Nell’orazione 43, la più ampia tra quelle da lui composte, Gregorio Nazianzeno facendo l’elogio funebre dell’amico Basilio di Cesarea intende illustrare un esempio di umanità cristiana pienamente realizzata: Basilio è l’uomo perfetto, il frutto maturo di un’educazione cristiana completa, ed è anche il modello del vescovo perfetto. Sin dall’esordio, l’orazione si presenta come un lògos sui lògoi , un discorso sui discorsi, sull’oratoria, cioè su quella cultura letteraria che è una componente essenziale nella formazione della personalità di Basilio e dello stesso Gregorio, ma che d’a l t ro canto non viene mai considerata come una realtà a sé stante né tanto meno assolutizzata: Gregorio inserisce costantemente i lògoi in uno stretto rapporto — che li arricchisce ma al tempo stesso fa anche da limite a ogni loro pretesa egemonica — con altri valori o altre dimensioni della vita basiliana. La duplice dimensione relazionale che emerge dalla vita di Basilio — da un lato incentrata sul rapporto di amicizia tra lui e Gregorio e dall’altro su quello tra i lògoi e gli altri fattori costitutivi dell’esistenza — si fonda su una terza, fondamentale, prospettiva: quella della relazione trinitaria, in cui il Lògos vive in comunione d’a m o re con il Padre e con lo Spirito.
È su questa relazione che l’intera esistenza di Basilio, così come il suo amicobiografo ce la presenta, sin dall’inizio s’incardina e si modella in maniera sempre più stringente fino al momento della sua morte. Alla base di questo discorso c’è dunque il proposito di costruire il ritratto di una personalità ideale, fondata sul lògos cristiano attraverso l’applicazione metodica del giudizio di fede a tutti gli aspetti dell’esistenza. Quella di Basilio ci appare come una “vita logica”, nel senso che è tutta plasmata, con straordinaria coerenza, su un giudizio di ragione, che però non è semplicemente il prodotto di una intelligenza umana corroborata dal saldo possesso dei lògoi , ma si nutre della partecipazione al Lògos stesso di Dio, ricevuto per grazia e accolto nella fede. La carriera di Basilio si svolge in modo lineare come progressiva affermazione di un modello di ordine, di contro alla confusione ( akosmìa ) e al disordine ( ataxìa ) che dominano nella Chiesa per colpa dell’ambizione e dell’arrivismo di vescovi indegni. Il grande Basilio, dice lapidariamente il suo agiografo, «come in tutte le altre cose, così anche riguardo a queste costituisce un modello di ordine per la gente» ( o ra z i o n e 43, 27). È nella lotta per la difesa dell’orto dossia, contro la recrudescenza ariana che si produce sotto l’impero di Valente, che si rivela pienamente la radice teologica di questo principio di ordine personale che governa la vita di Basilio e da lui si irradia su tutta la Chiesa. Dai capitoli 30-33 emerge chiaramente come la prospettiva ermeneutica di Gregorio, nel leggere le vicende tumultuose di quegli anni, integri perfettamente la visione teologica trinitaria, quella antropologica e quella storico-politica. L’idea fondamentale che lo guida è che pensare male la relazione trinitaria — cioè distruggerla, come fanno in modi opposti Sabellio e Ario — significa distruggere anche l’unità e la consistenza della persona umana e, di conseguenza, minare irrimediabilmente sia l’ordine ecclesiale che quello politico, che su di essa si fondano. Questo si evince chiaramente dal giudizio espresso sull’imperatore Valente, il quale non pensando bene la dottrina trinitaria «né essendo in grado di levare in alto lo sguardo, osò avvilire con se stesso anche la natura divina e diviene una creatura perversa, degradando la signoria [divina] a schiavitù e mettendo tra le cose create la natura increata e che trascende il tempo» (43, 30). Sul fronte opposto, la Chiesa di Cesarea lotta contro l’arianesimo imperiale, ma il suo schieramento è debole perché «manca del primo combattente, il difensore esperto nella potenza del Lògos e dello Spirito» ( ibidem ). Basilio allora esce dal suo ritiro e si presenta in prima linea: in questo frangente, egli accede immediatamente al ruolo egemonico che naturalmente gli spetta, anche se da principio lo esercita come “assistente” del vescovo Eusebio. Gregorio non ci va leggero, nel descrivere la determinazione e l’incisività con cui Basilio esercita le funzioni di consigliere