Tranquilli, è vissuto nel VII secolo.
Si chiamava Onorio I e fu papa dal 625 al 638. In effetti sembra proprio che abbia aderito ad una dottrina cristologica erronea e perciò venne successivamente condannato dal concilio ecumenico Costantinopolitano III (nel 681) e da papa Leone II. La storia è lunga e complicata, ma per ridurla ai minimi termini si può dire che quasi due secoli prima, nel 451, il quarto concilio ecumenico a Calcedonia aveva definito la dottrina delle due nature unite nell’unica persona di Cristo, «senza confusione, senza cambiamento, senza divisione, senza separazione», grazie all’apporto decisivo del papa Leone I che aveva brillantemente chiarito la posizione della chiesa romana in una lettera al patriarca di Costantinopoli (il cosiddetto Tomus ad Flavianum), totalmente recepita dal concilio.
La definizione di Calcedonia, molto “romana”, non venne però accettata da larghi settori del cristianesimo greco, soprattutto in Egitto e nel vicino oriente, dando luogo a uno scisma (che dura tuttora) a cui gli imperatori bizantini, anche per ragioni politiche, cercarono a più riprese di porre rimedio proponendo (o imponendo) formule di compromesso che venissero incontro alle istanze di coloro che sostenevano la tesi dell’unità della natura di Cristo (detti monofisiti o miafisiti). Al tempo di Onorio, in particolare, andava forte la proposta di lasciare intatta la formula calcedoniese (“la dottrina non cambia”, come si direbbe oggi!) ma di integrarla con la precisazione che sì, in Cristo le nature saranno anche due, però c’è un unico principio operativo, un’unica energheia, che assicura l’unità del suo agire come persona. Questo monoenergismo, come viene chiamato, si precisò ancora meglio quando il patriarca Sergio di Costantinopoli propose di parlare semplicemente di unica volontà di Gesù Cristo. Sergio in sostanza diceva: le nature sono due e non ci piove, lasciamo stare le energie perché c’è chi ne vuole due e chi una, però ci mettiamo d’accordo che la volontà è una ed una sola (ed è, ovviamente, quella divina non quella umana). Questo si chiama monotelismo. Il papa Onorio, che avrà probabilmente pensato che ricomporre l’unità di fede di tutti i cristiani sarebbe stata una gran bella cosa – e chi non lo penserebbe? – purtroppo fu d’accordo con Sergio e lo dichiarò pubblicamente. L’imperatore Eraclio, che non aspettava altro, poco tempo dopo fece diventare questa soluzione, apparentemente così semplice e ragionevole, dottrina ufficiale di tutto il suo impero, promulgando nel 638 un editto in proposito (la cosiddetta Ekthesis).
Vissero tutti felici e contenti? Nient’affatto. Perché il monotelismo sarà anche carino, ma è radicalmente sbagliato e a Roma se ne accorsero subito. Appena morto Onorio, i suoi successori cominciarono a fare marcia indietro e condannarono a più riprese la dottrina monotelista (cercando di glissare sullo svarione del predecessore), finché nel VI concilio ecumenico (quello sopra citato, del 680-681) tutta la chiesa riaffermò solennemente la fede nelle due nature e nelle due volontà presenti nell’unica persona di Cristo, recuperando la piena unità tra Roma e Costantinopoli. (Nel frattempo i cristiani monofisiti erano in gran parte finiti sotto la dominazione musulmana e quindi non costituivano più un gran problema per l’impero bizantino).
Mi rendo conto che queste possano sembrare questioni di lana caprina. Del resto, sarei pronto a scommettere che, se si chiedesse ai fedeli di qualsiasi parrocchia, all’uscita della messa domenicale, se in Cristo c’è una volontà o due, tra quelli che capirebbero la domanda (e che sarebbero forse già una minoranza) solo pochi darebbero la risposta giusta. Ma in fondo, che differenza fa?
Ne fa un sacco. La questione, infatti, è quella vitale della realtà o meno dell’incontro tra Dio e l’uomo. Noi ce lo dimentichiamo, ma l’incarnazione è una cosa tremenda: «Dio che sceglie si unisce all’uomo scelto e c’è da temere che il rapporto tra Dio e l’uomo in ordine di distanza e prossimità si cancelli e che forse alla fine Dio sparisca nell’uomo, così che quest’ultimo possa assegnarsi la dignità divina» (H.U.von Balthasar, L’impegno del cristiano nel mondo, trad.it. Milano 2017, p.39). Oppure che l’uomo sparisca nel Dio incarnato, il che alla fine fa lo stesso. Il rischio di uno “svuotamento dall’interno” del significato dell’incarnazione come incontro reale di Dio e dell’uomo, e quindi della vanificazione della salvezza, si ha sia nel caso che le due realtà (le due nature) in Gesù Cristo restino separate (come sarebbe in una cristologia ”nestoriana”), sia nel caso che l’umanità venga in qualsiasi modo “assorbita” dalla divinità. Perché la redenzione si compia, occorre infatti che la totale obbedienza del Figlio alla volontà del Padre fino alla morte di croce, sia opera anche della volontà umana di Cristo, non solo di quella divina. Quella volontà realmente umana che gli fa chiedere al Padre di non morire («passi da me questo calice»), ma poi subordina comunque tutto alla piena accettazione del beneplacito divino («tuttavia sia fatta non la mia ma la tua volontà»). Solo se l’umanità di Cristo è talmente vera da essere la volontà di un uomo che, come tutti gli uomini, non vorrebbe morire, ma è disposto a obbedire comunque alla volontà di Dio, la frattura tra Dio e l’uomo prodotta dal peccato originale è definitivamente sanata. Ditemi se queste sono bazzecole.
P.S. A proposito, anche con un papa un po’ eretico la chiesa è andata avanti lo stesso. Almeno quella volta.