Il punto di congiunzione tra l’etterno consiglio e la transeunte contingenza delle nostre vite, tra Dio che è Tutto e l’altro-da-Dio che Egli per amore ha misteriosamente voluto far essere dal nulla e ha fedelmente amato anche nel misterioso scandalo della sua non corrispondenza all’amore divino, quel «termine fisso», noi l’abbiamo fissato nel ventre di una donna. Di una donna, appunto.
Nel lessico dantesco, “donna” è parola altissima, regale e sacra: tiene ancora tutta la pregnanza del latino domina, teologicamente elevata a infinita potenza. Se ci volgiamo indietro a scorrere le ottanta occorrenze di questo lemma nella Commedia, ci accorgiamo senza sorpresa che è quasi assente nell’Inferno: tolte le tre del II Canto – dove però ancora non siamo all’Inferno – che sono riferite a Beatrice e a Maria, “donna” compare solo quattro volte, tre delle quali in senso metaforico. Si noti, in particolare, la sua totale assenza dal canto di Francesca, in palese contrasto con la sua “ambientazione cortese”. “Donna” si afferma invece nel Purgatorio, in ventinove versi, ora con una valenza signorile («la donna di Brabante», «donna di province»); ora in stretto legame con la bellezza femminile e con l’amore (il sintagma «la bella donna» è ripetuto cinque volte negli ultimi canti, dal XXVIII al XXXIII, e «cantando come donna innamorata» è l’indimenticabile apertura del XXIX); ora già con un rimando al sovrasenso teologico, celeste, di quella signoria e di quell’incanto: «donna scese del ciel» (I, 53), «donna del ciel» (I, 91 e IX, 88). Non è un’icona da contemplare a distanza, nella sua ieratica immobilità, ma una presenza viva, energica e, in un certo qual senso, persino paradossalmente “virile”: ricordiamo la «donna santa e presta» che interviene a salvare noi maschi dalla «femmina balba» nel canto XIX; i verbi di azione che spesso accompagnano la “donna” («scese», «muove e regge», «venne», «apparve», «si torse», «trasse», «volse» …); ricordiamo soprattutto quel «la donna mi sgridò» del canto XXIX, 61, che ancora brucia il piccolo Dante e noi.
Donna, infine, trionfa per ben quarantaquattro volte nel Paradiso e qui è essenzialmente tre cose: la “donna di Dante” (il sintagma «la donna mia», che aveva fatto una prima timida comparsa nel canto XXXII del Purgatorio, ora ritorna continuamente, con il possessivo messo prima o messo dopo: a V, 94; VII, 11; VIII, 15; VIII, 41; XIV, 84; XV, 32; XVII, 7 e 114; XXI, 2; XXIII, 10; XXIV, 32; XXV, 16 e 110 e 115; XXVI, 68 e 82; XXVII, 89; XXVIII, 40 e 61 e 86; XXXI, 56); la donna di Francesco (tre sole occorrenze, ma fortissime, nel canto XI); e infine la Donna di tutti, quella che tutti possono chiamare “la mia donna” (proprio questo vuol dire Madonna): Maria di Nazaret, la mamma di Gesù, madre di Dio e madre della chiesa.
Nella terzina che oggi meditiamo essa compare per l’ultima volta, nel modo più vivo in cui tale parola possa essere pronunciata, cioè come vocativo: non mera enunciazione, dunque, ma invocazione: grido, preghiera, mendicanza. «Donna, se’ tanto grande e tanto vali …», facendola risuonare, nella ripetizione ad alta voce del verso, io avverto chiaramente che è un male e allo stesso tempo un bene che questa parola si sia tanto abbassata, nel transito dall’uso di Dante al nostro. Della “parola preziosa” medievale, che sapeva di corte (terrena o celeste) e di altare, nel corso dei secoli abbiamo fatto strame, dapprima imborghesendola e poi involgarendola a tal punto che è stato necessario chiamare in soccorso qualche altra voce del vocabolario, come ad esempio “signora”, ogni qual volta occorresse un po’ di decoro e di cortesia. “Donna” ha finito per significare qualcosa di povero, non ha più evocato l’immagine di un manto regale, ma quella di uno strofinaccio. Quando io ero piccolo, e la società borghese era un po’ meno ipocrita di quanto non sia oggi, si usava tranquillamente la locuzione “donna di servizio” (grottesco ossimoro che avrebbe suscitato qualche reazione, immagino, in Dante) per indicare l’equivalente moderno di quella che ancora prima sarebbe stata chiamata, senza complessi, “serva”. Oggi sento dire cose come “la signora che mi viene a fare i lavori”, tanto si ha paura di offendere chiamandola “donna”. E soprattutto al vocativo non si dice. Chi mai, senza gravi inconvenienti, potrebbe ad esempio tornare a casa e apostrofare la moglie o la madre con un: “Donna, cosa c’è da mangiare?”. Ma anche quel «la mia donna» che tanto piaceva a Dante, oggi ha un corso più accidentato: l’enfasi del possessivo gli dà una carica passionale che in certi casi può renderlo gradito o seducente, ma l’insidia del sospetto di maschilismo, sempre in agguato per come sono i nostri tempi, è probabile che il più delle volte lo renda sconsigliabile. Insomma, è un termine che abbiamo un po’ smarrito per strada, e tutto il vociferare femminista per imporlo e rivalorizzarlo (“i diritti delle donne”, “la giornata della donna”, “finalmente una donna al posto di”, “sono una donna!”, insomma tutta quella roba là) riesce solo parzialmente nell’intento, anche perché nel frattempo abbiamo perso la cosa, oltre che la parola. Provate a chiedere “che cos’è una donna” (e ancor più “what is a woman”) in certi ambienti e vedrete se vi sanno rispondere.
L’umiliazione della parola, quell’involgarimento della sua accezione comune che ci rende così difficile intonarci esattamente alla frequenza del diapason di Dante quando egli la canta, ha però un risvolto positivo. «Donna, se’ tanto grande e tanto vali», infatti, non lo diciamo a una gran dama, bensì alla più umile delle creature («umile e alta più che creatura»: i due aggettivi in opposizione non si compensano ma si intensificano reciprocamente), e quando proseguiamo con la consecutiva: «che qual vuol grazia e a te non ricorre, / sua disïanza vuol volar sanz’ali» la terzina si completa, con un implicito, nascosto, quasi invisibile riferimento a due dei personaggi decisivi del nostro viaggio nella Commedia: Ulisse, a cui sommessamente allude il «volar senz’ali» («de’ remi facemmo ali al folle volo» aveva detto lui per descrivere il tentativo umano di autosalvarsi); e Francesca, a cui non allude niente, se non il fatto che è “alla donna” che si rivolge la preghiera di Bernardo, e proprio quel titolo, come abbiamo sopra notato, a lei è stato negato da Dante, quando tutto, nella sua cultura e nei suoi precedenti, lo avrebbe portato ad attribuirglielo. Due nobili, due superbi, due emblemi dell’umana grandezza. Due tragici fallimenti. Di contro: «l’umiltà della Sua serva». L’apostrofe dantesca, «Donna, se’ tanto grande e tanto vali» vibra di tutta questa tensione tra i poli della magnificenza e dell’umiltà.
Ad Iesum per Mariam, il principio cattolico-ortodosso che i protestanti, per loro sventura, hanno lasciato cadere, non è un’esortazione devota, ma la constatazione di una necessità cogente: si va a Dio, nella persona del Figlio, solo passando per la “porta stretta” che è Maria.