Facile innamorarsi di Francesco, che è così giovane, bello e innamorato. Facile e anche un po’ rischioso, perché se si perde di vista la ragione di tutta quella bella giovinezza, come facilmente può accadere, la sua immagine facilmente sfuma in un sogno, una sorta di Liebestraum tanto seducente quanto falso che appaga forse la nostra voglia di sensazioni dolcemente devote, ma sicuramente non ci converte.
Più difficile innamorarsi di Domenico, che a prima vista non pare altrettanto bello, giovane e innamorato. (Infatti è assai meno popolare, anche nelle nostre terre, che pure ne custodiscono il corpo. L’anno scorso, per dire, c’è stato l’ottavo centenario della sua morte ma non è che si sia fatto granché). Eppure la Ragione della giovane bellezza di Domenico, così meno appariscente, è la stessa di Francesco. È su questa identità che punta dritto il nostro poeta, costruendo un racconto biografico che è molto simile nella sostanza al precedente e al tempo stesso diversissimo, più che nella forma direi nell’effetto che quella forma ha su di noi. Come se, deliberatamente, qui Dante volesse non affascinarci, non incantarci, non colpire la nostra sensibilità e ci riuscisse benissimo. Non vi è lettore, io credo, che posto di fronte alla domanda su “quale vita preferisca”, non risponderebbe: “quella di Francesco” (la sola, non per niente, che i più leggono a scuola). Ma questo, io credo, succede non perché a Dante la vita di Domenico “gli è venuta meno bene”, bensì perché gli è venuta proprio come doveva venire, cioè come lui la voleva. Non dare alla vita di Domenico la stessa folgorante bellezza di quella di Francesco ha un senso. La sola bellezza, infatti, serve a ben poco se di essa non ci si fa una ragione adeguata, cioè se non la si comprende nella sua essenza (pulchritudo come splendor veritatis), il che vuol dire nell’essenziale unità del Vero, del Bene e del Bello.
Perciò in questo canto Bonaventura spiega a Dante e a noi che «Degno è che, dov’è l’un, l’altro s’induca: / sì che, com’ella ad una militaro, / così la gloria loro insieme luca» (vv. 34-36). Prima annotazione: Francesco e Domenico sono entrambi militari. A questo non avevamo pensato, leggendo la vita di Francesco: credevamo fosse solo un ragazzo innamorato e che la sua guerra fosse solo contro un padre che non voleva le nozze con la ragazza per cui aveva perso la testa. Ora, la gente di solito, e soprattutto al giorno d’oggi, non è che ami particolarmente i militari. Sì, dicono che alle donne la divisa faccia ancora un certo effetto, ma è più una cosa da cinema. L’idea eroica, avventurosa e bella della guerra è, fortunatamente, un inganno da cui dovremmo essere ormai quasi tutti vaccinati, dopo le orribili guerre del XX e XXI secolo, e poi “il militare” è altra cosa dal “guerriero”: è uno che fa un mestiere necessario, ma di cui si vorrebbe fare a meno; un mestiere fatto per lo più di addestramento, routine, logistica e burocrazia. Nella chiesa di oggi, poi, tutto ciò che ha a che fare con l’immaginario della guerra e degli eserciti sembra essere stato bandito da un’ondata di iperpacifismo variopinto, ad onta del fatto che di quelle metafore siano invece pieni i testi sacri.
Ecco invece che Bonaventura-Dante in quel campo si inoltra senza paura, dichiarando subito che «L’essercito di Cristo, che sì caro / costò a rïarmar, dietro a la ‘nsegna / si movea tardo, sospeccioso e raro» (vv. 37-39): problemi di gestione e di logistica, come si vede. Fornitura di armamenti (che cari son costati!), difetti di strategia e di leadership, carenze di organico: sembra che stiamo a parlare con un generale dell’orribile guerra in corso in Ucraina, invece è san Bonaventura (!) che parla della chiesa di Cristo. La guerra sta andando male, e il comandante supremo (che non sta al Cremlino, alla Casa Bianca o in qualche altro palazzo, ma sta in Cielo) manda al fronte i suoi uomini migliori: «lo ‘mperador che sempre regna / provide a la milizia, ch’era in forse, / per sola grazia, non per esser degna; // e, come è detto, a sua sposa soccorse / con due campioni, al cui fare, al cui dire / lo popol disvïato si raccorse» (vv. 40-47). Il v. 42 ci dà il coraggio di inviare al comando supremo un nuovo dispaccio, chiedendo un soccorso che non meritiamo: “quaggiù le cose vanno peggio di allora (molto peggio, se ci è permesso dirlo). Urgono rinforzi. Mandate qualcuno come quei due dell’altra volta”. (Sperando che dall’Oberkommando der christlichen Armee non ci rispondano: “Già fatto. E non è servito”.)
In tutto questo parlar di eserciti, armi e condottieri è però spuntata una parola, «sposa», che ci fionda dritti al cuore dell’episodio di Francesco nel canto precedente. Questi uomini che fanno la guerra, infatti, combattono per amore. Per amore della sposa, che in questa guerra spirituale (questo jihad, se avessimo il coraggio di prendere questo termine abusato dai musulmani e farne la chrêsis, come i Padri della chiesa avrebbero certamente fatto, purificandolo dalle degenerazioni e restituendolo al suo significato autentico) è la chiesa. Ma anche nelle guerre materiali, se c’è un motivo giusto per combatterle esso altro non è che l’amore per le mogli e per i figli: la patria, come motivo, vale nella misura in cui è l’ambiente in cui mogli e figli possono vivere.
