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  • La chiesa e la crisi degli anni sessanta.

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~ Vanitas ludus omnis

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Archivi Mensili: Maggio 2020

Fondatori affondati

31 domenica Mag 2020

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Chiesa, movimenti

Non dico nulla sulla incresciosa vicenda dell’allontanamento di Enzo Bianchi dalla comunità di Bose, ordinato dal papa in seguito a conflitti sorti all’interno di quella associazione di fedeli. A differenza di chi ha scritto che “si capisce bene che cosa sia successo”, professo la mia completa ignoranza: so soltanto quello che è stato scritto nei comunicati ufficiali, quindi non come siano andate effettivamente le cose, e, come si suol ripetere, «su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». (Mai letto il Tractatus e il mio Wittgenstein finisce qui; però ho un amico, mio compagno di scuola al liceo, che in compenso sa tutto ma proprio tutto sull’argomento).

Il silenzio è anche una forma di rispetto per le sofferenze che il fatto ha provocato, immagino, a molte persone. Osservo soltanto che esso non mi è parso “enorme”, come invece ad altri è sembrato, anche perché non è affatto eccezionale. Ed è proprio su questo che un’osservazione mi sento di farla.

In questi ultimi anni sono stati molti i casi di fondatori di nuove comunità, movimenti o gruppi spirituali che sono stati “colpiti e affondati”, se così posso esprimermi, perché travolti dagli scandali o perché entrati in irrimediabile conflitto con le autorità ecclesiastiche e/o con le loro stesse “famiglie religiose”. Ho detto molti, ma avrei dovuto dire moltissimi in rapporto a quello che sarebbe stato normale attendersi. Comunque troppi. Sia ben chiaro che ciascun caso va considerato in se stesso, e sarebbe gravemente ingiusto fare di ogni erba un fascio accomunando situazioni che possono essere anche molto diverse tra loro. Però non si può negare che esista un denominatore comune, in quella che potremmo indicare come “l’umiliazione del padre”: o perché il padre si rivela un “cattivo padre”, quando non addirittura un orco (come nel caso, che a me parrebbe, per quanto se ne sa, il più mostruoso di tutti, quello di Marcial Maciel, fondatore dei Legionari di Cristo), o perché tra il padre e i figli si apre un dissidio insanabile (di chiunque sia la responsabilità maggiore). Che questo doloroso fenomeno si sia ripetuto ormai tante volte e in tempi così ravvicinati non può non interrogarci. Non sto a fare un elenco perché credo che non ce ne sia bisogno: chi segue con attenzione le vicende della chiesa sa già a che cosa mi riferisco, e chi invece non se ne interessa più di tanto forse fa meglio a rimanere nella sua inconsapevolezza.

La domanda è: come dobbiamo comprendere e che cosa dobbiamo imparare da questi fatti, perché essi non restino degli “scandali”, cioè delle pietre d’inciampo, ma si trasformino in strumenti, per quanto dolorosi, di purificazione, cioè di grazia?

Il 31 maggio del 1998 (era la domenica di Pentecoste anche allora), san Giovanni Paolo II benediceva i rappresentati di oltre cinquanta movimenti ecclesiali che si erano riuniti per la prima volta a congresso e che la vigilia di Pentecoste avevano partecipato con lui  ad una memorabile veglia di preghiera, alla presenza di quasi trecentomila persone, con queste impegnative parole: «Movimenti e nuove Comunità, espressioni provvidenziali della nuova primavera suscitata dallo Spirito con il Concilio Vaticano II costituiscono un annunzio della potenza dell’amore di Dio che, superando divisioni e barriere di ogni genere, rinnova la faccia della terra, per costruirvi la civiltà dell’amore». Per questo, aggiunse il papa, «la chiesa si aspetta da voi frutti maturi di comunione e d’impegno».

Ventidue anni dopo, molti dei protagonisti di quel grande incontro non sono più tra noi. Di alcuni di quei “padri”, la memoria si staglia sempre più luminosa di santità (penso, ad esempio, oltre che naturalmente allo stesso Giovanni Paolo II, ufficialmente canonizzato, al servo di Dio don Luigi Giussani), ma anche le loro eredità non sono state e non sono facili da portare. Di altri invece (di troppi altri!), sono venute alla luce miserie, contraddizioni, doppiezze o incoerenze morali tali da rendere assai più problematico il loro retaggio. Penso, ad esempio, a Jean Vanier, che in quella veglia fu tra coloro che “diedero testimonianza”.

In ogni caso, dov’è oggi il clima fervido di speranza che animava quell’incontro? Perché quella “primavera” sembra ormai così remota? C’è da riflettere, mi pare.

 

 

Frenare l’ingegno? (#Dante, Inferno, canto XXVI, vv. 19-24)

29 venerdì Mag 2020

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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cultura, curiositas, Dante, ingegno, studiositas, temperanza

Non sia mai! Questo è ciò che la mentalità moderna in ogni caso non accetta: può ammettere che si ponga un freno alle applicazioni dell’ingegno umano, ma non al suo libero dispiegarsi nella ricerca di conoscenze. Il presupposto di questo convincimento così radicato e diffuso è l’idea che il giudizio morale riguardi solo l’agire, non il conoscere. Che vi sia una moralità della conoscenza, nella nostra prospettiva, è escluso. «Virtute e canoscenza» – il binomio della formula di Ulisse che sta al centro di questo canto – letto in questa chiave non può che essere un’endiadi, poiché la conoscenza in quanto tale è sempre e comunque virtuosa.

Questo modo di pensare, tuttavia, trascura e finisce per negare l’unità della persona umana. Esiste, al contrario, una moralità della conoscenza e, corrispondentemente, una radice noetica (o dianoetica, come avrebbe detto Aristotele) di tutti i comportamenti, virtuosi o viziosi dell’uomo: ci si comporta bene o male innanzitutto perché (e nella misura in cui) si pensa bene o male. Gli antichi (greci e poi cristiani) lo sapevano, e Dante sente il bisogno di riaffermarlo in prima persona, e con grande forza, in questi sei versi che sono fondamentali per comprendere il senso dell’intero canto:

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio / quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi, / e più lo ingegno affreno ch’io non soglio, // perché non corra che virtù nol guidi; / sì che, se stella bona o miglior cosa / m’ha dato ‘l ben, ch’io stesso nol m’invidi. (vv. 19-24)

Qui il poeta segue da vicino il pensiero di san Tommaso: «Rispetto alla conoscenza ci sono nell’uomo due tendenze contrastanti. Poiché dalla parte dell’anima l’uomo è inclinato a desiderare la conoscenza delle cose: e da questo lato deve tenere a freno tale desiderio, per non cercare sregolatamente la conoscenza. Invece dalla parte della natura corporea l’uomo è inclinato a evitare la fatica necessaria per l’acquisto della scienza. Perciò rispetto alla prima di queste tendenze la studiosità (studiositas) è un freno: e per questo è tra le parti della temperanza. Invece rispetto alla seconda il valore di questa virtù sta in una certa forza di applicazione nell’acquisto della scienza: e da questa prende il nome. La prima di tali tendenze tuttavia è più essenziale della seconda in questa virtù. Infatti il desiderio di conoscere è essenziale alla conoscenza, a cui la studiosità è ordinata. Invece la fatica dello studio è un certo impedimento alla conoscenza, per cui è qualcosa di accidentale in questa virtù, come un ostacolo da superare» (Summa Theologiae, II, II, quaest. 166, art.2). Senza governo della virtù cardinale della temperanza studiositas, nella forma specifica della studiositas, la brama di conoscenza degenera in curiositas, a prescindere dalla qualità degli oggetti su cui si esercita: ne può essere affetto non solo il ficcanaso o il pettegolo, ma anche lo scienziato e il filosofo. Tertulliano già ammoniva che post Christum Iesum la curiositas non ha più ragion d’essere nella nostra vita, e Dante – che ancora nel II canto si era rivolto con deferenza al suo «alto ingegno» (II, 7) per chiedere aiuto nell’impresa a cui si accinge, ma già nel X aveva smentito la presunzione di Cavalcante che essa potesse compiersi solo in forza di un’«altezza d’ingegno» (X, 59) evidentemente considerata dal padre di Guido come il valore sommo della vita – ora sente il bisogno di “spogliarsi dell’uomo vecchio” con questa assunzione d’impegno, che è anche una franca confessione dei suoi errori passati.

