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Ancora lezione sulla Speranza (con un secondo appunto della scuola #Ratzinger) [#Dante, Paradiso, canto XXV, vv. 64-108]

12 giovedì Gen 2023

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi, Scuola Ratinger

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#Dante, #scuolaRatzinger, azione, disperazione, preghiera, speranza

Dopo aver detto lei quel che Dante di sé non poteva dire, Beatrice gli lascia il compito di rispondere alle altre due domande di San Giacomo; e lui «come discente ch’a dottor seconda / pronto e libente in quel ch’elli è esperto, / perché la sua bontà si disasconda» (vv. 64-66) lo esegue a puntino. Che cos’è la speranza? «Spene, diss’io, è uno attender certo / de la gloria futura, il qual produce / grazia divina e precedente merto» (vv. 67-69). Risposta da manuale (che si poteva leggere, in effetti nelle Sentenze di Pietro Lombardo, forse il più diffuso testo scolastico di teologia del tempo), pronunciata però con fresca limpidezza, come un frutto pienamente assimilato. Assaporiamo così, per un’ultima volta, quei “piaceri della scuola” su cui altre volte ci siamo intrattenuti nel corso del nostro viaggio: il gusto di dare gli esami, quando si sanno le risposte (pronti e libenti in quel che siamo esperti, come dice lui); e la bellezza di una definizione perfetta nella sua formulazione, beninteso quando essa non è ripetuta a pappagallo senza intelligenza ma è pienamente posseduta dall’allievo che la tornisce con precisione, a godimento del maestro (immagino che i docenti di matematica e di fisica siano particolarmente sensibili a tali gioie, quand’esse capitano).

E donde ti viene la speranza? «Da molte stelle mi vien questa luce» (v. 70), cioè da tutti i libri della Sacra Scrittura, ma in particolare dai salmi e dalla Lettera di Giacomo. Quest’ultimo riferimento è un po’ una ruffianeria nei confronti dell’esaminatore, da Dante ritenuto l’autore di quello scritto neotestamentario, perché in realtà non è che vi si trovi un particolare approfondimento di tema della speranza; ma noi siamo soprattutto attratti dalla meravigliosa parola che il poeta qui inventa per applicarla al Salterio: «teodia», lo chiama; cioè “canto di Dio”. Chi mai l’ha più impiegata, dopo di lui? Ch’io sappia nessuno, ed è un peccato.

Ma cosa ti promette la speranza? Quello che le Scritture, ancora una volta, indicano (e che ora vedo): la beatitudine «de l’anime che Dio s’ha fatte amiche» (v. 90). (Che bella questa definizione del Paradiso, così semplice che potrebbe averla trovata un bambino: essere amici di Dio).

Finito anche il secondo esame e approssimandoci al terzo, che sarà sull’amore, la “grande metafora” che sottendeva alla rappresentazione dantesca dei due episodi precedenti – che è, come abbiamo appena ricordato, quella della scuola – si dissolve e si trasforma in un’altra immagine, ben più adatta alla celebrazione dell’ultima virtù, quella suprema della carità: «E come surge e va ed entra in ballo / vergine lieta, sol per fare onore / a la novizia, non per alcun fallo, // così vid’io lo schiarato splendore / venire a’ due che si volgieno a nota / qual conveniesi al loro ardente amore» (vv. 103-108). La novizia, naturalmente, non è un’aspirante monaca bensì la sposa novella (come capiremmo al volo se fossimo ispanofoni): ma l’immagine dantesca è sponsale e verginale insieme, il che è assolutamente geniale perché la verginità è anch’essa sempre sponsale, in radice: il vergine, infatti, è per definizione “l’amico dello Sposo” (Gv 3, 29) che gioisce al sentire la sua voce.

