Dopo cinquantatre anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II, forse sarebbe ora di smettere di baloccarsi con lo “spirito del concilio” e cominciare a fare più seriamente i conti con i suoi atti, cioè con le sue deliberazioni. In campo liturgico, per esempio, la volontà del concilio è stata rispettata solo in parte, mentre per altri aspetti, anche di grande rilievo, è stata tradita. Riconoscerlo onestamente e francamente farebbe bene a tutti.
Il concilio aveva detto: «Regolare la sacra liturgia compete unicamente all’autorità della Chiesa, la quale risiede nella Sede apostolica e, a norma del diritto, nel vescovo» e «di conseguenza assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica» (Sacrosantum concilium 22.1 e 22.3). Invece, come è evidente a tutti, nella chiesa di oggi qualunque prete (e talvonta anche dei laici), di sua iniziativa aggiunge toglie e muta quel che gli pare (“a capocchia”) e nessuno dice niente.
Il concilio aveva detto: «non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle già esistenti» (SC 23). È così che si è proceduto nell’ideazione, impostazione e attuazione della riforma liturgica? È in base ad «una vera e accertata utilità della Chiesa» che tante cose sono state cambiate o è stato per una “voglia di novità” dei chierici? È lecito chiederselo.
Il concilio aveva detto (sotto il titolo «Dignità della celebrazione liturgica»!): «Nelle celebrazioni liturgiche ciascuno, ministro o semplice fedele, svolgendo il proprio ufficio si limiti a compiere tutto e soltanto ciò che, secondo la natura del rito e le norme liturgiche, è di sua competenza» (SC 28). È proprio questo che avviene? Non mi pare.
Il concilio aveva detto (sotto il titolo «Partecipazione attiva dei fedeli»!): «Per promuovere la partecipazione attiva, si curino le acclamazioni dei fedeli, le risposte, il canto dei salmi, le antifone, i canti, nonché le azioni e i gesti e l’atteggiamento del corpo. Si osservi anche, a tempo debito, un sacro silenzio» (SC 30). Le troviamo, queste cose, nella liturgia praticata oggi? Acclamazioni e risposte, quante ne vogliamo; canto dei salmi, pochino e di solito fatto male; quanto agli altri canti, stendiamo un velo pietoso; azioni gesti e atteggiamento del corpo: allo stato brado, pura anarchia; e soprattutto, nessun sacro silenzio che vada oltre i trenta secondi (cronometrare per credere). La partecipazione attiva – anzi la actuosa participatio come amano dire i liturgisti quando la vogliono far cadere dall’alto – è stata il mantra di questi cinquant’anni. A me pare delle volte che il momento più actuoso della liturgia sia alla fine della messa, quando i fedeli si dedicano appassionatamente a chiacchierare tra loro in chiesa. Forse sarebbe il tempo di ricordare che quando il concilio parlava di partecipazione attiva, pensava che tra le forme in cui essa si realizza ci debbono essere in primo luogo il linguaggio del corpo e il silenzio. Su questo ha scritto cose profonde e belle Jospeh Ratzinger ne Lo spirito della liturgia.
Il concilio aveva detto: « I riti splendano per nobile semplicità, siano trasparenti per il fatto della loro brevità e senza inutili ripetizioni; siano adattati alle capacità di comprensione dei fedeli né abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni» (SC 34). Invece abbiamo subito, nella pratica, una “creatività liturgica” che, con la stessa furia con cui si è scagliata contro i riti del passato (eliminando, certo, molte ridondanze e superfetazioni, ma calpestando anche molte forme belle e pie) ha dato la stura a tanti arzigogoli di cui si farebbe voletieri a meno, mentre la brevitas saggiamente raccomandata dal concilio è minata dall’ipertrofia di una predicazione che spesso deborda dallo spazio deputato e prolifera in tante mini-omelie che vogliono spiegare ogni particolare del rito. (I padri conciliari invece pensavano ad una liturgia che non doveva aver bisogno «di molte spiegazioni». È vero, peraltro, che subito dopo, al n. 35, si diedero da soli la zappa sui piedi prevedendo nei riti «brevi didascalie composte con formule prestabilite o con parole equivalenti e destinate a essere recitate dal sacerdote o dal ministro competente nei momenti più opportuni». Ma non sapevano che cosa facevano: quell’inciso «o con parole equivalenti» allora deve essere sembrato innocuo, e invece ha aperto la porta a un diluvio di chiacchiere … a riprova che il diavolo sta nei dettagli ).
Il concilio, infine, aveva detto, al numero 36 della costituzione sulla sacra liturgia:
- L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini.
- Dato però che, sia nella messa che nell’amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l’uso della lingua nazionale può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti.
- In base a queste norme, spetta alla competente autorità ecclesiastica territoriale, di cui all’art. 22- 2 (consultati anche, se è il caso, i vescovi delle regioni limitrofe della stessa lingua) decidere circa l’ammissione e l’estensione della lingua nazionale. Tali decisioni devono essere approvate ossia confermate dalla Sede apostolica.
- La traduzione del testo latino in lingua nazionale da usarsi nella liturgia deve essere approvata dalla competente autorità ecclesiastica territoriale di cui sopra.
Qui c’è poco da ciurlare nel manico. Che cosa voleva il concilio è chiaro a chiunque sappia leggere. Che cosa invece è stato fatto è altrettanto evidente. Se sia stato un bene oppure un male non eseguire la volontà del concilio, in sede di attuazione della riforma liturgica (cioè nell’ambito del Consilium ad exequendam constitutionem de sacra liturgia, istituito nel 1963 e operante fino al 1970 sotto la presidenza prima del cardinal Lercaro e poi del cardinal Gut, ma soprattutto sotto la regia del segretario mons. Bugnini) è questione di cui si può discutere e io non presumo di essere in grado di farlo adeguatamente. Però ci si può fare questa domanda: nel 1963, tutti avevano in mente un mondo diviso per nazioni, dove i diversi popoli, ciascuno con la propria lingua, erano stanziati nei rispettivi territori e le migrazioni di massa erano un fenomeno limitato essenzialmente al continente americano, dove però esse avevano dato luogo a nuove unità linguistiche (un’America spagnola, una portoghese, una inglese e una francese). In quel contesto, ai padri conciliari sembrò sì opportuno dare più spazio nella liturgia alle lingue nazionali, ma sembrò anche necessario salvaguardare, come un tesoro della chiesa, il fatto di avere una sola lingua per tutti i cattolici, storicamente costituita dal latino. Agli esecutori della riforma, invece, questo deve essere sembrato trascurabile. In concreto: il concilio non voleva affatto “la messa in italiano” (o in inglese o in swahili): voleva che alcune parti della messa fossero dette in italiano, ma che la preghiera eucaristica, segnatamente, restasse in latino. La stessa per tutti, dovunque nel mondo.
Avercela, oggi, quella preghiera realmente comune, anche letteralmente identica! Visto dal mondo di oggi, dove tutti i popoli e tutte le lingue si mescolano e si sovrappongono, e dove per tanti (sempre di più) la “messa in italiano, in inglese o in swahili” è una messa in lingua straniera … chi appare più lungimirante: il concilio “consevatore” che nel 1963 diceva di preservare quel tesoro, o i novatori che l’hanno buttato via, perché tanto ormai non serviva più a niente?