L’incontro con Ulisse pone una krisis decisiva, un giudizio di purificazione e di distacco da un’idolatria dell’intelligenza che Dante aveva condiviso con altri intellettuali (come appunto Guido e suo padre), così come l’incontro con Francesca aveva purificato l’equivoco dell’amore cortese e quello con Farinata l’illusione della politica.

Una città di ladri. (#Dante, Inferno, canto XXVI, vv.1-12)

25 lunedì Mag 2020

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Dante, Firenze, invettiva, ladri, retorica

Il canto XXVI è così grande – e tosto! – che sarà meglio sbocconcellarlo e masticarlo bene un po’ alla volta.

I primi dodici versi appartengono ancora tutti alla materia del canto precedente e ce la completano. Presi dallo spettacolo delle metamorfosi, infatti, noi non avevamo badato molto al fatto che gli interpreti della rappresentazione erano tutti fiorentini. Ma Dante ci bada eccome. In una mentalità come la sua, molto più relazionale della nostra, non è neppure concepibile l’individuo a se stante, l’uomo astrattamente e “monadicamente” inteso – che è invece quello da cui tendiamo sempre a partire noi, per poi magare parlare molto (e vivere poco) di relazioni: l’uomo, nella concezione dantesca, è sempre “uomo di” qualcuno e/o qualcosa. «Chi fuor li maggior tui?» è la prima domanda che gli rivolge Farinata, ed egli trova perfettamente naturale che sia così. A questo mondo, si è sempre “di” una famiglia, “di” una parte, o “di” un luogo: la persona è comunque strettamente legata alle sue appartenenze, in un reciproco coinvolgimento di responsabilità e di destino. (Le cose, come vedremo, saranno in parte ma solo in parte diverse nel Purgatorio e nel Paradiso). Per questo, l’orribile Vanni Fucci porta con sé la maledizione di Pistoia: «Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi / d’incenerarti sì che più non duri, / poi che ‘n mal fare il seme tuo avanzi?» (XXV, vv. 10-12); e gli altri ladri del canto XXV, di cui non stiamo a ripetere i nomi perché a noi non dicono proprio nulla, sono “di” Firenze. Quindi sono, in un certo senso, “di” Dante stesso: roba sua, anzi carne sua.

Di qui la diversa qualità dell’invettiva che immancabilmente esplode subito dopo la loro uscita di scena: quella contro Pistoia era diretta, rude, estrema e spietata, come si conviene ad una città che non è la sua; quella contro Firenze, altrettanto se non più violenta, è invece sofferta, tremante e, se così posso dire (non mi viene un’espressione migliore), “introversa”, nel senso che colpisce dentro nel momento stesso in cui la scaglia fuori: come se la lama affondata nel corpo della città-madre ferisse al contempo il figlio che la brandisce. Per darcene la viva impressione, il poeta convoca le risorse della sua retorica, ma direi che per quanto sapiente essa sia ci appare anche come una “retorica naturale”, di quella che sorgerebbe spontanea alle labbra di uno di noi che si trovi a vivere lo strazio di dover offendere una persona amata.

«Godi Fiorenza, poi che se’ sì grande / che per mare e per terra batti l’ali, / e per lo ‘nferno tuo nome si spande!» (vv.1-3). Questa è l’ironia, che esprime e al tempo stesso trattiene un’indignazione che sarebbe altrimenti incontenibile. L’ironia, si dice, esprime distacco; ma qui è necessaria per il troppo attaccamento. E con l’ironia toviamo l’iperbole («per mare e per terra batti l’ali»), perché la rabbia non può (io direi quasi che non deve) “misurare le parole”, ma porta ad esagerare.

«Tra li ladron trovai cinque cotali / tuoi cittadini onde mi ven vergogna, / e tu in grande orranza non ne sali» (vv.4-6). Qui c’è la litote, che di solito si dice che sia una figura di attenuazione, ma qui invece paradossalmente intensifica, e di molto, la forza dell’accusa proprio perché la vela, come per una sorta di pudore. Il pudore che inevitabilmente trattiene, nei confronti di una madre svergognata, un figlio che, nella sua rabbia, però si vergogna per lei e non solo di lei. Si noti il gioco dei pronomi: «tuoi cittadini», «mi ven vergogna»; «e tu in grande orranza non ne sali». Felicissima contraddizione del fiorentino Dante, perché del tutto vera: la corruzione della sua città non gli appartiene e al tempo stesso lo riguarda direttamente; il disonore non è suo, però se ne sente infangato.

«Ma se presso al mattin del ver si sogna, / tu sentirai, di qua da picciol tempo, / di quel che Prato, non ch’altri t’agogna» (vv. 7-9). Se per Pistoia c’era stata una franca maledizione, qui c’è di peggio ancora: una profezia maledicente. “Manca poco, Firenze, e poi ti toccherà quella tremenda punizione che tutti agognano per te (perché vedi, ti odiano tutti, anche a Prato che è a due passi da te)”. Ma se la maledizione di Pistoia era senza complessi, qui, subito dopo aver detto questa cosa tremenda, arriva, con una terzina meravigliosamente sofferta e contorta, la confessione di un dolore che non si può nascondere, che innalza la maledizione a preghiera. Comincia così: «E se già fosse, non saria per tempo. / Così foss’ei, da che pur esser dee!» (vv.10-11). Questo si chiama poliptoto e credo che raramente sia stato usato con tanta efficacia: il verbo più semplice e piano che ci sia, il verbo essere, qui si contorcere e si accartoccia nell’animo di un uomo straziato dalla rabbia e dal dolore. Il castigo profetizzato – per quanto giusto e inevitabile, agognato da tutti i non fiorentini e in un certo senso desiderato da Dante stesso per la “sua città di ladri” – quando verrà gli farà male. Anzi gliene fa già adesso solo a pensarci. Se deve venire, che venga presto, prima possibile, prima della vecchiaia: «ché più mi graverà, com’ più m’attempo» (v.12).

Il personaggio Dante ha trentacinque anni, l’autore che scrive questi versi ne ha alcuni di più (non sappiamo esattamente quanti, forse una decina), ma, già provato dall’esilio e forse anche dalla fatica della sua impresa sovrumana, sente non lontano l’arrivo della vecchiaia e lo teme perché sa che i vecchi sono fragili. Ecco il senso della confessione sfuggita in questo verso: “Venga presto, Signore, il tuo castigo, quando ancora ho le forze per sopportarlo”. Così però la maledizione si è già trasformata (suo malgrado?) in preghiera.