Benedetto XVI, nell’enciclica Spe salvi, indica tre “luoghi” da cui attingere speranza, cioè tre modi con cui incrementare in noi tale virtù: la preghiera; l’azione e la sofferenza; il giudizio. La preghiera è scuola di speranza perché, nel momento in cui si pone come gesto, la realizza, poiché di per se stessa, col suo semplice esserci, batte la disperazione. Essa infatti afferma: «Se non mi ascolta più nessuno, Dio mi ascolta ancora. Se non posso più parlare con nessuno, più nessuno invocare, a Dio posso sempre parlare. Se non c’è più nessuno che possa aiutarmi – dove si tratta di una necessità o di un’attesa che supera l’umana capacità di sperare – Egli può aiutarmi» (n. 32). Se gridiamo a Dio, dal fondo del pozzo in cui il più cupo sconforto ci ha gettato, anche se restiamo in fondo al pozzo il nostro grido, cioè la preghiera, ne evade e si innalza fino al cielo. Con esso, una parte di noi è già libera, la disperazione non ci tiene più integralmente.

In un altro senso, «ogni agire serio e retto dell’uomo è speranza in atto» (n. 35). Di nuovo, lo è di per se stesso, perché ipso facto afferma un bene, una positività che sta davanti a sé, è dunque un “attender certo” tale bene. Fosse anche piccino, parziale, insufficiente a dileguare le tenebre, è comunque uno spiraglio che schiude il carcere della disperazione. Se il nichilista, al mattino, si leva dal giaciglio dove ha passato la sua notte inquieta o immemore, compie seriamente l’azione di prepararsi il caffè e riconosce un senso in quell’azione, cioè un nesso che la lega a una ragione più grande … non è più veramente disperato, perché nega nei fatti il suo nichilismo. L’aroma del caffè che esala dalla caffettiera, se egli ne riconosce il senso, sale al cielo come una sua implicita e forse ancora inconsapevole lode a Dio. Dice Benedetto: «il nostro agire non è indifferente davanti a Dio e quindi non è neppure indifferente per lo svolgimento della storia» (n. 35) e ciò vale anche per il più piccolo dei nostri atti, se lo compiamo con coscienza. Vale però enormemente di più per la sofferenza, che ci mette nella condizione di partecipare all’opera redentrice del Figlio, servo sofferente per la speranza del mondo.

E poi c’è il giudizio come luogo di apprendimento ed esercizio della speranza. Ma questo è così importante e inusitato che occorrerà dedicarvi un appunto a parte, nei prossimi giorni.

Dante, l’uomo della Speranza (con un primo appunto della scuola #Ratzinger). [#Dante, Paradiso, canto XXV, vv. 52-57]

09 lunedì Gen 2023

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi, Scuola Ratinger

≈ 20 commenti

Tag

#Dante, ScuolaRatzinger, speranza

Ecco San Giacomo, «il barone / per cui là giù si vicita Galizia» (vv. 17-18) come Dante lo chiama, evocando un grande gesto di fede e di speranza, vivo ai nostri giorni come lo era ai suoi, cioè il pellegrinaggio a Santiago de Compostela – che a me piace evocare qui anche in ricordo di un amico scomparso giusto un anno fa, che a suo tempo lo fece tutto a piedi e con coscienza. Ed ecco le domande del secondo esame, che sono poi le stesse del primo, cambiato l’oggetto: “Che cos’è la speranza? Tu ce l’hai, e come? Di dove ti è venuta?”.

