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  • La chiesa e la crisi degli anni sessanta.

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~ Vanitas ludus omnis

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Archivi Mensili: novembre 2018

E la missione? (Lo stretto necessario per fare il cristianesimo, 5)

29 giovedì Nov 2018

Posted by leonardolugaresi in Atti degli apostoli

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Atti degli apostoli, chiesa e mondo, conversione, missione

La descrizione dell’archetipo della chiesa, contenuta in Atti 2, 42-47, dopo avere indicato i fattori essenziali che la costituiscono (la quadruplice perseveranza «nell’insegnamento degli apostoli, nella comunione, nella frazione del pane e nelle preghiere»), si conclude con questa nota: «E il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati (ὁ δὲ κύριος προσετίθει τοὺς σῳζομένους καθ᾽ἡμέραν ἐπὶ τὸ αὐτὸ)» (v. 47). Detto così, quasi come se fosse un di più. Come se fare nuovi adepti non fosse tra i compiti essenziali della chiesa,

In effetti è così. Tra i “fondamentali” della chiesa primitiva non c’è nessuna specifica attività missionaria, nessun progetto di espansione e di sviluppo, nessun piano per convincere altri a unirsi a loro, nessuna “strategia di mercato” come diremmo brutalmente oggi. Nessun proselitismo, per riprendere un termine che papa Francesco ha usato spesso. La crescita della chiesa è presentata in questo brano di Atti come opera esclusiva di Dio, che «aggiunge» ad essa chi vuole Lui: si noti l’espressione usata nel testo, con quel participio presente (sozomenous), che indica non quelli che sono già stati salvati (da Dio solo) né coloro che saranno salvati (dalla chiesa), ma quelli che “sono in corso di essere salvati” (da Dio mediante il loro inserimento epì to autò, cioè nella comunità ecclesiale). È Dio che fa, è Dio che converte e salva, nei modi e nei tempi che vuole Lui (kath’hemeran  dice il testo: un po’ alla volta, giorno per giorno).

Beninteso, ciò non significa affatto che quella comunità sia un gruppo chiuso e indifferente a ciò che lo circonda: l’annuncio pubblico della fede in Cristo è già stato raccontato, nel libro degli Atti, subito prima di questa descrizione e gran parte della successiva narrazione è dedicata precisamente all’attività missionaria, soprattutto di Paolo. Ma il compito essenziale della chiesa è quello di esserci, non di diffondersi. Esserci ed essere incontrabile da tutti, questo sì; visibile e credibile come testimone di Cristo; diversa dal mondo e critica del mondo, cioè capace di giudicarlo, per il suo bene.

La chiesa non è un’impresa che deve vendere un prodotto, né un partito che deve prendere voti. Dovremmo seriamente chiederci se oggi non vi sia in essa, di fronte all’evidenza di un drammatico calo di adesioni, la tentazione di mettersi invece in una logica di marketing. Quanti ecclesiastici, in fondo in fondo e probabilmente senza dirlo neppure a se stessi, non sono oggi tentati di pensare che “se il prodotto non tira più bisogna cambiarlo”? O sono tutti presi dal problema di cambiarne la confezione?

Saggezza di una volta. (Anche l’esegesi può avere i suoi segreti)

26 lunedì Nov 2018

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Agostino, Bibbia, esegesi patristica, Pio XII

A proposito delle tante difficoltà di cui è disseminato il testo sacro, e che oggi magari si vorrebbero “pastoralmente” appianare:

«deve valere anche per noi quello che i Padri, segnatamente Sant’Agostino (Epist. 149 ad Paulinum, n. 34 (PL. XXXIII, col. 644); De diversis quaestionibus q. 53, n. 2 (ibidem, XL, col. 36); Enarr, in Ps. 146, n. 12 (ibidem, XXXVII, col. 2907), hanno avvertito al loro tempo: che Dio nei Sacri Libri da Lui ispirati ha voluto venissero sparse difficoltà, perché noi ci sentissimo spronati a leggerli e scrutarli con maggior applicazione e inoltre, sperimentando la nostra limitazione, vi trovassimo un salutare esercizio di doverosa umiltà. Non vi sarebbe pertanto motivo di meravigliarsi se a questa o quell’altra questione non si avesse mai a trovare una risposta appieno soddisfacente, perché si ha da fare più volte con materie oscure e troppo lontane dai nostri tempi e dalla nostra esperienza, e perché anche l’esegesi, come le altre più gravi discipline, può avere i suoi segreti, che rimangono alle nostre menti irraggiungibili e chiusi ad ogni sforzo umano».

[Pio XII, Divino Afflante Spiritu, II, 4.]

Il fatto è che la Bibbia è piena di cose che oggi non piacciono. Che facciamo, le accomodiamo tutte?

Se Lui è re, noi siamo sudditi.