Cambiare corpo: Il fascino perverso della metamorfosi (#Dante, Inferno, canto XXV)

22 venerdì Mag 2020

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corpo, Dante, metamorfosi, Ovidio

Sparito Vanni Fucci, l’aura di violenza e di bestemmia che da lui promana si dissolve, con un ultimo riflesso nel rapido passaggio di Caco «pien di rabbia», centauro relegato in questa bolgia, lontano dagli altri, in quanto ladro dell’armento di Ercole (cfr.  vv.17-33). Il sopraggiungere di altri tre dannati dà luogo infatti ad un meraviglioso e orrifico spettacolo di metamorfosi, che riempie di sé tutto il resto del canto (vv. 46-151).

È il trionfo di quella che nella retorica antica si chiamava ἐνάργεια o evidentia: la capacità di rappresentare una scena per mezzo delle parole in modo così vivido ed impressionante che la cosa sembri svolgersi proprio davanti ai nostri occhi («ut res ante oculos esse videatur» dice la Rhetorica ad Herennium). Qui Dante è di una bravura mostruosa, ne è consapevole e la ostenta con un candore quasi fanciullesco: dopo aver caricato l’attesa del lettore con un’avvertenza preliminare («Se tu se’ or, lettore, a creder lento / ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia, / ché io che ‘l vidi, a pena il mi consento», vv.46-48), nel bel mezzo della descrizione si lascia andare ad una rivendicazione sonora e compiaciuta di superiorità artistica sui grandi poeti dell’antichità: «Taccia Lucano omai là dov’e’ tocca / del misero Sabello e di Nasidio, / e attenda a udir quel ch’or si scocca. // Taccia di Cadmo e d’retusa Ovidio, / ché se quello in serpente e quella in fonte / converte poetando, io non lo ‘nvidio; // ché due nature mai a fronte a fronte / non trasmutò sì ch’amendue le forme / a cambiar lor matera fosser pronte» (vv. 94-102). (In Romagna questo si dice “fare lo sborone” e sarà per un fatto etnico, ma a me ispira grande simpatia: lettori e lettrici di altra provenienza potranno forse non gradire e diranno la loro, se vorranno, in proposito).

Forse potrebbe anche bastare questo aspetto “tecnico” come premio della nostra lettura, giacché il vanto dantesco è del tutto meritato: in questo canto potremmo accontentarci di ammirare la bravura dell’artefice, come fa il bambino che al circo sta col naso all’insù e gli occhi spalancati, tutto preso dal volo dell’acrobata che esegue – come ha detto poco prima l’imbonitore – “un numero mai visto prima”, di inaudita difficoltà e per giunta “senza rete”. Del resto è proprio quello che fanno Dante e Virgilio, muti e passivi fino alla fine del canto (ed è l’unica volta in tutto l’inferno), anche loro intenti solo a contemplare da spettatori, il monstrum delle metamorfosi dei ladri.

In questo nostro percorso, però, noi cerchiamo sempre, sia pure in modo elementare, ragioni teologiche (e quindi morali) della scrittura dantesca: e sempre ce ne sono, geniali e profonde. In questo caso vorrei attirare l’attenzione sul tema della metamorfosi e di quello che nel titolo ho chiamato il suo fascino perverso, che consiste nel desiderio di avere altri corpi – il che significa altre identità e altre vite – rispetto all’unico che invece ci è dato. Non vi è dubbio che qui stia la ragione principale del fascino che la metamorfosi esercita sul nostro animo. Ciascuno di noi è unico e irripetibile, ma appunto in quanto unico è anche uno. Uno solo e non di più: questa essenziale dimensione dell’unicità si aggancia inscindibilmente alla corporeità. Siamo unici perché abbiamo un corpo e un corpo solo. Se la mente può dirsi plurale”, nel senso che è in grado di fingere dentro di sé una pluralità di mondi, vite e identità diverse, sicché nello spazio mentale l’uno può fingersi molti (il che può essere creatività, libertà, audacia oppure degenerare in follia), il corpo no: il corpo è singolare. Il che ci è di ostacolo. L’odio, ad esempio – perché di vero odio si tratta – che oggi imperversa contro l’identità sessuale, a cui si vuole a tutti i costi sostituire una cangiante, multipla e libera “rappresentazione di genere”, ha molto a che fare con questo scandalo dell’unicità del corpo. Come se, in un mondo che vuole forsennatamente essere “politeista”, il “monoteismo del corpo” non fosse più tollerabile.

Nel mondo cristiano, l’unica identità che ciascun  Adamo riceve nel momento in cui Dio lo impasta con un po’ di creta è anche la base della sua certezza, il basic trust su cui egli può fondare la sua esistenza, e quindi una grazia di cui essere profondamente grato e la radice del culto a Dio gradito (come dice, citando un salmo, Ebr 10,5: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato»). Nel mondo non più cristiano, invece, essa viene sentita come una condanna. “Non ti dò alcuna identità” – dice Dio ad Adamo nella reintrepretazione moderna del racconto della creazione inaugurata da Pico della Mirandola – “puoi essere ciò che vuoi”: ma questo non è più Adamo, bensì Proteo, l’inafferrabile dio che può assumere ogni forma.

Dante, che ha amato molto il grande (e modernissimo) poema di Ovidio, forse secondo solo all’Eneide quanto ad influenza esercitata sulla Commedia, non può non aver percepito il fascino della sua sontuosa rappresentazione di una realtà “liquida” – come oggi si direbbe – in cui tutto cangia e si trasforma e nulla ha stabile consistenza. Misurarsi così a fondo con l’autore delle Metamorfosi, come egli fa in questo canto, potrebbe dunque non essere solo l’espressione di una volontà di competizione artistica ma anche il modo per esorcizzare la suggestione di quel modello: più bravo di Ovidio nel far vivere davanti ai nostri occhi una doppia metamorfosi simultanea, il poeta cristiano si incarica però di spogliarla di ogni bellezza, lasciandole solo la forza di un opprimente, ottuso stupore.

 

Lavarsi le mani. (Chiesa, ragionevolezza e #coronavirus)

19 martedì Mag 2020

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chiesa italiana, coronavirus, Liturgia, Santa Messa

Ieri sono andato a messa, come immagino abbiano fatto molti lettori di questo piccolo blog. Nella mia parrocchia penso sia stato fatto tutto secondo il famoso Protocollo (di solito uso pochissimo le maiuscole, ma qui ci vuole!): tutti con le mascherine, distanza di sicurezza, disinfezione delle mani all’entrata eccetera eccetera. Non discuto, mi va bene così. Del resto, a me singolarmente è andata di lusso anche nei due mesi appena trascorsi: possibilità di fare un’ora di adorazione eucaristica tutti i giorni; possibilità di confessarsi; partecipazione alla messa di Pasqua (in quanto lettore) e comunione eucaristica dopo una delle due confessioni che ho fatto. Grasso che cola, per dirla in modo volgare, rispetto alla condizione in cui versano normalmente tanti altri cristiani nel mondo. Non ho nulla di cui lamentarmi, anzi mi sono sentito francamente un privilegiato: mai come in questi due mesi il sacramento è stato così centrale nella mia vita: quell’ora di adorazione in chiesa, dalle 18 alle 19, è diventata il perno felice dell’intera mia giornata. La gratitudine per quanto ho ricevuto non mi impedisce però di temere che, in generale, le cose non siano invece andate altrettanto bene per la chiesa italiana. Anzi, per dirla tutta, io temo che siano andate molto male. Cerco di spiegare perché.

