Dopo aver detto lei quel che Dante di sé non poteva dire, Beatrice gli lascia il compito di rispondere alle altre due domande di San Giacomo; e lui «come discente ch’a dottor seconda / pronto e libente in quel ch’elli è esperto, / perché la sua bontà si disasconda» (vv. 64-66) lo esegue a puntino. Che cos’è la speranza? «Spene, diss’io, è uno attender certo / de la gloria futura, il qual produce / grazia divina e precedente merto» (vv. 67-69). Risposta da manuale (che si poteva leggere, in effetti nelle Sentenze di Pietro Lombardo, forse il più diffuso testo scolastico di teologia del tempo), pronunciata però con fresca limpidezza, come un frutto pienamente assimilato. Assaporiamo così, per un’ultima volta, quei “piaceri della scuola” su cui altre volte ci siamo intrattenuti nel corso del nostro viaggio: il gusto di dare gli esami, quando si sanno le risposte (pronti e libenti in quel che siamo esperti, come dice lui); e la bellezza di una definizione perfetta nella sua formulazione, beninteso quando essa non è ripetuta a pappagallo senza intelligenza ma è pienamente posseduta dall’allievo che la tornisce con precisione, a godimento del maestro (immagino che i docenti di matematica e di fisica siano particolarmente sensibili a tali gioie, quand’esse capitano).
E donde ti viene la speranza? «Da molte stelle mi vien questa luce» (v. 70), cioè da tutti i libri della Sacra Scrittura, ma in particolare dai salmi e dalla Lettera di Giacomo. Quest’ultimo riferimento è un po’ una ruffianeria nei confronti dell’esaminatore, da Dante ritenuto l’autore di quello scritto neotestamentario, perché in realtà non è che vi si trovi un particolare approfondimento di tema della speranza; ma noi siamo soprattutto attratti dalla meravigliosa parola che il poeta qui inventa per applicarla al Salterio: «teodia», lo chiama; cioè “canto di Dio”. Chi mai l’ha più impiegata, dopo di lui? Ch’io sappia nessuno, ed è un peccato.
Ma cosa ti promette la speranza? Quello che le Scritture, ancora una volta, indicano (e che ora vedo): la beatitudine «de l’anime che Dio s’ha fatte amiche» (v. 90). (Che bella questa definizione del Paradiso, così semplice che potrebbe averla trovata un bambino: essere amici di Dio).
Finito anche il secondo esame e approssimandoci al terzo, che sarà sull’amore, la “grande metafora” che sottendeva alla rappresentazione dantesca dei due episodi precedenti – che è, come abbiamo appena ricordato, quella della scuola – si dissolve e si trasforma in un’altra immagine, ben più adatta alla celebrazione dell’ultima virtù, quella suprema della carità: «E come surge e va ed entra in ballo / vergine lieta, sol per fare onore / a la novizia, non per alcun fallo, // così vid’io lo schiarato splendore / venire a’ due che si volgieno a nota / qual conveniesi al loro ardente amore» (vv. 103-108). La novizia, naturalmente, non è un’aspirante monaca bensì la sposa novella (come capiremmo al volo se fossimo ispanofoni): ma l’immagine dantesca è sponsale e verginale insieme, il che è assolutamente geniale perché la verginità è anch’essa sempre sponsale, in radice: il vergine, infatti, è per definizione “l’amico dello Sposo” (Gv 3, 29) che gioisce al sentire la sua voce.
Benedetto XVI, nell’enciclica Spe salvi, indica tre “luoghi” da cui attingere speranza, cioè tre modi con cui incrementare in noi tale virtù: la preghiera; l’azione e la sofferenza; il giudizio. La preghiera è scuola di speranza perché, nel momento in cui si pone come gesto, la realizza, poiché di per se stessa, col suo semplice esserci, batte la disperazione. Essa infatti afferma: «Se non mi ascolta più nessuno, Dio mi ascolta ancora. Se non posso più parlare con nessuno, più nessuno invocare, a Dio posso sempre parlare. Se non c’è più nessuno che possa aiutarmi – dove si tratta di una necessità o di un’attesa che supera l’umana capacità di sperare – Egli può aiutarmi» (n. 32). Se gridiamo a Dio, dal fondo del pozzo in cui il più cupo sconforto ci ha gettato, anche se restiamo in fondo al pozzo il nostro grido, cioè la preghiera, ne evade e si innalza fino al cielo. Con esso, una parte di noi è già libera, la disperazione non ci tiene più integralmente.
In un altro senso, «ogni agire serio e retto dell’uomo è speranza in atto» (n. 35). Di nuovo, lo è di per se stesso, perché ipso facto afferma un bene, una positività che sta davanti a sé, è dunque un “attender certo” tale bene. Fosse anche piccino, parziale, insufficiente a dileguare le tenebre, è comunque uno spiraglio che schiude il carcere della disperazione. Se il nichilista, al mattino, si leva dal giaciglio dove ha passato la sua notte inquieta o immemore, compie seriamente l’azione di prepararsi il caffè e riconosce un senso in quell’azione, cioè un nesso che la lega a una ragione più grande … non è più veramente disperato, perché nega nei fatti il suo nichilismo. L’aroma del caffè che esala dalla caffettiera, se egli ne riconosce il senso, sale al cielo come una sua implicita e forse ancora inconsapevole lode a Dio. Dice Benedetto: «il nostro agire non è indifferente davanti a Dio e quindi non è neppure indifferente per lo svolgimento della storia» (n. 35) e ciò vale anche per il più piccolo dei nostri atti, se lo compiamo con coscienza. Vale però enormemente di più per la sofferenza, che ci mette nella condizione di partecipare all’opera redentrice del Figlio, servo sofferente per la speranza del mondo.
E poi c’è il giudizio come luogo di apprendimento ed esercizio della speranza. Ma questo è così importante e inusitato che occorrerà dedicarvi un appunto a parte, nei prossimi giorni.