25 domenica Nov 2018

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cittadinanza, cristiani nel mondo, Cristo re, modernità

Mi pare che al giorno d’oggi, nella chiesa si avverta un certo imbarazzo, quasi un disagio, a proposito della festa di Cristo re, istituita da Pio XI nel 1925: quanti discorsi, anche quest’anno, insisteranno soprattutto sul fatto che Lui è  sì re, ma non nel modo in cui intendiamo noi la parola re; che  è venuto non per comandare ma per servire; insomma che è re ma non è re. Re per modo di dire.

L’imbarazzo deriva dal fatto che se Cristo è re, noi siamo sudditi. E la modernità ci ha imposto di credere che essere sudditi, cioè servi, sia una cosa orribile, vergognosa e degradante e che per gli uomini invece sia bellissimo essere cittadini. «Aux armes, citoyens», con tutto quello che ne è seguito …

Era un’illusione, naturalmente; anzi un inganno: quanto poco valga, la nostra presunta cittadinanza, dovrebbe essere ormai chiaro a tutti. Le costituzioni moderne hanno un bel dire e sbandierare che «la sovranità appartiene al popolo»: quanto sia derisoria quella fanfara ce lo fanno capire, sul piano politico ed economico le Potenze di questo mondo ogni volta che si muovono, e sul piano morale le “dipendenze di massa” che rendono schiava la vita dei più. Cittadini de che?

Ma non è questo il punto. Se anche fosse vero che siamo cittadini, cioè partecipi di una sovranità repubblicana, bisogna avere il coraggio di proclamare in faccia al mondo che essere sudditi di un Re è molto meglio. Certo, di primo acchito a dichiararsi monarchici al giorno d’oggi c’è da passar per scemi. Ma qui nessuno pensa alle teste coronate che ci sono in circolazione; non si parla di elezioni, per cui van benissimo le repubbliche, ci mancherebbe, si parla del senso della vita; non si parla di uomini, si parla di Dio.

Occorre un radicale cambiamento di mentalità (in greco si dice metanoia, ed è il fondamento della conversione) per capire che la massima possibilità di grandezza e dignità per un uomo non consiste nel non avere nessuno sopra di sé, ma nel servire chi è infinitamente più grande e più degno di lui. Il che, suo malgrado, lo sa anche il mondo, benché lo neghi: chi sono, infatti, coloro che il mondo considera “grandi uomini”? Senza eccezione, sono quelli che hanno messo tutta la loro vita “al servizio” di una causa, cioè di qualcos’altro riconosciuto come più grande: sia essa la Patria, la Rivoluzione, il Progresso della Scienza o qualsiasi altro ideale. Le maiuscole possono sembrarci abusive (anche perché tutte le cause umane sono opinabili), ma qui si rendono necessarie per segnalare che ogni volta è in gioco qualcosa di superiore a noi. A ben vedere, dunque, ogni grand’uomo è tale perché è un servo. Il servo, paradossalmente, è colui che realizza al massimo grado la potenziale dignità e grandezza dell’uomo.

Qualcuno obietterà che Gesù Cristo ha detto «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15). Ma, appunto, è il Signore che può, in quanto tale, attribuire al servo la qualifica di amico: nessuno può attribuirsela da solo. La ratio di questa amicizia donata dal Signore ai servi è chiara: conoscere ciò che fa il Padrone. Dio non è più uno sconosciuto, per noi che abbiamo “il pensiero di Cristo”, come dice Paolo (1 Cor 2,16): ecco in che cosa consiste il fondamento della nostra amicizia con Lui. La forma di questa amicizia, del resto, è l’obbedienza: «voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando» (Gv 15,14). Trovate un solo passo del vangelo in cui Cristo stia “alla pari” con i suoi amici e quando lo avrete trovato potrete provare a fondare teologicamente su quello tutta la pastorale oggi di moda che, di fatto, lascia credere agli uomini che Dio sia a loro disposizione.

Nel frattempo, almeno oggi, noi cristiani dovremmo testimoniare con fierezza, di fronte al mondo, la bellezza e la dignità di essere servi di Dio (in quanto “amici di Cristo”).

Forse sarebbe ora di applicare il concilio.

22 giovedì Nov 2018

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Concilio Vaticano II, Liturgia

Dopo cinquantatre anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II, forse sarebbe ora di smettere di baloccarsi con lo “spirito del concilio” e cominciare a fare più seriamente i conti con i suoi atti, cioè con le sue deliberazioni. In campo liturgico, per esempio, la volontà del concilio è stata rispettata solo in parte, mentre per altri aspetti, anche di grande rilievo, è stata tradita. Riconoscerlo onestamente e francamente farebbe bene a tutti.

Il concilio aveva detto: «Regolare la sacra liturgia compete unicamente all’autorità della Chiesa, la quale risiede nella Sede apostolica e, a norma del diritto, nel vescovo» e «di conseguenza assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica» (Sacrosantum concilium 22.1 e 22.3). Invece, come è evidente a tutti, nella chiesa di oggi qualunque prete (e talvonta anche dei laici), di sua iniziativa aggiunge toglie e muta quel che gli pare (“a capocchia”) e nessuno dice niente.