Ieri sera, andando a messa, naturalmente io e gli altri fedeli abbiamo corso un rischio: del tutto ragionevolmente, aggiungo subito. In che consiste, infatti, la ragionevolezza umana  (e tanto più cristiana, essendo la fede in Cristo il vertice dell’umana ragione) di un comportamento rischioso? Nella proporzione tra l’entità del rischio che si corre (data dalla magnitudine del danno paventato e dalla probabilità che esso si verifichi) tenuto conto dell’adeguatezza e dell’efficacia presunta delle precauzioni che si prendono, in rapporto al valore del bene che si ottiene o si preserva correndolo. Per esempio: uscire di casa e camminare per strada comporta dei rischi, ad esempio quello che ci cada in testa un oggetto sufficientemente pesante da ucciderci (un pezzo di cornicione deteriorato, un vaso di fiori mal collocato, il ramo di un albero malato … perfino un meteorite). Il danno potenziale è gravissimo, ma la probabilità che si verifichi è talmente bassa che sarebbe irragionevole chiudersi in casa, e sarebbe irragionevole anche mettersi l’elmetto. Se è in corso un temporale, il rischio di inzupparsi d’acqua è molto alto, anche se si indossa l’impermeabile e si usa l’ombrello, ma la grandezza del danno potenziale è di molto inferiore: uscire di casa solo per fare una passeggiata sarebbe perciò irragionevole, ma non lo sarebbe affatto andare in farmacia a prendere una medicina di cui qualcuno ha bisogno, perché il bene che in questo modo si consegue è di molto superiore al potenziale danno di un raffreddore. Se però fosse in corso non un temporale ma un bombardamento, il giudizio di ragionevolezza cambierebbe: uscire dal rifugio sarebbe sensato (ed eroico) solo per salvare una vita. E così via.

L’eclissi della ragione che il regime della paura ha indotto in tutti noi ha di fatto vietato che le persone si ponessero in termini razionali la questione di quali comportamenti adottare di volta in volta, in rapporto ad una entità di rischio che si doveva cercare di stimare in modo specifico e concreto. Non potendolo (o non volendolo) fare, si è sequestrata l’intera società (oltretutto stracciando la costituzione, che prevedeva altri modi di affrontare l’emergenza): tutti in casa, se no moriamo tutti. (A questa retorica se ne è peraltro contrapposta un’altra, ugualmente terroristica: aprite tutto, se no moriamo tutti di fame).

Tutto è rischioso, nella vita, e la sola profilassi assoluta, totale e definitiva nei confronti del Covid-19 sarebbe smettere di respirare. Ma la domanda, ineludibile per quanto difficile sia la risposta, è “quanto rischioso?” Quanto è rischioso stare a lungo in una stanza vicino ad una persona infetta senza dispositivi di protezione? E con i dispositivi?; quanto lo è starci a distanza di due metri, o di quattro?; quanto lo è stare alla stessa distanza, ma all’aperto?; e quanto lo è starci a distanza, all’aperto, per pochi minuti?; e quanto incrociarla solo per pochi secondi mentre si cammina dall’altra parte della strada? Quante goccioline (dunque quanta carica virale, se si è infetti) e a che distanza si emettono starnutendo? E tossendo? E cantando? E parlando? E a bocca chiusa, respirando col naso? Eccetera eccetera: le domande si potrebbero moltiplicare, e so bene che possono suonare inopportune e pedanti, perché le risposte non sono facili, ma tengo il punto: senza una stima almeno approssimativamente attendibile dell’entità del rischio non è possibile determinare la ragionevolezza delle azioni che si compiono e si diventa come pecore senza pastore, pronte ad essere preda dei lupi. Privi di un criterio per valutare le nostre azioni siamo vittime predestinate della dittatura di chi detiene il potere.

Quando vedo persone che camminano da sole, in aperta campagna, indossando mascherina e guanti, mi chiedo da che cosa intendano proteggersi; e quando alla televisione mi fanno vedere costose sanificazioni di luoghi chiusi da settimane (siano essi negozi o la basilica di San Pietro) mi chiedo come abbia fatto il virus a penetraarvi e come vi sia sopravvissuto nella solitudine. In compenso, in tutte queste settimane non ho mai sentito nessuno avvertire che sarebbe meglio evitare gli ascensori, se si può: senza essere virologo, mi pare che la probabilità di contrarre il virus nell’abitacolo di un ascensore, se nelle ore precedenti vi ha tossito o starnutito una persona infetta, sia decisamente più alta e d’altro canto fare le scale è sì scomodo ma salutare, soprattutto in tempi di inattività forzata. Ne consegue l’assoluta ragionevolezza di preferirle, eppure non l’ho sentito consigliare da nessuno … È solo un esempio, ma indicativo di una generale trascuratezza di quel principio di ragionevole proporzionalità che sopra invocavo. Anche alla messa di ieri sera, per fare un altro esempio, si è immediatamente proceduto a disinfettare le panche dopo la fine del culto (rischio bassissimo, per non dire quasi inesistente), ma si è cantato (con conseguente aumento delle goccioline emesse, dunque del rischio): non c’è proporzione.

La chiesa, infatti, mi sembra che abbia purtroppo subito il regime della paura come tutti gli altri. Invece di “pensare con la sua testa” (eppure, dice Paolo, «noi abbiamo il pensiero di Cristo»!), si è legata mani e piedi al carro del governo e dei suoi comitati. La messa, a cui ho partecipato ieri si poteva fare, alle stesse condizioni di ragionevole rischio, anche due mesi fa. Il virus infatti non è sparito dall’Italia e la possibilità di infettarsi esiste anche adesso; non sono in grado di dire se e di quanto sia minore rispetto a due mesi fa, ma certo non siamo in un ordine di grandezza abissalmente distante (non è 1 rispetto a 100, per dire). Dunque se ora, con certe precauzioni, si può partecipare alla messa correndo un certo rischio, con le stesse precauzioni lo si poteva fare anche prima correndo un rischio simile o di poco superiore. Perché non lo si è fatto? La questione torna quella da cui siamo partiti: è ragionevole correre tale rischio? Poiché la probabilità di infettarsi è bassa e il danno potenziale alto (se andando a messa si diffonde il contagio, a molti non succede niente di grave, pochi altri prendono una brutta malattia, ma qualcuno muore), tutto dipende dal valore del bene che è in gioco. Quanto è importante che i fedeli possano partecipare alla messa? Se, per stare agli esempi fatti sopra, vale quanto uscire a prendere una boccata d’aria, è ragionevole rinunciarvi anche se c’è solo il rischio di prendere la pioggia. Se invece è come un farmaco salvavita, per procurarselo ha senso uscire anche sotto le bombe.

Mi spiace moltissimo dirlo, lo faccio solo con dolore e senza alcuno spirito polemico, ma sono convinto che la chiesa italiana, nel suo insieme e più che altro per il modo (direi quasi lo stile) del suo agire, ha comunicato, di fatto, il messaggio che andare a messa non era molto importante. E questo resta. Ci si metteranno mille pezze e mille cerotti, ma resta.

