Ieri e l’altroieri ho partecipato ad un bel convegno di studio, di cui avevo dato notizia anche qui qualche tempo fa: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2019/04/10/invito-a-un-convegno/.
Propongo (scusandomi per la lunghezza dell’articolo) uno spunto di riflessione contenuto nella parte iniziale della mia relazione, che può inserirsi bene in quel percorso di lettura di alcuni passi degli Atti degli Apostoli che qui ogni tanto svolgiamo.
L’incontro di Paolo con i filosofi greci ad Atene, così come ci viene presentato in Atti 17,16-34, è senza dubbio un momento cruciale nella storia della chrêsis, cioè del “giusto uso” che, come insegna Christian Gnilka, è il tratto caratterizzante del del rapporto dei Padri con la cultura antica. Anzi si può dire che in un certo senso ne costituisca l’archetipo: un modello di esercizio della krisis, cioè di un discernimento in base al quale il cristiano può riconoscere gli «elementi di verità» che i pagani, magari senza rendersene conto, hanno nel loro patrimonio culturale e religioso, vagliarli alla luce della rivelazione, farli propri e metterli al servizio dell’annuncio di Cristo. In effetti, il comportamento di Paolo all’Areopago sembra costituire un esempio molto “spinto” di apertura al mondo della cultura greca, in cui la chrêsis cristiana dei valori pagani è strettamente funzionale alla missione cristiana, ma al tempo stesso un caso limite della sua applicazione, che potrebbe risultare problematico anche per gli stessi cristiani, dato che propone un retto uso persino della religione pagana, cioè dell’idolatria. Il cristiano può usare di tutto, anche di ciò che, almeno apparentemente, si contrappone alla sua fede?
Ciò che l’episodio ateniese di Atti 17 attesta autorevolmente, agli occhi dei Padri, è la capacità della fede cristiana di penetrare, con il proprio giudizio, nel centro del campo avverso”, di andare al cuore del mondo religioso pagano, mettendo in crisi dall’interno il sistema di pensiero che lo regge. Riconoscere il valore di alcuni suoi elementi comporta infatti, in questo procedimento, la loro “diacritica” separazione dal contesto originario di riferimento e il conferimento ad essi di un nuovo senso, ulteriore e divergente rispetto all’intenzione originaria ma al tempo stesso ritenuto “più vero”. Un senso che permette all’apologista e al missionario cristiano di servirsene, per innescare una proficua critica interna al sistema religioso pagano.
Ricordiamo per sommi capi la vicenda: Paolo si trova ad Atene e, in attesa che Sila e Timoteo lo raggiungano, visita la città e freme di sdegno vedendola piena di idoli (17,16). Nel frattempo discute nella sinagoga con i giudei e i “timorati di Dio”, ma gira anche per le strade e nell’agora parla con tutti quelli che incontra (17,17). Alcuni filosofi epicurei e stoici si mettono a discutere con lui, pur avendone poca stima, e lo conducono sull’Areopago per ascoltarlo (17,18-21). Lì Paolo tiene un discorso, che comincia con queste parole: «Uomini ateniesi, io vi vedo in tutto come persone molto religiose; infatti, passando e osservando i vostri monumenti sacri, mi sono imbattuto anche in un altare con scritto “Al / a un Dio ignoto”. Ciò che voi adorate senza conoscerlo, io ve l’annuncio». (17,22-23).
Il riferimento di Paolo ad una dedica Ἀγνώστῳ θεῷ (A[l / un] dio ignoto) che egli avrebbe visto iscritta su un βωμός (la piattaforma di un altare o forse il piedistallo di una statua) della città, ha suscitato, sin dall’età patristica, forti dubbi sull’effettiva esistenza di un’iscrizione esattamente formulata in quel modo e non piuttosto al plurale, «agli dèi ignoti». È in questa forma, ad esempio, che Tertulliano, vi fa cenno un paio di volte, e dopo di lui altri Padri. Anche fra gli studiosi moderni, molti condividono l’opinione che Eduard Norden così esprimeva all’inizio del secolo scorso: «l’autore del discorso dell’Areopago ha “monoteizzato” l’iscrizione politeista dell’altare tramite il passaggio dal plurale al singolare».
Non entro nel merito della questione, del resto in ultima analisi irrisolvibile, di quale fosse il testo originale dell’epigrafe citata da Paolo, perché il significato che essa doveva avere nel “contesto di partenza”, cioè nell’intenzione degli autori, non cambia di molto sia che la si reciti al plurale o al singolare. Anche se la formula che aveva colpito Paolo fosse stata effettivamente Ἀγνώστῳ θεῷ, non vi è dubbio che, nell’ambito della mentalità religiosa politeistica da cui essa trae origine, il suo significato doveva essere molto diverso da quello che egli le attribuisce.
Come ogni sistema religioso, anche il politeismo greco-romano, se vuole gestire il rapporto con il divino – che in fin dei conti è la ragion d’essere di ogni religione – deve “comprenderlo”. Deve cioè tracciare un perimetro che lo contraddistingua da ciò che divino non è; deve indicare i criteri di riconoscibilità delle sue manifestazioni; individuare i modi in cui la relazione tra gli uomini e il dio/gli dèi può funzionare, eccetera. Per fare tutto ciò, deve però affrontare una contraddizione che è intrinseca alla dimensione religiosa, e che dipende dal fatto che il divino è – in quanto per definizione non-umano / sovra-umano – non “comprensibile” da parte dell’uomo, non comprimibile, quindi non circoscrivibile con l’esattezza “scrupolosa” che è connaturale alla religio.