Il concilio aveva detto: «non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle già esistenti» (SC 23). È così che si è proceduto nell’ideazione, impostazione e attuazione della riforma liturgica? È in base ad «una vera e accertata utilità della Chiesa» che tante cose sono state cambiate o è stato per una “voglia di novità” dei chierici? È lecito chiederselo.

Il concilio aveva detto (sotto il titolo «Dignità della celebrazione liturgica»!): «Nelle celebrazioni liturgiche ciascuno, ministro o semplice fedele, svolgendo il proprio ufficio si limiti a compiere tutto e soltanto ciò che, secondo la natura del rito e le norme liturgiche, è di sua competenza» (SC 28). È proprio questo che avviene? Non mi pare.

Il concilio aveva detto (sotto il titolo «Partecipazione attiva dei fedeli»!): «Per promuovere  la partecipazione attiva, si curino le acclamazioni dei fedeli, le risposte, il canto dei salmi, le antifone, i canti, nonché le azioni e i gesti e l’atteggiamento del corpo. Si osservi anche, a tempo debito, un sacro silenzio» (SC 30). Le troviamo, queste cose, nella liturgia praticata oggi? Acclamazioni e risposte, quante ne vogliamo; canto dei salmi, pochino e di solito fatto male; quanto agli altri canti, stendiamo un velo pietoso; azioni gesti e atteggiamento del corpo: allo stato brado, pura anarchia; e soprattutto, nessun sacro silenzio che vada oltre i trenta secondi (cronometrare per credere). La partecipazione attiva – anzi la actuosa participatio come amano dire i liturgisti quando la vogliono far cadere dall’alto – è stata il mantra di questi cinquant’anni. A me pare delle volte che il momento più actuoso della liturgia sia alla fine della messa, quando i fedeli si dedicano appassionatamente a chiacchierare tra loro in chiesa. Forse sarebbe il tempo di ricordare che quando il concilio parlava di partecipazione attiva, pensava che tra le forme in cui essa si realizza ci debbono essere in primo luogo il linguaggio del corpo e il silenzio. Su questo ha scritto cose profonde e belle Jospeh Ratzinger ne Lo spirito della liturgia.

Il concilio aveva detto: « I riti splendano per nobile semplicità, siano trasparenti per il fatto della loro brevità e senza inutili ripetizioni; siano adattati alle capacità di comprensione dei fedeli né abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni» (SC 34). Invece abbiamo subito, nella pratica, una “creatività liturgica” che, con la stessa furia con cui si è scagliata contro i riti del passato (eliminando, certo,  molte ridondanze e superfetazioni, ma calpestando anche molte forme belle e pie) ha dato la stura a tanti arzigogoli di cui si farebbe voletieri a meno, mentre la brevitas saggiamente raccomandata dal concilio è minata dall’ipertrofia di una predicazione che spesso deborda dallo spazio deputato e prolifera in tante mini-omelie che vogliono spiegare ogni particolare del rito. (I padri conciliari invece pensavano ad una liturgia che non doveva aver bisogno «di molte spiegazioni». È vero, peraltro, che subito dopo, al n. 35, si diedero da soli la zappa sui piedi prevedendo nei riti «brevi didascalie composte con formule prestabilite o con parole equivalenti e destinate a essere recitate dal sacerdote o dal ministro competente nei momenti più opportuni». Ma non sapevano che cosa facevano: quell’inciso «o con parole equivalenti» allora deve essere sembrato  innocuo, e invece ha aperto la porta a un diluvio di chiacchiere … a riprova che il diavolo sta nei dettagli ).

Il concilio, infine, aveva detto, al numero 36 della costituzione sulla sacra liturgia:

  1. L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini.
  2. Dato però che, sia nella messa che nell’amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l’uso della lingua nazionale può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti.
  3. In base a queste norme, spetta alla competente autorità ecclesiastica territoriale, di cui all’art. 22- 2 (consultati anche, se è il caso, i vescovi delle regioni limitrofe della stessa lingua) decidere circa l’ammissione e l’estensione della lingua nazionale. Tali decisioni devono essere approvate ossia confermate dalla Sede apostolica.
  4. La traduzione del testo latino in lingua nazionale da usarsi nella liturgia deve essere approvata dalla competente autorità ecclesiastica territoriale di cui sopra.

