Si parlava di ipocrisia, cioè di recitazione. Che è una dimensione imprescindibile della vita umana: “si recita sempre”, avevamo detto, un po’ facendo il verso a Pirandello. Ma per chi si recita? Da quale sguardo si dipende, e quali applausi si ricercano quando si fa la propria parte nel teatro del mondo? Questo è ciò che conta. Come ci ha ricordato una gentile componente della comitiva dantesca, falsità e finzione non sono la stessa cosa: possiamo dunque rilassarci; se i Padri ce l’avevano a morte col teatro, per profonde e geniali ragioni che faremmo bene a meditare lungamente, noi, pur armati delle stesse ragioni, a teatro qualche volta possiamo ben andarci, per seguire con profitto e con diletto le “belle storie” che sul palcoscenico ci vengono così ben rappresentate.
La letteratura italiana – che di teatro vero e proprio ne ha relativamente poco e spesso mal rappresentato e rappresentabile (che ne è, per esempio, del teatro di Alfieri, di Manzoni o di D’Annunzio?) – il suo ce lo offre piuttosto dentro opere che teatrali non sono, almeno in senso stretto. Una dimostrazione la troviamo anche qui, in questo scorcio della Commedia tra la fine del XXIII e gli inizi del XXIV canto, che assume il tratto, a me sembra, di una pièce da teatro borghese, di quello recitato con raffinato mestiere da grandi attori che sapevano tenere impeccabilmente la scena, magari a volte gigioneggiando un po’, per il diletto di un pubblico tutto sommato riflessivo, che amava vedersi rispecchiato, e un pochino messo a nudo (ma non scuoiato) nell’analisi sottile delle emozioni e delle finzioni di cui è fatta la vita quotidiana, mimata dai personaggi sul palcoscenico.
Si comincia al v. 127 del canto XXIII, con Virgilio che, tutto contegnoso (ci pare di udirne la voce impostata, come quella degli attori di una volta, alla Ruggero Ruggeri), si rivolge a fra’ Catalano: «Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci / s’a la man destra giace alcuna foce / onde noi amendue possiamo uscirci […]» (XXIII, vv.127-129). Con lo stesso tono sostenuto di civile conversazione tra gentiluomini, ma già con una punta di malizia, il frate godente bolognese risponde che la via d’uscita è sì vicinissima … ma putroppo rotta e impraticabile perché in quella bolgia tutti i ponti sono crollati. Scoprire di esser stato ingannato dai Malebranche è un colpo per il maestro e duca Virgilio, il quale «stette un poco a testa china; / poi disse: “Mal contava la bisogna / colui che i peccator di qua uncina”» (vv.139-141). La sententia, che vorrebbe esser meditabonda e grave, risulta solo candidamente ottusa, il che offre il destro al frate di centellinare la sublime perfidia di una battuta che è un piccolo capolavoro di finta bonomia clericale e bolognese (chi ha soggiornato almeno un po’ sotto le due torri può meglio apprezzare il secondo aggettivo, che non mi dilungo a spiegare perché ho troppi amici in terra felsinea). «Io udi’ già dire a Bologna / del diavol vizi assai, tra ‘ quali udi’ / ch’elli è bugiardo, e padre di menzogna» (vv.140-141). È come levare a uno la pelle con l’aria di fargli una carezza. Dargli del coglione, ma con sorridente rispetto e apparente solidarietà. Una presa per i fondelli benevolmente sadica, ma eseguita alla perfezione. Chapeau.
Per quanto ne so, ci sono tre modi di farsi beffe dell’altrui bêtise. Il primo, in cui però si rischia spesso di evidenziare la propria, è quello di farlo apertamente, in maniera plateale, in modo che tutti capiscano e partecipino all’irrisione. Di questo sono capaci in tanti (mi vengono in mente ad esempio certi giornalisti oggi molto in voga, di cui non faccio i nomi per non dar loro un’importanza che non hanno), e i pochi che non ne sono capaci forse è solo perché sono migliori degli altri. Non è poi così difficile far ridere mettendo alla berlina qualcuno, e neanche farlo in modo così efficace che tutti ridano di lui. Però non bisognerebbe dimenticare che quando tutti ridono di qualcuno, quel tale diventa una vittima, e acquista ipso facto la dignità che tutte le vittime, anche le più ridicole, hanno (almeno agli occhi di chi sa). In ogni caso, anche quando è ben costruita, la beffa dichiarata è sempre un po’ volgare; e sempre a rischio di far scivolare il beffatore, suo malgrado e a sua insaputa, allo stesso livello del beffato.