Il “modo politeistico” di risolvere questo problema è di cercare di contenere l’urto della “sovrabbondanza” (o trascendenza) divina attraverso la moltiplicazione seriale delle denominazioni divine e delle relative pratiche di culto. Per questo l’inclusività è una sua caratteristica essenziale, senza la quale esso fallisce e decade. Se non è in grado di includere ogni nuova manifestazione del divino, sempre possibile e mai prevedibile, il sistema si dimostra inefficace. Nel suo sforzo di “mappare” l’intero mondo divino, tuttavia, il politeismo è comunque costretto ad ammettere di non conoscere tutti i nomi degli dèi. Di qui un’ansia – che si farà via via più acuta di mano in mano che ci si inoltra nell’age of anxiety tardoantica – e uno scrupolo religioso che è tipico di ogni pio cultore degli innumerevoli dèi del paganesimo: è questa cautela che induce il devoto appunto ad aggiungere, a completamento degli altri strumenti di culto già messi in atto, quasi come una sorta di “clausola di salvaguardia”, appunto l’invocazione agli “dèi ignoti” o a un “dio ignoto” (il che, in quell’ottica, non è molto diverso), per essere sicuro di non aver lasciato fuori nessuno.
Ora, ciò che Paolo fa, raccogliendo questo appello che viene dal cuore del paganesimo – e dando, in prima battuta, l’impressione di valorizzarlo, è precisamente cambiarne profondamente il senso, e denunciare, con il suo intervento, il fallimento di tale linea di condotta religiosa. Lasciare uno spazio bianco in calce all’elenco dei nomi divini, in una specie di apotropaico “eccetera eccetera” che dovrebbe mettere l’uomo al riparo da ogni sorpresa divina, non serve al politeismo per venire a capo del suo problema: se infatti la formula “dei ignoti / dio ignoto” altro non è che un ulteriore nome divino, siamo al punto di partenza, perché all’uomo religioso resterebbe sempre il dubbio che vi possa essere ancora un’altra forma di espressione del divino che quest’ultima etichetta non copre. Ammettere di non sapere quanti dèi ci sono e pensare di cavarsela mettendo nel conto un’incognita n non basta al politeismo per risolvere la sua equazione teologica, stante l’ipotesi che le manifestazioni del divino possano invece essere n + 1.
Bisogna allora che “dio ignoto” significhi molto di più. Non semplicemente “un dio ignoto” o “un numero ignoto di dèi ignoti”, ma “il Dio ignoto”, cioè il “Vero Dio” che trascende tutte le sue manifestazioni e la stessa capacità umana di conoscerlo (e rende perciò irrilevante tutto lo sforzo politeistico). Quel Dio ignoto che il politeismo non è in grado di afferrare e che invece il Paolo di Atti 17,23 proclama di essere venuto a rivelare. Rispetto alla conoscibilità naturale di Dio, che pure viene affermata dall’apostolo in Rom 1,18ss. (l’altra “colonna portante” della chrêsis citata da Gnilka), occorre dunque che la radicale eccedenza del divino rispetto al modo in cui la religione (politeistica) lo pensa, sia da essa riconosciuta come assolutamente preponderante rispetto al proprio “sapere religioso”. Ed è precisamente in questo riconoscimento del proprio limite che, nell’ottica del missionario dell’Areopago, consiste il pre-requisito che solo può aprire i suoi interlocutori ad un vero ascolto del suo messaggio, vincendo la facile tentazione di ridurlo, nella migliore delle ipotesi, ad un «annunziatore di divinità straniere (ξένων δαιμονίων καταγγελεύς)», da trattare eventualmente secondo la logica inclusiva del sistema religioso vigente (cioè con una cooptazione nel pantheon).
La krisis cristiana qui paradigmaticamente esercitata da Paolo, separando un elemento del politeismo dal suo contesto, approfondendolo, e ricollocandolo su un altro piano di verità, si configura dunque non come l’emanazione di un giudizio “esterno” – che, a somiglianza di una sentenza di tribunale, si limiti semplicemente a qualificare un atto o il prodotto di un atto umano, valutandone la conformità o difformità rispetto ad un parametro esterno e superiore ad esso – ma come un incontro che, entrando dentro il sistema, all’interno del quale quell’atto o quel valore è stato originariamente posto, dall’interno lo mette in discussione e lo giudica. Essa agisce come una spada che distingue, separa e disarticola i componenti del sistema con cui si confronta, arrivando persino a destrutturarlo, e “costringendo” coloro che ne sono artefici, fruitori e difensori a “mettere in crisi” le proprie certezze. Questo vaglio, o se si vuole questa “purificazione”, è la necessaria premessa per il retto uso di tutti quegli elementi della cultura pagana di cui i cristiani riconoscono il valore.
Per questo motivo, quella di Paolo non è una una “pia frode”, come diceva Norden, uno stratagemma propagandistico, giustificabile forse nell’ottica del missionario ma culturalmente destituito di dignità. Credo invece che si tratti di un perfetto esempio di esercizio di un’autentica krisis cristiana.
Per noi, che viviamo immersi in un’atmosfera di “politeismo culturale”, è un esempio particolarmente significativo. Non abbiamo bisogno di inseguire il mondo nella ricognizione dei mille “dèi” a cui si affida nella sua angosciosa ricerca di senso, quanto piuttosto di essere capaci di riconoscere, all’interno di quelle istanze, l’assenza – più forte di ogni presenza, del «Dio ignoto». Quello che gli uomini cercano e in qualche modo, per quanto slabbrato e perverso, sempre adorano.
Ne deriva una critica potente, al mondo e al suo modo di vivere. Un critica che non ci renderà popolari, anzi ci attirerà l’antipatia e l’ostilità del mondo ma che è il servizio più importante che noi possiamo fargli.