Qui c’è poco da ciurlare nel manico. Che cosa voleva il concilio è chiaro a chiunque sappia leggere. Che cosa invece è stato fatto è altrettanto evidente. Se sia stato un bene oppure un male non eseguire la volontà del concilio, in sede di attuazione della riforma liturgica (cioè nell’ambito del Consilium ad exequendam constitutionem de sacra liturgia, istituito nel 1963 e operante fino al 1970 sotto la presidenza prima del cardinal Lercaro e poi del cardinal Gut, ma soprattutto sotto la regia del segretario mons. Bugnini) è questione di cui si può discutere e io non presumo di essere in grado di farlo adeguatamente. Però ci si può fare questa domanda: nel 1963, tutti avevano in mente un mondo diviso per nazioni, dove i diversi popoli, ciascuno con la propria lingua, erano stanziati nei rispettivi territori e le migrazioni di massa erano un fenomeno limitato essenzialmente al continente americano, dove però esse avevano dato luogo a nuove unità linguistiche (un’America spagnola, una portoghese, una inglese e una francese). In quel contesto, ai padri conciliari sembrò sì opportuno dare più spazio nella liturgia alle lingue nazionali, ma sembrò anche necessario salvaguardare, come un tesoro della chiesa, il fatto di avere una sola lingua per tutti i cattolici, storicamente costituita dal latino. Agli esecutori della riforma, invece, questo deve essere sembrato trascurabile. In concreto: il concilio non voleva affatto “la messa in italiano” (o in inglese o in swahili): voleva che alcune parti della messa fossero dette in italiano, ma che la preghiera eucaristica, segnatamente, restasse in latino. La stessa per tutti, dovunque nel mondo.

Avercela, oggi, quella preghiera realmente comune, anche letteralmente identica! Visto dal mondo di oggi, dove tutti i popoli e tutte le lingue si mescolano e si sovrappongono, e dove per tanti (sempre di più) la “messa in italiano, in inglese o in swahili” è una messa in lingua straniera … chi appare più lungimirante: il concilio “consevatore” che nel 1963 diceva di preservare quel tesoro, o i novatori che l’hanno buttato via, perché tanto ormai non serviva più a niente?

La messa (Lo stretto necessario per fare il cristianesimo, 4)

20 martedì Nov 2018

Posted by leonardolugaresi in Atti degli apostoli

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Atti degli apostoli, casa, Chiesa, preghiera, Tempio

«Essi perseveravano […] nella frazione del pane (τῇ κλάσει τοῦ ἄρτου) e nelle preghiere (ταῖς προσευχαῖς)» (Atti 2,42). Il ritratto della “chiesa essenziale”, l’archetipo di ogni esperienza ecclesiale contenuto in Atti 2,42-47, si conclude con questo doppio fattore di perseveranza. Le «preghiere» sono quelle del Tempio, all’alba, alle tre del pomeriggio e al tramonto del sole, a cui i primi cristiani partecipano ogni giorno, «con slancio unanime (ὁμοθυμαδόν)» (v.46), nel tempio di Gerusalemme, perché sono a tutti gli effetti ebrei osservanti. Ora il tempio non c’è più e noi non siamo più ebrei. Questo sì che è archeologia: è l’unico tratto della “prima chiesa” che si deve considerare non abolito ma del tutto risignificato nell’esperienza cristiana successiva, come vedremo tra un momento.

La perseveranza al culto del tempio, infatti, è accoppiata (e preceduta!) da quella nella frazione del pane che, come viene specificato al v. 46, si fa «in casa (κατ’ οἴκον)». Viene qui delineata una distinzione, che è anche una polarizzazione, tra il tempio e la casa, che è fondamentale nel libro degli Atti. Il giudaismo è centrato sul Tempio, il luogo della shekhinah, la presenza di Dio tra gli uomini; il cristianesimo è essenzialmente domestico perché la Presenza, dopo l’incarnazione del Figlio di Dio e l’effusione del suo Spirito, abita nella familiarità tra i suoi seguaci, cioè in casa. Perché questo è la casa: lo spazio della famiglia. Gli edifici di culto cristiano, quando ci saranno (il che avverrà molto più tardi), saranno comunque delle domus ecclesiae, e solo con Costantino si costruiranno delle basiliche (che sono comunque spazi pubblici per contenere il popolo, non templi).

Che cosa si fa nella casa cristiana? La Messa. Klasis tou artou e fractio panis sono i suoi nomi più antichi, ed anche i più profondi e veri, se ci pensiamo, perché ne dicono l’essenza. Che non è l’assemblea dei fedeli, non è l’ascolto e la meditazione della Sacra Scrittura, non è nemmeno la partecipazione alla mensa comune (la santa cena), cioè nessuna delle cose su cui la pastorale odierna insiste di più. È puramente e semplicemente il gesto compiuto da Gesù: «spezzò il pane». Fare la messa significa rendere presente, attuale ed efficace nella nostra vita quel gesto, che Gesù Cristo, riprendendolo dalla tradizione ebraica,  ha voluto caricare di un significato nuovo, assoluto e definitivo, legandolo alla sua imminente passione-morte e risurrezione. La Messa è quello: Lui che spezza il pane adesso. Il gesto più importante della storia.

E le preghiere? Dal tempio, che non c’è più, si sono trasferite anch’esse nella casa, cioè nella vita quotidiana dei cristiani in giro per il mondo. Sono diventate la regola, l’ordine di una normale vita cristiana, con misure e ritmi diversi a seconda dello stato, delle condizioni di vita e della vocazione di ognuno, ma possibili per tutti in qualsiasi circostanza. Nel monastero come nel lager.