E il lavarsi le mani del titolo che cosa c’entra? Beh, c’è un particolare che mi ha colpito: il Protocollo credo preveda che il sacerdote si disinfetti le mani e indossi i guanti immediatamente prima di distribuire le particole ai fedeli. So che questo ha fatto gridare alcuni allo scandalo, personalmente non mi straccio le vesti però non posso fare a meno di notare una cosa: una purificazione delle mani, il rito della messa la prevede già, al momento dell’offertorio. Si dirà, ovviamente, che si tratta di un puro simbolo, consistente nel versare poche gocce d’acqua sulle mani del celebrante. Però un simbolo si radica sempre in una realtà materiale sottostante. L’acqua è un simbolo di purificazione in quanto è il detergente naturale per eccellenza, se no non lo sarebbe. Che cosa ci sarebbe stato di più liturgico (nel senso di più aderente allo spirito della liturgia) di ridare a quel simbolo, in forza delle circostanze eccezionali in cui ci troviamo, anche tutta la sua valenza materiale originaria? Voglio dire: invece di inserire una zeppa a-liturgica come il gesto di disinfettarsi e mettersi i guanti di lattice prima della distribuzione dell’eucarestia – un gesto che viene da un altro ordine e risponde ad un altra autorità rispetto a quella della lex orandi – non sarebbe stato molto meglio prevedere che al momento dell’offertorio la purificazione delle mani consistesse in una loro effettiva disinfezione? Dopo di che, ragionevolmente, durante la preghiera eucaristica e nell’atto della consacrazione il sacerdote le mani come può mai contaminarle? E se con quelle mani pure prende le ostie che distribuisce ai fedeli, ragionevolmente chi può mai infettare? I guanti di lattice per toccare le particole, più che sacrileghi come alcuni dicono mi paiono irragionevoli. Il che, dal punto di vista sopra esposto, non è meno grave.

Vanni Fucci, bestia, e noi. (#Dante, Inferno, canto XXIV, seconda puntata)

18 lunedì Mag 2020

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bestemmia, bestialità, Dante, umanità

Guardando nel fondo della settima bolgia si vede una «terribile stipa / di serpenti e di sì diversa mena / che la memoria il sangue ancor mi scipa» (vv. 82-84). Dal tono elevato, da dramma borghese, tenuto finora nel dialogo fra i due viandanti, si vira bruscamente al pulp (anche se di qualità altissima, beninteso), entrando in un rettilario spaventoso in cui Dante, con vena sontuosamente espressionistica, ci ammannisce versi succulenti cone questi: «Più non si vanti Libia con sua rena; / ché se chelidri, iaculi e faree / produce, e cencri con anfisibena, // né tante pestilenze né si ree / mostrò già mai con tutta l’Etïopia / né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe» (vv. 85-90).

(In una scuola ideale, in cui il tempo disponibile non fosse un problema – tipo un liceo in cui si studiasse solo la Divina Commedia! – sarebbe bello a questo punto chiudere il libro e far disegnare ai ragazzi per tutta la mattina “chelidri”, “iaculi”, “cencri” e “anfisibene”, immaginandoseli solo grazie al suono di queste misteriose denominazioni. Scoprirebbero così come le parole ci parlano anche quando non sappiamo che cosa vogliono dire.

Nella fossa dei serpenti, «tra questa cruda e tristissima copia» di mostri, «corëan genti nude e spaventate»: tra questi dannati uno, che si trova vicino a Dante e Virgilio, viene morso da un serpente alla base del collo, in un attimo prende fuoco e si incenerisce; dalle ceneri, subito dopo, se ne ripristina la figura umana, che rimane lì come stordita dal gran trauma subito. (Straordinaria la descrizione dei postumi di una crisi epilettica presa a similitudine nei vv. 112-117, con una finezza semiotica degna di un grande clinico dei quelli di una volta). Virgilio gli chiede chi è e il tale risponde: «Io piovvi di Toscana, / poco tempo è, in questa gola fiera. // Vita bestial mi piacque e non umana, / sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci / bestia, e Pistoia mi fu degna tana» (vv.122-126).

Ecco, il personaggio è tutto qui. Vanni Fucci è solo questo. Una bestia – fiera e “contenta” di esserlo, anche all’inferno – non un uomo. Qui noi siamo un po’ nei guai, perché dalla divina rivelazione sappiamo, e siamo tenuti a credere, che «Dio stesso, creando l’uomo a propria immagine, ha iscritto nel suo cuore il desiderio di vederlo. Anche se tale desiderio è spesso ignorato, Dio non cessa di attirare l’uomo a sé, perché viva e trovi in lui quella pienezza di verità e di felicità, che cerca senza posa. Per natura e per vocazione, l’uomo è pertanto un essere religioso, capace di entrare in comunione con Dio. Questo intimo e vitale legame con Dio conferisce all’uomo la sua fondamentale dignità» (Catechismo della Chiesa Cattolica. Compendio, n.2). Ciò vale per tutti gli uomini, nessuno escluso, Vanni Fucci compreso. Certo, potremmo cavarcela dicendo che Dante ci descrive un’anima dannata che il “legame intimo e vitale con Dio” l’ha reciso definitivamente, e quindi possiamo tranquillamente sostenere che la sua umanità Vanni se l’è ampiamente fottuta, con rispetto parlando. Resta la stridente differenza tra lui e tutti gli altri personaggi dell’inferno, i quali certe vestigia della propria umanità invece le conservano eccome, talora imponenti e magnanime ma non del tutto assenti nemmeno nei più vili di loro; però questo scarto ci può stare.

Il problema nasce dal fatto che Dante ci fa capire che Vanni Fucci era così anche in vita! È della razza «qual io fui vivo, tal son morto» – quei coglioni che anche all’inferno si vantano della loro disfatta, come Capaneo – e a noi, purtroppo, pare che al mondo di gente così ce ne sia davvero. Guardiamo certe facce, sentiamo il racconto di certe vite, tocchiamo magari con mano che cosa sono stati in grado di fare e ci sembra proprio che siano come Vanni Fucci. Bestie, non uomini. (Dicendo “bestie” e non “animali” speriamo di esserci tolti dai piedi ogni vana e pretestuosa querelle con gli zoofili). Però dobbiamo ritenere, perché ce l’ha detto nostro Signore (che le cose le sa!) che in ogni uomo, nessuno escluso, vi sia, indelebile, l’impronta dell’immagine originaria con cui Dio l’ha pensato, amato, voluto e creato. Occorre un altro sguardo, di cui noi non siamo capaci: i nostri occhi guardano, guardano, e vedono sempre la bestia.

Forse però, ma dico forse, un minimo appiglio Dante qui ce lo dà anche per Vanni Fucci, quando gli accredita una «trista vergogna» (v.132), che gli si dipinge in volto quando Dante suggerisce maliziosamente a Virgilio di chiedergli perchè mai un «omo di sangue e di crucci» (v.129) come lui si trova qui tra i ladri e non tra i predoni. Certo, bisogna raschiare il fondo del barile per trovare nel bestione qualcosa di vagamente somigliante ad un sentimento e ad un valore. Vanni è contento di esser bestia, come sopra dicevamo, perché la sola cosa che vale, ai suoi occhi, è la violenza, intesa nel modo più rozzo come esplosione di forza muscolare. Trovarsi tra i peccatori di frode, per via di un furto commesso di nascosto e di cui altri erano stati incolpati, lo fa vergognare, perché non è una “cosa da bestie” come lui. Davvero, come nota A.M. Chiavacci Leonardi, «questo è il punto più basso – a livello di autocoscienza – toccato nelle bolge», ma bisogna accontentarsi. Se uno si vergogna di qualcosa, fosse anche di non aver massacrato a dovere i suoi nemici, non è ancora al grado zero dell’umanità. Di qui dovrebbe necessariamente partire un ipotetico percorso di rieducazione dell’umano in un Vanni Fucci ancora vivente.