Anche Domenico, non meno del fascinoso ragazzo di Assisi (cioè dell’Oriente, «però chi d’esso loco fa parole, / non dica Ascesi, ché direbbe corto, / ma Orïente, se proprio dir vole»), per quanto nato a Occidente è un amante: «l’amoroso drudo / de la fede cristiana, il santo atleta / benigno a’ suoi e a’ nemici crudo» (vv. 55-57). Terzina in cui mirabilmente si fondono le due dimensioni dell’amore e della guerra di cui stiamo dicorrendo. «Amoroso drudo» confesso che mi piace da matti: sarà anche vero, come annota giudiziosamente la Chiavacci Leonardi, che «drudo in senso buono, per “amante”, o “fedele”, è normale in antico»; ma quale attento lettore della Commedia, quando sente questa parola desueta, non pensa immediatamente a Taide, «che là si graffia con l’unghie merdose», «la puttana che rispose / al drudo suo» (Inf. XVIII, vv. 131.133-34); e poi a quel «drudo feroce» che picchia la sua «puttana sciolta» nel canto XXXII del Purgatorio? Storiacce, roba forte e sporca, quasi da cronaca nera, che sembra non aver nulla a che spartire con le vite dei santi; ma la scelta lessicale dantesca è felicissima perché rileva che la passione è sempre passione, e l’amor sacro non è meno passionale di quello profano. Anzi. Tre sole volte compare “drudo” nella Commedia: due volte va a puttane e la terza fa l’amore con la santa fede. Che meraviglia!
Dunque abbiamo un innamorato della Fede, che per lei combatte, come è giusto (se non si combatte per ciò che si ama, semplicemente non lo si ama). Anche lui, come l’altro, se la sposa, perché se si ama veramente una donna la si sposa. «Poi che le sponsalizie fuor compiute / al sacro fonte intra lui e la Fede, / u’ si dotar di mutüa salute, // la donna che per lui l’assenso diede, / vide nel sonno il mirabile frutto / ch’uscir dovea di lui e de le rede» (vv. 61-66). Anche lui, come l’altro, sposandosi diventa padre: ecco ricompararire gli eredi («le rede»), di cui abbiamo già discorso qualche giorno fa. Certo qui non c’è il tono poetico e originalissimo della leggenda francescana. Come ho detto, qui è tutto più “feriale”: i modi della narrazione dantesca ripercorrono luoghi comuni ben noti della tradizione agiografica. Li tralascio, limitandomi a far notare come, accanto allo sposo e al combattente compiaia ora una terza immagine, quella dell’agricoltore, intento a «circüir la vigna / che tosto imbianca, se ‘l vignaio è reo» (vv. 86-87). (“Semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore” si definì, con le sue primissime parole da papa, un grande e sfortunato pontefice dei tempi recenti: che fosse lui uno di quei “campioni” che il comando supremo mandò al fronte, quando le cose si mettevano già molto male, e che per colpa nostra non poté nulla per risollevare le sorti della guerra?).
Per coltivare la vigna e difendere la sposa, bisogna anche studiare. Sia il contadino che il militare, i tipi umani apparentemente più alieni da accademie e biblioteche, hanno in realtà una dottrina che devono conoscere a fondo, per far bene il proprio mestiere. Così Domenico, «non per lo mondo, per cui mo s’affanna / di retro ad Ostïense e a Taddeo» – non cioè per acquisire una competenza mondana, utile per fare soldi e carriere («chi dietro a iura e chi ad amforismi» aveva detto all’inizio del canto XI) – «ma per amor de la verace manna // in picciol tempo gran dottor si feo» (vv. 82-85). Dottore, cioè conoscitore della dottrina. Dottrina: questa parola che oggi a così tanti, nella chiesa, fa così tanto schifo e di cui un tempo la chiesa invece si gloriava al punto che perfino a noi bambini ci mandava “alla dottrina” (che poi si è chiamata “catechismo” e dopo ancora “catechesi”, da ultimo in via di sublimazione nell’“accompagnamento”).
Francesco aperse al papa «regalmente sua dura intenzione»; Domenico, «a la sedia che fu già benigna / più a’ poveri giusti, non per lui / ma per colui che siede, che traligna» – nessun commento! – chiese non dispense, privilegi e rendite ma «contro al mondo errante / licenza di combatter per lo seme / del qual ti fascian ventiquattro piante.» – cioè per la retta fede da cui sola può germinare la santità dei beati che qui circondano Dante – «Poi, con dottrina e con volere insieme, / con l’officio appostolico si mosse / quasi torrente ch’alta vena preme; // e ne li sterpi eretici percosse l’impeto suo, più vivamente quivi / dove le resistenze eran più grosse» (vv. 94-102). Mondo errante e sterpi eretici son due espressioni così belle, forti, vere e inusitate che conviene contemplarle a lungo e mandarle a memoria. Quando si parla del mondo, sarebbe bene che sempre ci chiedessimo se stiamo parlando del mondo o del “mondo errante”; e quanto agli “eretici sterpi”, questa formula ci ricorda un’altra cosa che facilmente trascuriamo, cioè che l’eresia è infeconda. La sterilità è segno sicuro dell’errore.
Infine i figli, cioè i primi seguaci: quelli di Francesco si scalzavano lietamente dietro allo sposo, «sì la sposa piace». Quelli di Domenico si fecero agricoltori dietro a lui: «di lui si fecer poi diversi rivi / onde l’orto cattolico si riga, sì che i suoi arbuscelli stan più vivi» (vv. 103-105). Anche orto cattolico è una bella espressione, del tutto fuori moda, da tenere presente per il nostro lessico. In fondo il vintage ha sempre un suo perché.