Insegnamento degli apostoli, comunione, frazione del pane e una regola minima: non ci serve altro per essere cristiani, anche nel mondo meno cristiano (o più anticristiano) che si possa immaginare.

Il mio vescovo ha dato i numeri. (Post scriptum: e i giornalisti non li hanno capiti)

17 sabato Nov 2018

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chiesa italiana, economia

Nel senso che qualche giorno fa, molto lodevolmente, ha reso note le cifre del bilancio della diocesi. Un dato mi ha colpito: il drammatico calo dell’introito derivante dall’otto per mille, che è passato – nel giro di un solo anno – dai 2.100.000 euro del 2016 al 1.830.000 del 2017.

Quasi trecentomila euro in meno, per una piccola diocesi come la nostra, non sono poca cosa, ma non è per i soldi che mi preoccupo. Non sono affatto un fautore della “chiesa povera”,  perché so  bene che la chiesa deve poter disporre di tutte le risorse necessarie a svolgere il suo compito (a parte il fatto che spesso “quando il convento è povero, è perché i frati sono ricchi”), ma credo che tutto sommato la chiesa italiana i margini per razionalizzare le proprie spese continuando ad operare anche con entrate ridotte li abbia ancora. Ad esempio, se mancassero 400.000 euro – che, a quanto si sente dire, è il costo dell’altare delle teste mozzate di Gallarate – ad una diocesi che volesse imbarcarsi in un’analoga impresa, non sarebbe poi un gran male se vi dovesse rinunciare …

Il fatto è che il nostro sistema di finanziamento pubblico delle chiese – molto più laico e civile dell’orribile Kirchensteuer che vige in Germania, ed è una roba da chiesa di stato, frutto avvelenato della concezione protestante, che ha sì riempito le chiese di soldi ma non è l’ultima causa del loro attuale disfacimento – non si basa su un censimento di appartenenza ecclesiastica giuridicamente fissata sin dalla nascita e revocabile solo a prezzo di una esplicita richiesta di esonero che si configura, in pratica, come un atto di apostasia, ma è una sorta di “referendum annuale”, con il quale gli italiani dichiarano non tanto un’appartenenza religiosa quanto la stima che nutrono nei confronti della chiesa cattolica (e degli altri culti ammessi a questa forma di finanziamento).

Ora, io non sono un sociologo della religione, ma un calo delle adesioni di quasi il 15% da un anno all’altro a me pare decisamente notevole, e non credo che si tratti di un’eccezione, una peculiarità locale, come se a Cesena la chiesa avesse combinato qualcosa di particormente disastroso in questi ultimi tempi: presumo invece che più o meno la situazione sia la stessa dappertutto.

Non credo neanche che questo sia già l’effetto di un’onda lunga che arriverà, ma ancora non ci ha investito: quella della pressoché completa indifferenza al cristianesimo che si registra nell’ultima generazione. L’otto per mille, infatti, si calcola sulle dichiarazioni dei redditi e quei giovani lì, purtroppo, di redditi da denunciare ancora ne hanno ben pochi. No, sono gli adulti, per i quali la chiesa non è ancora del tutto irrilevante, ma che – questo è il punto – la stimano sempre di meno. La stimano tanto poco da non affidarle nemmeno una somma di denaro pubblico che, a differenza di quanto avviene con la tassa tedesca, non esce direttamente dalle loro tasche. È un indicatore che non va sottovalutato.

Ci sarebbe da chiedersi le ragioni di questo scollamento della chiesa cattolica dalla società italiana.

Post Scriptum del 19 – 11 – 2018: ho appena chiesto ulteriori informazioni a chi di dovere e mi è stato spiegato che la somma derivante dall’otto per mille che la diocesi riceve ogni anno si compone di una parte fissa, rapportata al numero dei battezzati e di una variabile che dipende dall’entità dei progetti che devono essere finanziati e che può cambiare da un anno all’altro. I resoconti della stampa locale, da cui avevo tratto la notizia, trascuravano questa importante distinzione e fornivano perciò una notizia inutile, se non fuorviante (ma a che cosa servono, in effetti, i giornali?). Il forte calo dei trasferimenti alla diocesi registrato dal 2016 al 2017 non è perciò direttamente rappresentativo di un proporzionale calo delle entrate provenienti dall’otto per mille. Un altro elemento di cui tener conto è che la spartizione del fondo destinato alle chiese viene fatta sulla base delle preferenze espresse da un numero progressivamente sempre minore di contribuenti: fatto 100 il numero dei contribuenti, se solo 40 indicano a chi destinare l’otto per mille e di quei 40 sono 30 quelli che indicano la chiesa cattolica, quest’ultima riceve il 75% del totale disponibile. È ragionevole prevedere che non tarderà a venire il momento in cui lo stato, pressato dalla fame di soldi, vorrà cambiare il metodo di calcolo destinando alle chiese solo la percentuale effettivamente corrispondente al numero delle preferenze esplicitamente dichiarate, cioè, nell’esempio fatto sopra, il 30%.