È proprio tirata per i capelli (ma Dio delle volte ci tira proprio per i capelli, per salvarci), e comunque non riguarda più il Vanni Fucci dannato che abbiamo di fronte a noi. Il quale, con la sua rudimentale psicologia, reagisce pavlovianamente all’umiliazione che gli pare di aver subito sferrando un calcio (metaforico) a colui che gliel’ha inflitta. Profetizza infatti a Dante la rovina della sua parte guelfa, «sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto». E subito dopo aggiunge, con un’improntitudine che conferma l’infimo livello qualitativo persino della sua malvagità, «E detto l’ho perché doler ti debbia!» (v.151).

Non è finita, e non c’è neanche il tempo di fare l’intervallo, perché il XXV canto si salda direttamente al precedente sbattendoci in faccia, per prima cosa, una bestemmia. La riporto senza commenti, perché anche solo a parlarne ci si sporca: «Al fine de le sue parole il ladro / le mani alzò con amendue le fiche, / gridando: “Togli, Dio, ch’a te le squadro!» (vv. 1-3). Dante come autore non ha paura di niente, quindi si può permettere anche questo. Però quando è troppo è troppo, e così anche lui sente il bisogno di far sparire immediatamente l’orribile Vanni Fucci: due serpi gli saltano addosso, lo avviluppano da ogni parte ed «el si fuggì che non parlò più verbo». In eterno, per quanto ci riguarda: per sempre escluso dal “verbo”, cioè dalla parola, cioè dall’umanità, cioè dalla ragione, cioè dal Logos.

Dal Figlio a cui il Padre l’aveva fatto somigliante.

Ladri! (#Dante, Inferno, canto XXIV, prima puntata)

15 venerdì Mag 2020

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furto, ladri, proprietà, violenza

Nei canti XXIV e XXV, dedicati alla bolgia dei ladri, è predominante, in maniera quasi ipertrofica, il tema della metamorfosi. Facile distrarsi dietro ai giochi di prestigio che vedremo, appositamente ostentati del resto con scoperta soddisfazione dall’autore, e perdere di vista il nesso teologico e morale tra la configurazione della pena e la natura del peccato dei ladri. Nesso che dapprima sembra sfuggirci, ma che, come sempre, costituisce un elemento fondamentale per intendere correttamente il testo dantesco.

Anzitutto, chiediamoci chi sono i ladri. «Quelli che rubano» si dirà subito. Cioè quelli che «portano via la roba (l’etimo, di origine germanica, è lo stesso) agli altri». Ma ci sono tanti modi di rubare: giuridicamente, tra furto e rapina c’è una bella differenza (poi c’è anche l’appropriazione indebita, che è un’altra cosa ancora, ma è sempre rubare).

Nel sentire comune, però, chi mi porta via ciò che mi appartiene è sempre ugualmente  un ladro. Lo faccia con la forza o con frodolenta destrezza, a viso aperto o di nascosto, c’è comunque, nel suo metter le mani sulle mie cose, una violenza che tutti, quando ci capita di subirla, avvertiamo come una offesa personale, non appena come un “reato contro il patrimonio” (tale ci sembrerà, al massimo, quando rubano agli altri …). Specchio di questa semplificazione, per una volta non priva di buone ragioni, è lo slittamento semantico subito dal termine latro, che in latino indicava piuttosto il brigante, il predone (ma anche il soldato mercenario), insomma quello che ti assale col coltello e minaccia di sgozzarti se non gli dai la borsa; e in italiano è diventato il ladro in senso generico, ma specialmente quello che ti svuota le tasche o la casa senza che tu nemmeno te ne accorga: il fur, avrebbero detto i latini). A prima vista, sembrerebbe che Dante, nella tassonomia del suo inferno, si sia attenuto a quella distinzione, mettendo i latrones tra i violenti contro il prossimo del canto XII (gente come «Rinier da Corneto, [e] Rinier Pazzo, / che fecero alle strade tanta guerra», vv.137-138), e i fures appunto qui, nella settima delle Malebolge.

Mi pare però che nemmeno lui si sia sottratto a quanto di vero c’è nella sovrapposizione, o semplificazione, che volgarmente si fa degli uni e degli altri nell’unica nozione di ladro, in nome del fatto che costui, comunque agisca, fa alla sua vittima una vera violenza, in quanto la ferisce nella “carne delle cose”, se così posso esprimermi, di cui è fatta la vita personale di ciascuno di noi. Ci sono furti, sotto questo profilo, che umiliano più delle rapine: ne sa qualcosa l’anziano che, fatto entrare in casa il sedicente operaio del gas o della luce per un preteso controllo, non trova più le quattro gioie e i risparmi che stavano nel cassetto; o la vedova a cui qualcuno ha rubato i fiori o la cornice della foto sulla tomba del marito (perché anche questo succede); o chi una sera apre la porta di casa e trova tutto a soqquadro perché “sono venuti i ladri”. Smetto subito per non diventare patetico, ma non è cattiva letteratura: è la realtà quotidiana di un interminabile stillicidio di migliaia di piccoli stupri. Adopero deliberatamente questa parola, perché la qualità (anche se non la quantità) di dolore che prova il derubato delle sue cose è affine a quella della vittima di stupro. E la ragione è semplice e profonda al tempo stesso: noi abbiamo un corpo, anzi siamo un corpo, e il corpo umano per vivere come tale ha bisogno delle sue cose, cioè di cose che gli siano proprie, e in un certo senso se le incorpora. Ha bisogno di abiti, il corpo (i miei vestiti! non l’uniforme carceraria o ospedaliera); ha bisogno di cibo (quello preparato per me o da me); ha bisogno di protezione ma anche di un ambiente adattato e a lui conformato (casa mia!). Dunque il corpo, o meglio l’esistenza umana corporea è inseparabile dalla “proprietà”. Che pertanto è sacra, quanto è sacra la persona umana. Aggiungerci “privata”, come si fa di solito, è superfluo e può risultare persino fuorviante, perché indirizza e piega il concetto verso quella sua riduzione borghese, parodiata nelle nevrotiche cinque p di gaddiana memoria («Mia propria privata privatissima personale proprietà») e variamente presa di mira, con aspra violenza, dal pensiero rivoluzionario moderno e poi, di seguito ad esso, da un costume sociale oggi largamente diffuso e pervasivo. Quasi nessuno ha mai letto Proudhon, ma tutti hanno inteso (e frainteso) che «la proprietà è un furto», e molti se ne sono avvalsi per “fare della prosa senza saperlo” cioè per nobilitare la pratica, vecchia quanto il mondo, di rubare. Appartengo (solo anagraficamente, per fortuna) a una generazione che in gioventù si compiaceva di chiamare “espropri proletari” i suoi furti e furtarelli.

