Nel precedente pezzo sul canto XXVI (qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2023/01/21/adamo-nostro-padre-dante-paradiso-canto-xxvi-vv-67-123-139-142/) avevamo lasciato indietro la terza risposta di Adamo alle domande di Dante, quella relativa alla lingua primordiale, un po’ per non farla troppo lunga e un po’ perché si tratta di una questione complessa, di cui io so giusto quel poco che mi permette di capire che non ne so abbastanza. Per chi volesse approfondire un po’ l’argomento c’è, come sempre, la voce Adamo dell’Enciclepedia Dantesca, curata per la parte che riguarda la lingua da Piervincenzo Mengaldo e consultabile online (sia benedetto Internet!) qui: https://www.treccani.it/enciclopedia/adamo_%28Enciclopedia-Dantesca%29/. Facilmente accessibile e scritto in modo chiaro e scorrevole è anche un libro di Umberto Eco, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, che ha un capitolo dedicato a Dante.
Noi qui, però, siamo alla scuola elementare e quindi stiamo all’essenziale. Che lingua parlava Adamo? Adamo che dava i nomi a tutti gli esseri viventi e «in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome» (Gen 2, 19), e se diceva che il gatto si chiama gatto e il cane cane, anche Dio si adeguava e lo chiamava così! Adamo che, quando Dio «passeggiava nel giardino alla brezza del giorno» (Gen 3, 8) gli parlava a tu per tu, senza interprete, e si capivano perfettamente perché parlavano la stessa lingua … e invece dopo la cacciata dall’Eden le comunicazioni sono sempre state difficili, precarie e continuamente disturbate; il segnale non arriva o arriva debole, e hai voglia a spostarti un po’ più in là perché “qui non c’è campo”, hai voglia a dotarti dell’ultimo costoso modello di telefono; e poi, anche quando sembra che Dio parli non si capisce mai bene che cosa voglia dire, parla un’altra lingua, e ci vogliono gli interpreti (preti, aruspici, profeti, teologi sapienti, ma anche una folla di visionari, indovini e imbroglioni e così via), e vatti a fidare … Un disastro, insomma, almeno finché Dio non venne di persona, nella persona del suo Figlio, e parlò semplice, chiaro, alla portata di tutti. Ma anche dopo di allora i problemi non sono finiti, perché in che lingua parlò nostro Signore? In aramaico? E che ne sappiamo di ciò che disse propriamente e come lo disse? Non c’era mica il registratore (come disse quel tale). I resoconti che ci restano sono in greco, e si sa che tradurre è un po’ tradire, poi c’è stato il latino, ora quelle parole le leggiamo chi in una lingua e chi nell’altra, e ci sembra che non sia mai proprio la stessa cosa, a seconda di come si intende e di come si traduce … (ricordate per esempio quanto ci siamo arrabattati, di recente, col Padre Nostro?). Con le lingue che abbiamo sembra sempre che non arriviamo a toccare l’essenziale, il fondo della questione, il cuore del problema, l’essenza della realtà.
Ah, la lingua perfetta, quella di Adamo; quella condivisa con Dio e perciò eterna, immutabile, totalmente aderente alla realtà, senza difetti, senza lacune, senza ambiguità né oscurità. La lingua che afferra, possiede, illumina di senso tutte le cose. Lingua del Signore e lingua della signoria dell’uomo sul cosmo. Lingua che, se la ritrovassimo …
Ecco, la notizia è che quella lingua non c’è. Non esiste, non c’è mai stata. Qui si compie una rivoluzione concettuale per Dante, il quale in precedenza, quando aveva scritto il De vulgari eloquentia, non la pensava così. Come spiega bene la succitata voce della ED: «la differenza più sensibile tra la posizione dichiarata nel De vulgari Eloquentia e quella successiva del poema consiste in questo: nel trattato latino la lingua è fatta da Dio ed è concreata con l’anima “quanto ai vocaboli coi quali eran designate le cose, quanto alla costruzione delle parole e perfino quanto al modo di proferire il discorso” (Nardi), e tale doveva mantenersi sempre, prima e dopo la torre di Babele; nel poema, invece, la lingua parlata da A. era creazione sua, cioè opera naturale, e quindi come tale soggetta alla legge della mutabilità».
«La lingua ch’io parlai fu tutta spenta / innanzi che a l’ovra inconsummabile / fosse la gente di Nembròt attenta» (vv. 124-138) – dunque ben prima della Torre di Babele, quel monumento dell’umana superbia destinato a ergersi perenne a conquista del cielo (noi diremmo “inconsumabile”, fraintendendo l’aggettivo che Dante impiega invece per bollare la vanità di un’opera che non si porta mai a termine) – e si è spenta perché era un’opera umana, mutevole e peribile come ogni altro prodotto delle nostre mani.
«Opera naturale è ch’uom favella; / ma così o così, natura lascia / per fare a voi secondo che v’abbella» (vv. 130-132): è naturale, cioè frutto dell’impronta divina sulla creazione, che l’uomo abbia la parola, il logos che lo connette al Logos, ma le parole, cioè i diversi linguaggi sono convenzionali, farina del sacco di ciascun parlante (siamo, come si vede, a un passo dalla nozione di arbitrarietà della lingua quasi sei secoli prima di Saussure). Anche Dio, come si chiama? «Pria ch’i’ scendessi a l’infernale ambascia, / I s’appellava in terra il sommo bene / onde vien la letizia che mi fascia; // e El si dichiarò poi: e ciò convene, / ché l’uso d’i mortali è come fronda / in ramo, che sen va e altra vene» (vv. 133-138).
C’è qui, a mio avviso, una poderosa liberazione da ogni idolatria della parola, una salutare e realistica presa di distanza da un abbaglio che noi uomini amiamo tanto prendere (e forse i poeti sono ancor più tentati degli altri a gettarsi in questo inganno): possiamo anche accettare di essere come «d’autunno / sugli alberi / le foglie», ma vogliamo disperatamente che almeno la nostra parola, la parola poetica, duri: «non omnis moriar» disse quel tale, convinto di aver edificato un «munumentum aere perennius». Tanto più significativo, quindi, che la base di tale monumento sia minata qui proprio da un poeta. Ma che dico? Dal poeta. Dal più grande dei poeti.
Beninteso, Dante qui non ci vuole affatto portare al nominalismo scetticamente rassegnato del nomina nuda tenemus che l’erudito sopra menzionato rubò ad un autore medievale per metterlo in esergo ad un suo fortunato romanzo e che da allora tutti conoscono. Le parole sono preziose, e chi meglio di lui lo sa e lo dimostra!; sono la cosa più preziosa – e, in un certo senso, sacra – che abbiamo. Ma sono le nostre. Non sono Dio. Attenzione dunque, a praticarne il culto. Si finirà per credere, sotto sotto e magari con più ipocrisia, quello che un altro, impudente quant’altri mai, ebbe la coraggiosa sfrontatezza di scrivere, nero su bianco: «divina è la Parola […] il Verso è tutto». Baggianate.
Quando Dio è venuto a parlarci, e – come ho detto sopra – parlò chiaro, parlò semplice, usando parole e immagini che potessero capire anche i piccoli, non fece alcun dettato. Non disse: “bambini, scrivete!” (eppure sapeva bene che eravamo come bambini, di fronte a Lui). Parlò, e si affidò alla nostra intelligenza, memoria e onestà. “Mi sarete testimoni”, quello che io ho detto a voi, voi ditelo a tutti. Figuriamoci. Noi non l’avremmo mai fatto. Ma Lui era Dio, e Dio – incomprensibilmente – ha grande stima della nostra libertà.