A sorpresa però, e a differenza dalla precedente interrogazione, qui Beatrice previene Dante, si intromette e dà lei al posto suo la risposta alla seconda domanda. Non potrebbe essere altrimenti, perché c’è da fargli una gran lode, di quelle che nessuno può decentemente tributare a se stesso. (Certe cose, di te, possono dirle solo gli altri, se vogliono). Ecco la risposta: «La Chiesa militante alcun figliuolo / non ha con più speranza, com’è scritto / nel Sol che raggia tutto nostro stuolo: // però li è conceduto che d’Egitto / vegna in Ierusalemme per vedere, / anzi che ‘l militar li sia prescritto» (vv. 52-57). Caspita: nessuno nella chiesa ha tanta speranza quanto Dante! Noi osserviamo: è vero che queste parole così impegnative nella rappresentazione poetica della Commedia è Beatrice a pronunciarle, ma nella realtà extraletteraria a scriverle è stato Dante, «l’esule umanamente sconfitto in ogni sua aspirazione (familiare, politica, letteraria)» (Chiavacci Leonardi),  ed è straordinario che egli rivendichi con tanta decisione, quasi sfrontatamente diremmo, come suo merito, se non unico precipuo, quello di essere l’uomo più ricco di speranza in tutta la chiesa! È come se Dante, alla domanda “tu, chi sei?” rispondesse: “io sono l’uomo della Speranza”.

Qui trova finalmente risposta la domanda che egli, da viandante smarrito nella selva oscura e tentato dalla disperazione, si era posto dopo che Virgilio l’aveva chiamato a farsi pellegrino e compiere il  grande viaggio: «Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede? / Io non Enëa, io non Paulo sono; / me degno a ciò né io né altri ’l crede» (Inferno II, vv.31-33). Domanda che, in fondo in fondo, almeno qualche volta si pone ogni lettore della Commedia: ma come si è permesso, Dante, di pensare di essere degno di un destino così straordinario?

Di fronte a una tale pretesa, che cosa dobbiamo fare noi? Come sempre, prenderla sul serio, liberandoci della sciocca sufficienza con cui il “lettore moderno” di regola ascolta la voce degli uomini del passato, convinto di saperne (e di capirne) più di loro. Accetteremo dunque di guardare a Dante come all’uomo della speranza e ci faremo insegnare da lui qualcosa su questa virtù, che più di ogni altra ci manca. Da lui che è l’esule che in terra non possiede più niente, e dal mondo non può aspettarsi niente, ma non per questo rinuncia a vivere, bensì poggia tutta la sua vita sull’attesa certa di un bene infinito nel cielo. È la sua speranza del cielo, cioè il suo desiderio certo del compimento, a meritargli il cielo.

In questo piccolo blog, come ho detto l’altro giorno, d’ora andremo, oltre che alla scuola di Dante, anche a quella di Joseph Ratzinger – Benedetto XVI. Prendiamo dunque un primo appunto dalle lezioni di quel caro maestro. Nell’enciclica Spe salvi il papa registra che «l’attuale crisi della fede, nel concreto, è soprattutto una crisi della speranza cristiana. [n.17]» e ci domanda: «Vogliamo noi davvero questo – vivere eternamente? Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere in eterno – senza fine – appare più una condanna che un dono. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine – questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile» [n. 10]. Ma cosa vogliamo noi, in definitiva? «Da una parte» – osserva Benedetto XVI – «non vogliamo morire; soprattutto chi ci ama non vuole che moriamo. Dall’altra, tuttavia, non desideriamo neppure di continuare ad esistere illimitatamente e anche la terra non è stata creata con questa prospettiva. Allora, che cosa vogliamo veramente?» [n. 11]. Agli uomini del nostro tempo, che non sanno più neanche che cosa volere, noi cristiani dobbiamo offrire la testimonianza della speranza. Ma come faremo, se anche noi, figli di questo tempo, non sappiamo più che cosa significhi sperare? Per questo, dice ancora papa Benedetto, «è necessaria un’autocritica dell’età moderna in dialogo col cristianesimo e con la sua concezione della speranza. In un tale dialogo anche i cristiani, nel contesto delle loro conoscenze e delle loro esperienze, devono imparare nuovamente in che cosa consista veramente la loro speranza, che cosa abbiano da offrire al mondo e che cosa invece non possano offrire. Bisogna che nell’autocritica dell’età moderna confluisca anche un’autocritica del cristianesimo moderno, che deve sempre di nuovo imparare a comprendere se stesso a partire dalle proprie radici» [n.22].

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