Quando la glossa sostituisce il testo.

16 venerdì Nov 2018

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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filologia, Origene, Padre Nostro, traduzioni, vangelo

Dunque i nostri vescovi, come previsto, hanno sentito la necessità di cambiare la traduzione del testo liturgico del Padre Nostro perché hanno ritenuto non più accettabile l’espressione «non ci indurre in tentazione». A me quelle parole non hanno mai fatto alcun problema e non ricordo di essermi mai accorto che facessero problema a qualcun altro, ma questo vuol dire poco: sono “epi-skopoi”, vedono le cose dall’alto, e di lì avranno visto che quella traduzione era in effetti una gran difficoltà per il popolo di Dio. “Non capisco ma mi adeguo”, come diceva un mio concittadino.

C’è però un altro problema, che nasce dal fatto che hanno deciso di sostituire quella “vecchia traduzione inadeguata” non con un’altra traduzione ma con una spiegazione. Tale, infatti, deve considerarsi l’espressione adottata: «non ci abbandonare alla tentazione».

Mi chiedo se abbiano ponderato bene le implicazioni di questa scelta, che di fatto sostituisce la glossa al testo. Quante sono le asperità, le oscurità, perfino gli “scandali” che il testo biblico ci mette davanti? Innumerevoli. Ma è un bene sottrarle ai fedeli? Origene e dopo di lui gli altri Padri ci hanno insegnato come e perché l’asperità del testo sacro sia invece un dono prezioso al lettore che voglia veramente assimilarne il senso. Con questo metodo, che per altro è già in vigore da tempo, tutte le asperità possono essere appianate, tutte le oscurità chiarite e tutti gli “scandali” tolti di mezzo. Di questo passo, non finiremo per avere un testo facilitato, a nostra misura, che dice sempre quello che ci aspettiamo che dica? Con un po’ di malizia, si potrebbe arguire che, in questo modo, invece di “vivere il vangelo sine glossa” – com’era l’ideale arduo e quasi irraggiungibile di Francesco (quell’altro) – si potrà passare direttamente alla glossa, saltando il testo. Ma se la glossa sostituisce il testo, niente più Origene, niente più Francesco.

P.S. A chi obiettasse che questi sono arzigogoli aristocratici, fisime da eruditi che hanno tempo da perdere, mentre i vescovi giustamente si preoccupano del buon popolo di Dio, farei sommessamente notare che in fin dei conti chi sa il greco la possibilità di sapere cosa ci sia scritto nel vangelo ce l’ha comunque, mentre è proprio alla grande maggioranza dei fedeli, che il greco non lo conoscono, che viene tolto l’accesso al testo così com’è quando al posto di una corretta traduzione gli viene data un’esegesi.

Comunione (Lo stretto necessario per fare il cristianesimo, 3)

15 giovedì Nov 2018

Posted by leonardolugaresi in Atti degli apostoli

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Atti degli apostoli, comunione, comunismo, economia

«Essi perseveravano […] nella comunione (τῇ κοινονίᾳ)» (Atti 2,42). La seconda cosa necessaria per vivere da cristiani è la comunione. La comunione (koinonia) in radice è la partecipazione ad uno stesso bene: volersi bene, andare d’accordo, essere solidali, mettere in comune le cose che si possiedono sono conseguenze, non l’essenza della koinonia, che consiste nell’essere centrati, fondati, “costituiti” dalla stessa cosa. In altre parole, avere la stessa ragione determinante di vita, lo stesso “interesse ultimo” (lo stesso ultimate concern, per usare la formula di Paul Tillich), lo stesso tesoro in cui è il cuore (per dirla col vangelo).

Lo chiarisce bene il successivo v. 44 del brano di Atti che stiamo esaminando, con un’espressione che purtroppo è difficile da rendere in italiano. Noi vi leggiamo: «Tutti i credenti erano insieme e avevano tutto in comune», ma il testo greco usa un’espressione, ἦσαν ἐπὶ τὸ αὐτὸ, che letteralmente significa «erano sulla stessa cosa», che è ben più pregnante. Non si tratta di uno stare insieme fisico o sentimentale o ideologico. Stare sulla stessa cosa vuol dire che il nocciolo della questione, la ragione per stare al mondo, il cuore della vita è lo stesso per tutti. Ne deriva un modo di “stare insieme” che non è per aggregazione, ma per insistenza di tutti sullo stesso punto: il che richiede – per non pestarsi i piedi e diventare immediatamente nemici – non semplicemente l’accordo ma, appunto, la comunione. Questo, genialmente, spiega perché nell’esperienza della chiesa o c’è la comunione o c’è il conflitto. (La stessa cosa, per analogia, quando due “stanno insieme”: o comunione o – prima o poi, ma inevitabilmente – conflitto e rottura). Ecco perché nella chiesa non si può fare unità “diplomatica”.