Anche su questo fronte, come su tanti altri, oggi siamo purtroppo sguarniti. Sfiniti da decenni di invettive a senso unico contro “i corrotti”, siamo ormai o assuefatti o intolleranti al tanfo insopportabile della finta indignazione morale, che ancora viene  pompata a dosi massicce dalle campagne mediatiche contro questo o contro quello: solo i più sciocchi tra noi possono ancora aderirvi, e i più impudenti fingere di aderirvi. Al tempo stesso, siamo per lo più incapaci di vera ripugnanza contro il rubare. Privo com’è di fondamento teologico e dunque antropologico (e quindi di spessore morale e politico), il discorso pubblico contra fures et latrones, “in questo mondo di ladri”, è debolissimo. L’unico a prendere la cosa maledettamente sul serio è Dio, che al settimo articolo del suo codice penale (che di articoli ne ha solo dieci) dice semplicemente: «Non rubare». Niente. Mai.

La scelta dantesca di privare i ladri di quella “apparente esistenza umana corporea” che agli altri dannati è concessa, per accomunarli in un certo senso ai soli suicidi, scelta che di primo acchito ci era forse sembrata una forzatura, comincia così a rivelarsi  come sempre geniale. L’essenziale violenza contro l’uomo e contro Dio insita nell’atto di rubare sarà mirabilmente evidenziata dalla personalità del ladro (latro e fur al tempo stesso) che è al centro di questi due canti: l’orribile Vanni Fucci.

Apostasia

12 martedì Mag 2020

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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apostasia

Mi guardo bene dall’entrare nel merito della vicenda di Silvia Romano, perché non mi spetta e perché mi è chiaro solo che essa è opaca e troppe cose non sappiamo come siano veramente andate. Si potrebbe solo dire, senza tema di sbagliare, che il nostro governo ha gestito malissimo la faccenda, ma questo oramai – se i giudizi potessero fare salti di specie come i virus – sarebbe da considerare non più un a posteriori ma un a priori.

Non posso però fare a meno di notare che, pur nella varietà delle opinioni che sono state espresse a proposito o a sproposito in questi giorni, tutti sembrano tranquillamente concordare sul fatto che la conversione della ragazza all’islam è “una cosa che riguarda solo lei”, su cui “non si può dir niente”, eccetera. Si discute naturalmente se e quanto essa sia autentica e libera e di molti altri aspetti della storia, di cui io non dirò nulla perché nulla ne so, ma si dà per scontato che, nell’ipotesi che si tratti di una libera scelta individuale, essa non deve riguardarci e nessuno può dire niente in proposito.

Da cattolico, obietto. L’apostasia di un cristiano – poiché questo “tecnicamente” (che qui vuol dire: realmente) è la conversione dalla vera fede ad un’altra credenza – mi riguarda moltissimo. Ci è stato insegnato, infatti (e ci abbiamo creduto, o no?) che «noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri» (Rom 12,5). Questo non è detto “per modo di dire”, così come tante cose si dicono oggi; anche se fa uso di un’immagine, l’Apostolo vuole trasmetterci un concetto ben preciso, dotato di una forza cogente, che ha delle conseguenze pratiche. Dire che siamo un corpo solo significa, per esempio, che le sofferenze inflitte a causa della fede ai cristiani in ogni parte del mondo io le devo sentire come inflitte a me, in una maniera diversa e molto più profonda rispetto a quella in cui posso emotivamente partecipare a tutte le altre sofferenze che gli esseri umani provano sulla faccia della terra. Allo stesso modo, l’amputazione di un membro – perché tale, ripeto, è un’apostasia – mi riguarda ben diversamente se avviene nel mio corpo o in quello di qualcun altro.

Nessuna condanna da parte mia nei confronti di quella ragazza – non solo perché non so le sue cose ma prima ancora perché non spetta a nessun uomo condannare nessuno – ma che un rinnegamento della vera fede vada considerato di per sé come una cosa di poco conto e comunque un fatto privato che riguarda solo ed esclusivamente chi lo compie, questo no, non lo accetto. Rinnegare la fede in Cristo è la cosa più grave che ci sia e colpisce tutti i credenti, se davvero sono un corpo solo. Come facciamo a non dolercene?

 

Ancora un po’ di commedia nella Commedia (#Dante, Inferno, dalla fine del XXIII canto alla prima metà del XXIV)

11 lunedì Mag 2020

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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beffa, Commedia, Dante, ironia, teatro

Si parlava di ipocrisia, cioè di recitazione. Che è una dimensione imprescindibile della vita umana: “si recita sempre”, avevamo detto, un po’ facendo il verso a Pirandello. Ma per chi si recita? Da quale sguardo si dipende, e quali applausi si ricercano quando si fa la propria parte nel teatro del mondo? Questo è ciò che conta. Come ci ha ricordato una gentile componente della comitiva dantesca, falsità e finzione non sono la stessa cosa: possiamo dunque rilassarci; se i Padri ce l’avevano a morte col teatro, per profonde e geniali ragioni che  faremmo bene a meditare lungamente, noi, pur armati delle stesse ragioni, a teatro qualche volta possiamo ben andarci, per seguire con profitto e con diletto le “belle storie” che sul palcoscenico ci vengono così ben rappresentate.

La letteratura italiana – che di teatro vero e proprio ne ha relativamente poco e spesso mal rappresentato e rappresentabile (che ne è, per esempio, del teatro di Alfieri, di Manzoni o di D’Annunzio?) – il suo ce lo offre piuttosto dentro opere che teatrali non sono, almeno in senso stretto. Una dimostrazione la troviamo anche qui, in questo scorcio della Commedia tra la fine del XXIII e gli inizi del XXIV canto,  che assume il tratto, a me sembra, di una pièce da teatro borghese, di quello recitato con raffinato mestiere da grandi attori che sapevano tenere impeccabilmente la scena, magari a volte gigioneggiando un po’, per il diletto di un pubblico tutto sommato riflessivo, che amava vedersi rispecchiato, e un pochino messo a nudo (ma non scuoiato) nell’analisi sottile delle emozioni e delle finzioni di cui è fatta la vita quotidiana, mimata dai personaggi sul palcoscenico.

Si comincia al v. 127 del canto XXIII, con Virgilio che, tutto contegnoso (ci pare di udirne la voce impostata, come quella degli attori di una volta, alla Ruggero Ruggeri), si rivolge a fra’ Catalano: «Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci / s’a la man destra giace alcuna foce / onde noi amendue possiamo uscirci […]» (XXIII, vv.127-129). Con lo stesso tono sostenuto di civile conversazione tra gentiluomini, ma già con una punta di malizia, il frate godente bolognese risponde che la via d’uscita è sì vicinissima … ma putroppo rotta e impraticabile perché in quella bolgia tutti i ponti sono crollati. Scoprire di esser stato ingannato dai Malebranche è un colpo per il maestro e duca Virgilio, il quale «stette un poco a testa china; / poi disse: “Mal contava la bisogna / colui che i peccator di qua uncina”» (vv.139-141). La sententia, che vorrebbe esser meditabonda e grave, risulta solo candidamente ottusa, il che offre il destro al frate di centellinare la sublime perfidia di una battuta che è un piccolo capolavoro di finta bonomia clericale e bolognese (chi ha soggiornato almeno un po’ sotto le due torri può meglio apprezzare il secondo aggettivo, che non mi dilungo a spiegare perché ho troppi amici in terra felsinea). «Io udi’ già dire a Bologna / del diavol vizi assai, tra ‘ quali udi’ / ch’elli è bugiardo, e padre di menzogna» (vv.140-141). È come levare a uno la pelle con l’aria di fargli una carezza. Dargli del coglione, ma con sorridente rispetto e apparente solidarietà. Una presa per i fondelli benevolmente sadica, ma eseguita alla perfezione. Chapeau.

