Dopo avere completato, con il terzo sommario (Atti 5, 12-16), la descrizione della comunità di Gerusalemme, presentandola non solo nella sua vita interna ma anche nella sua proiezione verso l’esterno come luogo attrattivo in cui avvengono guarigioni miracolose, Luca riprende uno dei due fili con cui sta tessendo la sua trama narrativa, quello del contrasto con le autorità religiose giudaiche (che si prepara a diventare persecuzione). L’altro filo, strettamente correlato, è appunto quello del “successo” della comunità, attestato dalla sua crescita, anche numerica, che l’autore periodicamente ci segnala. I due aspetti sono, come ho detto, profondamente connessi tra loro e nel loro insieme trasmettono un messaggio teologico che gli sta a cuore: nell’esperienza cristiana la crescita, personale ed ecclesiale, sempre viene contrastata e dunque sempre si accompagna alla sofferenza.
Gli antagonisti qui sono indicati in modo molto preciso: «il sommo sacerdote e tutti quelli con lui, cioè la setta dei Sadducei» (5, 17), i quali, «pieni di gelosia (ζήλου)» (ibid.) per la popolarità degli apostoli taumaturghi, li fanno arrestare e imprigionare (5, 18). Notiamo: l’ostilità contro la comunità dei discepoli di Gesù è ancora circoscritta, perché riguarda le autorità del Tempio e il partito dei sadducei, cioè un gruppo potente sì, ma tutto sommato minoritario, all’interno di un ambiente giudaico di cui i seguaci di Gesù, in questo momento, fanno ancora parte a tutti gli effetti, e in cui godono di un rilevante favore popolare e anche, come vedremo tra un momento, di una certa tolleranza, se non proprio dell’appoggio, da parte della componente farisaica dell’establishment. Nell’episodio che stiamo esaminando, sembra ripetersi la scena di arresto e minacce raccontata a 4, 1-22; con la significativa differenza, tuttavia, che ora sono coinvolti tutti gli apostoli, e non solo Pietro e Giovanni, e che le minacce si fanno molto più serie, poiché nell’udienza davanti al sinedrio (5, 27-33) si profila addirittura la possibilità di una condanna a morte (5, 33). C’è dunque un crescendo, tra il primo e il secondo arresto degli apostoli, che l’autore vuole imprimere bene nella mente dei suoi lettori (nella prospettiva della climax che culminerà nella crisi della persecuzione di Stefano).
Dal carcere, gli apostoli sono liberati nottetempo grazie a un intervento divino, a cui peraltro Luca accenna in modo estremamente sobrio (5, 19), ma che mette in imbarazzo, per non dire in ridicolo, il potere repressivo delle autorità del Tempio (5, 21-26). Portati finalmente in giudizio davanti al sommo sacerdote e ai membri del sinedrio, viene loro contestata la violazione del precedente divieto di «non insegnare nel nome di costui» cioè di Gesù (5, 28, che si riferisce direttamente a 4, 18). La replica di Pietro e degli apostoli consiste nella ripetizione in forma estremamente sintetica del discorso missionario tipico di Atti, che abbiamo già trovato a 2, 14-36 poi a 3, 12-26 e di nuovo a 4, 8-12.
«Bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini. Il Dio dei nostri padri ha risuscitato [lett. ha risvegliato] Gesù, sul quale voi avete messo le mani appendendolo al legno; lui Dio l’ha innalzato ala sua destra [o “con la sua destra”] come iniziatore (ἀρχηγὸν) e salvatore (σωτῆρα), per dare a Israele conversione e cancellazione dei peccati. E noi siamo testimoni (μάρτυρες) di queste cose come anche lo Spirito Santo che Dio ha dato a coloro che gli ubbidiscono» (Atti 5, 29-32).