Rispetto a questo, la comunione dei beni materiali illustrata nel v. 45 («le proprietà e i beni, li vendevano e li dstribuivano fra tutti, secondo che si aveva bisogno») – quel «comunismo dell’amore» (Liebeskommunismus) come lo chiamava Ernst Troeltsch, che ha tanto impressionato, nel corso della storia, molti lettori superficiali del libro degli Atti, fomentando suggestive ma dannose utopie di “ritorno al vero cristianesimo” delle origini regolarmente sfociate in progetti fallimentari – è solo una conseguenza, logicamente necessaria nella sostanza ma provvisoria e mutevole nelle forme.

Se si è veramente «sulla stessa cosa», si è in comune e dunque è conseguente avere tutte le cose in comune. Ma l’organizzazione logistica della prima comunità di Gerusalemme nei mesi successivi alla  morte del Signore non costituisce affatto un modello economico cristiano: basta prestare attenzione a ciò che il testo stesso rende evidente, cioè che si tratta di un’economia di pura redistribuzione e  consumo delle risorse disponibili. Vendono i beni che possiedono e con il ricavato soddisfano i bisogni di tutti. Perché? Perché sono convinti che la parousia, il ritorno glorioso di Cristo, sia imminente. Se il mondo finisce tra poco, è del tutto sensato mangiarsi la casa. Svanito quell’abbaglio, il senso cristiano per l’economia obbliga a porsi il problema della produzione dei beni: vent’anni dopo Paolo ha le idee chiarissime in proposito: «Chi non vuol lavorare, neppure mangi» (2 Ts 3,10). Che è un principio economico di valore universale, a differenza del Liebeskommunismus di cui sopra.

Una chiesa che ha perso la testa.

13 martedì Nov 2018

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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arte, Liturgia, Santa Messa

Nella basilica di Santa Maria Assunta a Gallarate hanno sentito la necessità di fare un nuovo altare. E lo hanno fatto: è un parallelepipedo di teste mozzate accatastate, con una lastra di marmo sopra. Lo potete vedere fotografato da tutti i punti di vista semplicemente cercando “altare Gallarate”.

Non mi interessa discuterne come opera d’arte. Né mi interessa discutere le elucubrazioni dell’artista e dei committenti per spiegare il senso teologico di questo manufatto. Per quanto mi riguarda, tale oggetto potrebbe essere pregevolissimo e il suo significato assai profondo.

Il punto è che qui ci troviamo di fronte ad una chiesa che non sa più che cosa sia un altare, quindi si fa dire come deve essere fatto dall’artista o dall’architetto di turno. Non essendoci un’idea chiara della funzione, la forma sarà aleatoria (e in ogni caso non limpida). Non c’è nessuna autentica krisis cristiana.

(Ci sarebbe poi da fare una considerazione generale sullo sconcio dei due altari, quello “vecchio” e quello “nuovo”, a cui siamo anestetizzati perché lo vediamo tutti i giorni in quasi tutte le chiese del mondo, ma che trasmette un messaggio terribile, i cui effetti “subliminali” non credo siano mai stati valutati.

Se si vuole fare un altare nuovo, si abbia il coraggio di rimuovere il vecchio. Se non si vuole o non si può rimuovere il vecchio, si abbia la decenza di lasciare il mondo come sta. Ma sarebbe un discorso lungo … magari un’altra volta)

Insegnamento degli apostoli (Lo stretto necessario per fare il cristianesimo, 2)

11 domenica Nov 2018

Posted by leonardolugaresi in Atti degli apostoli

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Atti degli apostoli, autorità, chiesa apostolica

Ieri dicevamo, sulla scorta di Atti 2,42-47, che il primo attrezzo da mettere nello “zaino di sopravvivenza” dei cristiani, per la traversata del deserto che ci attende, è la perseveranza.

Oggi cerchiamo, sempre in quel testo fondamentale, in che cosa bisogna essere perseveranti. Innanzitutto «nell’insegnamento degli apostoli (τῇ διδαχῇ τῶν ἀποστόλων)». La prima caratteristica essenziale della chiesa, infatti, è di essere apostolica. Lo proclamiamo, senza pensarci, ogni domenica alla messa («credo la chiesa una santa cattolica e apostolica), ed anche se in quell’elenco l’apostolicità chiude la fila dei predicati della chiesa, a ben vedere è su di essa che si fondano le altre tre qualifiche: la chiesa è una santa e cattolica in quanto è apostolica. È l’apostolicità, infatti, che la collega a Cristo. Ai nostri giorni è piuttosto diffusa, tra i dotti, l’opinione che la chiesa in realtà c’entri poco con Gesù di Nazaret, il quale sarebbe stato impegnato a fare tutt’altro e a fondarla non ci avrebbe proprio pensato. Tutte le tesi di questo genere, tuttavia, cozzano contro un fatto, decisivo e insormontabile: una cosa sicuramente Gesù per la chiesa l’ha fatta , nel corso della sua missione, ed è stata scegliere i dodici. Il movimento a cui, con la sua predicazione ed i suoi segni, Egli diede vita, non era genericamente formato da seguaci pur che sia: fra tutti gli uomini che incontrò ne scelse sovranamente dodici e li costituì suoi amici e suoi inviati (apostoli). Convisse con loro, li fece destinatari di un insegnamento particolare riservato a loro, li coinvolse nel drammatico compimento della sua missione a Gerusalemme, affidò a loro la continuazione della sua presenza nel mondo. L’apostolicità è dunque il  cardine del fondamento cristico della chiesa: e lo resterebbe anche se volessimo sostenere che tutto il resto, nella struttura e nei contenuti dell’apparato ecclesiale, è opera umana.

