima volta, il seguito della risposta dell’aquila (che viene incontro, come vedremo, anche alla protesta di Dante).

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