Per quanto ne so, ci sono tre modi di farsi beffe dell’altrui bêtise. Il primo, in cui però si rischia spesso di evidenziare la propria, è quello di farlo apertamente, in maniera plateale, in modo che tutti capiscano e partecipino all’irrisione. Di questo sono capaci in tanti (mi vengono in mente ad esempio certi giornalisti oggi molto in voga, di cui non faccio i nomi per non dar loro un’importanza che non hanno), e i pochi che non ne sono capaci forse è solo perché sono migliori degli altri. Non è poi così difficile far ridere mettendo alla berlina qualcuno, e neanche farlo in modo così efficace che tutti ridano di lui. Però non bisognerebbe dimenticare che quando tutti ridono di qualcuno, quel tale diventa una vittima, e acquista ipso facto la dignità che tutte le vittime, anche le più ridicole, hanno (almeno agli occhi di chi sa). In ogni caso, anche quando è ben costruita, la beffa dichiarata è sempre un po’ volgare; e sempre a rischio di far scivolare il beffatore, suo malgrado e a sua insaputa, allo stesso livello del beffato.

C’è poi un’ironia tutta e solo interiore, invisibile al mondo perché agita esclusivamente nello spazio della coscienza individuale. Il viso del beffatore resta impassibile, le parole paiono serie, e fuori suonano in una certa maniera che non lascia pensare che dentro, invece, egli sorrida di chi le ascolta, o addirittura che lo stia deridendo). Qui c’è già più decoro, anche se si tratta per lo più della dignità del servitore, dell’alunno, del detenuto o del coscritto: di tutti coloro, insomma, che sono obbligati a dipendere da superiori e a “stare al loro posto”; quelli che le loro distanze critiche possono prenderle solo interiormente. Quanti camerieri e quanti cortigiani, nei secoli, si saranno fatti beffe in questo modo dei loro signori tronfi e imparruccati! Anche questa ironia solitaria e muta, peraltro, pur se giustificata dalla condizione servile, rischia di degenerare nell’ipocrisia malvagia dell’adulazione; oppure, per converso, quando non è obbligata dalle circostanze,  rivelarsi come l’espressione di una forma di abietto narcisismo: l’onanistico piacere di colui che “ride dentro”, da solo, godendo del fatto che nessuno altro si accorge della sua intelligenza, lui che prende in giro tutti perché è superiore a tutti.

C’è infine una terza via, liminale e stretta, e perciò assai difficile da mantenere senza scadere in una delle altre due. In questo caso, chi se lo merita viene sì preso in giro, però in modo sottile, leggerissimo, quasi impalpabile ma non del tutto impercettibile.  Non gli si dà apertamente del coglione, ma neppure gli si nega, d’altro canto, una seconda occasione per accorgersi di quanto lo sia stato. È quello che fa qui, mirabilmente, fra’ Catalano: parla in un modo che ad uno sciocco parrebbe serio, ma che Virgilio – il quale naturalmente non è affatto uno sciocco, ma ha solo avuto una botta di coglioneria, come capita a tutti (e alle persone molto intelligenti forse più spesso che ad altri) – intende perfettamente. Tanto da esserne ustionato: sotto il colpo di quella sferza non può fare a meno di esibirsi in una uscita di scena melodrammatica: «Appresso il duca a gran passi sen gì, / turbato un poco d’ira nel sembiante» (vv. 145-146). Versi che non stonerebbero in un libretto verdiano, se posso permettermi l’irriverenza. (A casa mia si sarebbe detto più volgarmente che se ne va “a culo diritto”; espressione che ora scopro sulla rete essere anche il titolo di una canzone a me ignota di Guccini – nella variante «culodritto» – e perciò gabellata come locuzione tipica modenese).

Sipario e applausi. Quando torniamo in sala, dopo l’intervallo al foyer, il programma ci offre un idillio (non nel senso leopardiano, ma in quello teocriteo del termine): un delizioso mimo di quindici versi (XXIV, 1-5) in cui assistiamo, divertiti e ammirati per la bravura dell’autore e dell’interprete, alle piccole avventure del «villanello a cui la roba manca». È come uno di quei cammei così perfetti da ridicolizzare la definizione di arte minore che una volta si attribuiva alla glittica. Se di Dante ci fossero arrivati solo quei quindici versi, certo da essi non potremmo immaginare che ha scritto la Commedia, ma basterebbero a farci capire che gran poeta sia stato e a farci rimpiangere la perdita di tutto il resto.

La scenetta del villanello, teatro nel teatro, serviva a darci l’idea dello sbigottimento che si impadronisce di Dante personaggio al vedere il suo maestro così turbato e dell’immediato conforto che gli viene dal «piglio dolce» con cui questi gli si rivolge dopo essersi rapidamente ricomposto. Segue una scena d’azione, che sarebbe più adatta alle possibilità del cinema che a quelle del teatro (ma nello spazio interiore del teatro mentale, in cui si muove la drammaturgia letteraria, c’è il vantaggio che si puù fare di tutto). Si tratta infatti di far vedere una cosa nuova, inusitata nel viaggio infernale e anticipatrice di quello che sarà invece il percorso del Purgatorio. Bisogna risalire dal fondo della sesta bolgia, arrampicandosi sulle ruine del ponte crollato, per raggiungere l’argine che la separa dalla settima.

All’inferno si provano tutte le più orribili sensazioni e ci sono difficoltà di ogni tipo. Una sola cosa manca: la fatica. Come non si fa fatica ad andarci, basta “lasciarsi andare”, così non si fa fatica neppure a percorrerlo. Si scende, si cade, si precipita: per questo basta la gravità, non c’è bisogno di sforzarsi. Per salire, invece, di fatica se ne fa. E tanta. Ecco allora qui (vv. 22-78) la sua rappresentazione plastica, recitata con qualche enfasi dai due attori. Virgilio più declamatorio che mai: «“Omai convien che tu così ti spoltre”, / disse ‘l maestro; ché, seggendo in piuma, / in fama non si vien, né sotto coltre; // sanza la qual chi sua vita consuma, / cotal vestigio in terra di sé lascia, / qual fummo in aere e in acqua la schiuma”» (vv. 46-51, ma poi va avanti sullo stesso tono fino al v.57). E Dante comicamente teso ad imitarlo nella posa scultorea: «Leva’mi allor, mostrandomi fornito / meglio di lena ch’i’ non mi sentia, / e dissi: “Va, ch’i’ son forte e ardito”» (vv.58-60).

 

«Vivere da cristiani in un mondo non cristiano». L’indice del libro.

09 sabato Mag 2020

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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Completo l’informazione data due giorni fa su questo libro, in uscita giovedì prossimo, fornendo l’indice, da cui i lettori possono farsi un’idea migliore del suo contenuto. Inoltre qui se ne può leggere l’introduzione: https://books.google.it/books?hl=en&lr=&id=IfTgDwAAQBAJ&oi=fnd&pg=PT7&dq=%22leonardo+lugaresi%22&ots=rvGMhHapeO&sig=qLjxCDbQcMWx-fU6CRRQUMnlzdw&redir_esc=y#v=onepage&q&f=false

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