Si dirà che il Maestro ha scelto sì i dodici, ma non ha detto nulla circa la loro successione. Il crisma dell’autorità di Cristo, dunque, da questo punto di vista coprirebbe solo Pietro e gli altri apostoli, ma non tutti coloro che in seguito hanno preso il loro posto, cioè il papa e i vescovi. Questo è vero, ma quel nesso lo hanno stabilito gli apostoli stessi, nel primo atto di esercizio dell’autorità apostolica ricevuta. Lo vediamo in un altro passo fondamentale degli Atti degli Apostoli, al capitolo 1, 15-26. Sono passati pochi giorni dall’Ascensione: gli apostoli, Maria e qualche altra donna, un po’ di parenti di Gesù e qualcun altro «perseverano concordi nella preghiera» (1,14). Sono in tutto circa centoventi persone (1,15). Pensiamoci: 120 in tutto il mondo. Un niente. Solo loro in tutto il mondo sanno che Cristo è vivo, perché è risorto dai morti. Solo loro ci credono. Il dono dell’effusione dello Spirito non c’è ancora stato, e loro non sono in grado di fare altro che perseverare nella preghiera. Qual è l’unico problema che ritengono di dover affrontare? Quello della sostituzione  di Giuda, l’apostolo traditore. Questo è uno snodo essenziale nella storia della chiesa: se il collegio degli apostoli deve essere completo, come l’ha voluto Gesù, Pietro e gli altri si sentono autorizzati a fare quello che aveva fatto Gesù, cioè ad agire in suo nome. Creano un apostolo, che sarà tale esattamente come se lo avesse scelto Gesù.

Non meno importante è il criterio della scelta e la sua modalità di applicazione: «Bisogna quindi che, tra gli uomini che hanno camminato con noi tutto il tempo nel quale il Signore Gesù andava e veniva verso di noi, a cominciare dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato elevato lontano da noi, uno di questi diventi testimone della sua resurrezione» (1,21-22). In questo “concorso per titoli”, si richiede una sola qualità: quella di essere testimone integrale di tutta l’attività pubblica di Gesù di Nazaret, dall’inizio alla fine, senza lacune e senza omissioni. Dal “bando di concorso” si capisce come è intesa la mansione che deve ricoprire il vincitore. Puramente e semplicemente essere in grado di testimoniare tutto ciò che il Maestro ha detto e ha fatto. Non deve esibire nessuna particolare grandezza, né piacere ad alcuno. Non conta la personalità, l’acume dell’intelligenza, l’altezza delle virtù, lo spessore della dottrina. Men che meno la piacevolezza e l’abilità nel comunicare. Conta solo che abbia visto e sentito tutto, lo conservi nella memoria e lo riporti fedelmente agli altri.

Vivere da cristiani, oggi come nei primi anni trenta del I secolo, richiede innanzitutto di «perseverare nell’insegnamento degli apostoli». Ma l’insegnamento degli apostoli altro non vuole essere che la riproposizione della persona di Cristo, nel suo agire e nel suo parlare. Non vi è dubbio che gli apostoli si concepiscano come “autorità testimoniante” o, se si vuole “ricordante”, e non come “autorità interpretante” (e tanto meno come “autorità creativa”).

Questa docenza è anche la prima e più importante forma di governo. Noi, purtroppo, ci siamo un po’ abituati a distinguere la funzione del magistero da quella di governo della chiesa, che di conseguenza viene ridotta ad una dimensione giuridica e amministrativa, e a ritenere che, di fatto, sia la seconda quella che in pratica conta di più. È una visione miope, perché trascura che il compito essenziale degli apostoli è “insegnare Cristo” e questa è la parte essenziale del governo della chiesa, che spetta agli apostoli. Altre cose le possono fare altri: ad esempio i sette che vengono eletti per curare la distribuzione del cibo ai poveri, come viene raccontato in Atti 6,1-7. Oggi si parla molto di clericalismo come fonte di tanti mali nella chiesa: per dare sostanza teologica a questa discussione bisognerebbe ripartire di qui.

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