Annotiamo questa “ripetitività”: Pietro e gli altri apostoli dicono sempre le stesse cose, anzi la stessa cosa, perché in fondo una sola ne hanno da dire. Al nostro mondo annoiato, che ha sempre bisogno di novità per vincere l’inappetenza, e agli esperti di marketing che lo inseguono per vendergli le loro mercanzie, questa monotonia pare stucchevole. Ma davvero noi cristiani abbiamo, in fondo, una sola cosa da dire, sempre quella: l’annuncio che Cristo è risorto come «iniziatore e salvatore». In questa endiadi c’è la risposta: Cristo è iniziatore (questo titolo gli era stato dato anche a 3, 15) della salvezza. Il cristianesimo è sempre, in essenza, iniziale. E gli inizî non annoiano mai.
L’ostinazione degli apostoli esaspera i sadducei, che vogliono metterli a morte. A questo punto si alza in mezzo al sinedrio un uomo stimato da tutti, il fariseo Rabban Gamaliele, «la gloria della Legge» come lo chiama la Mishnah, forse il più grande maestro del tempo (anche Saulo fu suo discepolo) che enuncia un principio di permanente validità e saggezza, che anche i cristiani, e in particolare coloro che hanno autorità nella chiesa, dovrebbero sempre tenere a mente: mai mettersi contro Dio con la pretesa (o il pretesto) di difenderlo o di fare i Suoi interessi. Il suo discorso, così come Luca lo ricostruisce, rielaborando verosimilmente tradizioni provenienti dall’ambiente gerosolimitano, è molto semplice. Dopo aver ricordato il misero fallimento delle imprese di due leader carismatici che avevano suscitato inizialmente grandi speranze tra la gente (5, 36-37), ammonisce in questo modo i suoi colleghi del sinedrio:
«Non occupatevi di questi uomini e lasciateli andare, perché nel caso fosse (ὅτι ἐὰν ᾗ) di origine umana (ἐξ ἀνθρώπων) questo progetto o quest’opera sarà distrutta; ma se viene da Dio (εἰ δὲ έκ θεοῦ ἐστιν), voi non potrete distruggerli: che non vi accada di essere trovati a far la guerra a Dio! (μήποτε καὶ θεομάχοι εὑρεθῆτε)» (5, 38-39).
Difficile dire se il Gamaliele di Atti parli per celata simpatia verso gli apostoli o per semplice prudenza “politica”, anche se la diversa sfumatura sintattica con cui formula le due ipotesi (con il congiuntivo quella che la loro “impresa” sia solo umana, con l’indicativo che invece venga da Dio), in uno scrittore raffinato come Luca, forse vuole essere un suggerimento a vedere in lui un simpatizzante della via di Gesù (così immaginarono i Padri). Impossibile dire se nel Gamaliele storico, che è verosimile abbia consigliato una “linea morbida” nel trattare i discepoli di Gesù, vi fosse qualcosa di più dell’applicazione di un generale criterio di condotta. Sarebbe già molto anche in questo caso, perché il suo consiglio, anzi il suo principio, è ottimo in tutti i casi.
La tentazione di tutti gli uomini religiosi è di intromettersi nella relazione tra Dio e gli altri uomini, “fare gli affari di Dio”, in definitiva “decidere per Lui”. E così farsi padroni della fede altrui, come dice splendidamente Paolo (2 Cor 1, 24). Nella chiesa, questa è una componente fondamentale del “dispotismo clericale”, che ci porta a reprimere, naturalmente “in nome di Dio”, tutto ciò che non ci piace. Certo, il compito primario dell’autorità nella chiesa è preservare la retta fede, ma per adempierlo in modo corretto (cioè rispettoso della libertà di Dio e anche di quella degli uomini) il “principio di Gamaliele” è utilissimo. Faccio un esempio che forse ad alcuni sembrerà inappropriato. Quando l’autorità ecclesiastica, dopo aver fatto la riforma liturgica ed aver abolito il vecchio rito, ha dovuto prendere atto che esso non moriva, ma continuava a vivere nell’esperienza di migliaia di fedeli anche dopo mezzo secolo, e ha preteso di ucciderlo con Traditionis Custodes, se ci fosse stato un Gamaliele anche ai giorni nostri, egli si sarebbe alzato e avrebbe detto: “badate bene a ciò che fate. Che non vi accada di trovarvi a fare la guerra a Dio”.