C’è poi un’ironia tutta e solo interiore, invisibile al mondo perché agita esclusivamente nello spazio della coscienza individuale. Il viso del beffatore resta impassibile, le parole paiono serie, e fuori suonano in una certa maniera che non lascia pensare che dentro, invece, egli sorrida di chi le ascolta, o addirittura che lo stia deridendo). Qui c’è già più decoro, anche se si tratta per lo più della dignità del servitore, dell’alunno, del detenuto o del coscritto: di tutti coloro, insomma, che sono obbligati a dipendere da superiori e a “stare al loro posto”; quelli che le loro distanze critiche possono prenderle solo interiormente. Quanti camerieri e quanti cortigiani, nei secoli, si saranno fatti beffe in questo modo dei loro signori tronfi e imparruccati! Anche questa ironia solitaria e muta, peraltro, pur se giustificata dalla condizione servile, rischia di degenerare nell’ipocrisia malvagia dell’adulazione; oppure, per converso, quando non è obbligata dalle circostanze, rivelarsi come l’espressione di una forma di abietto narcisismo: l’onanistico piacere di colui che “ride dentro”, da solo, godendo del fatto che nessuno altro si accorge della sua intelligenza, lui che prende in giro tutti perché è superiore a tutti.
C’è infine una terza via, liminale e stretta, e perciò assai difficile da mantenere senza scadere in una delle altre due. In questo caso, chi se lo merita viene sì preso in giro, però in modo sottile, leggerissimo, quasi impalpabile ma non del tutto impercettibile. Non gli si dà apertamente del coglione, ma neppure gli si nega, d’altro canto, una seconda occasione per accorgersi di quanto lo sia stato. È quello che fa qui, mirabilmente, fra’ Catalano: parla in un modo che ad uno sciocco parrebbe serio, ma che Virgilio – il quale naturalmente non è affatto uno sciocco, ma ha solo avuto una botta di coglioneria, come capita a tutti (e alle persone molto intelligenti forse più spesso che ad altri) – intende perfettamente. Tanto da esserne ustionato: sotto il colpo di quella sferza non può fare a meno di esibirsi in una uscita di scena melodrammatica: «Appresso il duca a gran passi sen gì, / turbato un poco d’ira nel sembiante» (vv. 145-146). Versi che non stonerebbero in un libretto verdiano, se posso permettermi l’irriverenza. (A casa mia si sarebbe detto più volgarmente che se ne va “a culo diritto”; espressione che ora scopro sulla rete essere anche il titolo di una canzone a me ignota di Guccini – nella variante «culodritto» – e perciò gabellata come locuzione tipica modenese).
Sipario e applausi. Quando torniamo in sala, dopo l’intervallo al foyer, il programma ci offre un idillio (non nel senso leopardiano, ma in quello teocriteo del termine): un delizioso mimo di quindici versi (XXIV, 1-5) in cui assistiamo, divertiti e ammirati per la bravura dell’autore e dell’interprete, alle piccole avventure del «villanello a cui la roba manca». È come uno di quei cammei così perfetti da ridicolizzare la definizione di arte minore che una volta si attribuiva alla glittica. Se di Dante ci fossero arrivati solo quei quindici versi, certo da essi non potremmo immaginare che ha scritto la Commedia, ma basterebbero a farci capire che gran poeta sia stato e a farci rimpiangere la perdita di tutto il resto.
La scenetta del villanello, teatro nel teatro, serviva a darci l’idea dello sbigottimento che si impadronisce di Dante personaggio al vedere il suo maestro così turbato e dell’immediato conforto che gli viene dal «piglio dolce» con cui questi gli si rivolge dopo essersi rapidamente ricomposto. Segue una scena d’azione, che sarebbe più adatta alle possibilità del cinema che a quelle del teatro (ma nello spazio interiore del teatro mentale, in cui si muove la drammaturgia letteraria, c’è il vantaggio che si puù fare di tutto). Si tratta infatti di far vedere una cosa nuova, inusitata nel viaggio infernale e anticipatrice di quello che sarà invece il percorso del Purgatorio. Bisogna risalire dal fondo della sesta bolgia, arrampicandosi sulle ruine del ponte crollato, per raggiungere l’argine che la separa dalla settima.
All’inferno si provano tutte le più orribili sensazioni e ci sono difficoltà di ogni tipo. Una sola cosa manca: la fatica. Come non si fa fatica ad andarci, basta “lasciarsi andare”, così non si fa fatica neppure a percorrerlo. Si scende, si cade, si precipita: per questo basta la gravità, non c’è bisogno di sforzarsi. Per salire, invece, di fatica se ne fa. E tanta. Ecco allora qui (vv. 22-78) la sua rappresentazione plastica, recitata con qualche enfasi dai due attori. Virgilio più declamatorio che mai: «“Omai convien che tu così ti spoltre”, / disse ‘l maestro; ché, seggendo in piuma, / in fama non si vien, né sotto coltre; // sanza la qual chi sua vita consuma, / cotal vestigio in terra di sé lascia, / qual fummo in aere e in acqua la schiuma”» (vv. 46-51, ma poi va avanti sullo stesso tono fino al v.57). E Dante comicamente teso ad imitarlo nella posa scultorea: «Leva’mi allor, mostrandomi fornito / meglio di lena ch’i’ non mi sentia, / e dissi: “Va, ch’i’ son forte e ardito”» (vv.58-60).