dell’anziano pastore, il quale «credeva di comandare lui stesso, mentre era l’altro a comandare» (43, 33), ma questa spicciativa franchezza, che potrebbe sembrare poco delicata nei confronti del vescovo Eusebio, non fa che sottolineare la preponderante vocazione di Basilio al comando. La sua azione pastorale è tutta sotto il segno dell’ordine, non solo perché i dissidi ecclesiali — ma forse anche civili — si ricompongono «sotto l’influsso della sua voce» (43, 34), ma perché tutto nella Chiesa viene da lui organizzato: l’assistenza ai poveri, le regole per i monaci, la scansione delle preghiere, la disposizione del presbiterio. Con la sua azione impone, nello spazio ecclesiale, un criterio razionale che gli permette di ordinare il mondo attorno a sé secondo giustizia, cioè secondo il volere di Dio. Un’espressione particolarmente significativa di questa capacità di ordinare razionalmente la realtà, Basilio la manifesta in occasione di una grande carestia che colpisce l’intera regione. Gregorio ne parla con lucida concretezza, mostrando una considerevole attenzione all’analisi economica del fenomeno: osserva, ad esempio, che nelle regioni costiere il commercio consentiva più facilmente di rispondere all’emergenza e non manca di notare che il problema era reso ancor più drammatico dall’egoismo e dalla volontà speculatrice dei possidenti. Un elemento che va sottolineato, nella narrazione agiografica di Gregorio, è che l’uomo santo, in una situazione del genere, per una volta non fa miracoli ma agisce con quella che potremmo definire una sorta di efficienza manageriale. Basilio non può certo moltiplicare i pani e i pesci, anche perché — osserva il Nazianzeno — «i segni sono per gli increduli, non per quelli che già credono» (43, 35), ma il suo “ lògos caritatevole” (o, se si preferisce, la sua “carità logica”, cioè razionale, organizzata ed efficiente) produce ugualmente l’effetto di sfamare il popolo. Non poteva fare i miracoli ma «le cose che si accompagnano a questi e che portano allo stesso risultato, queste le progettò e le eseguì con la stessa fede». Con il ragionamento ( lògos ) e con le esortazioni «fece aprire i granai dei possidenti» ( ibidem ) e riuscì così a nutrire gli affamati. Gregorio si sofferma a descrivere in dettaglio le modalità di svolgimento dell’opera caritativa di Basilio (e qui la sua pagina ci ricorda un po’ la descrizione manzoniana del lazzaretto), mettendo in evidenza da una parte la capacità organizzativa — gli affamati e i malati vengono raccolti in uno stesso luogo, si mettono su cucine da campo e così via — dall’altra il fatto che tutta questa fattiva carità è rivolta alla persona intera, non è solo terapia dei corpi ma anche delle anime. Questo, infatti, è il senso dell’osservazione che Basilio, insieme con gli altri monaci, serviva personalmente gli ammalati offrendo loro non soltanto il necessario alla salute del corpo, ma anche una stima, del tutto inaudita nella società antica, per la loro persona, perché agendo in quel modo «univa alle cure necessarie il segno dell’onore» ( ibidem ). All’interno di una concezione come questa, si capisce bene che il culmine della carità non è la distribuzione del cibo, ma la distribuzione del lògos : «[Dava] queste cose insieme con il nutrimento del lògos e una beneficienza e una generosità più perfette, veramente celesti e sublimi, se è vero che il lògos è il pane degli angeli, che mangiano e bevono le anime che hanno fame di Dio e che cercano un nutrimento che non passa e non si perde, ma rimane per sempre, del quale egli era dispensatore, e ricchissimo, lui che era il più povero e privo di mezzi tra tutti quelli che conosciamo: non calmava la fame di pane e la sete di acqua, ma il bisogno di lògos , quello che veramente dà la vita e il nutrimento e conduce alla crescita spirituale chi se ne ciba nel modo giusto» (43, 36). Questa valenza intrinsecamente pubblica, o se si vuole politica, della personalità di Basilio, che irradia attorno a sé gli influssi della sua virtù, segnando con la sua impronta l’ambiente circostante, trova la sua piena consacrazione con l’elevazione all’episcopato: «Pensava, infatti, che la virtù per un privato consistesse nel non essere malvagio e nell’essere buono in una certa misura, ma che per un capo e una guida il male, soprattutto per un simile tipo di autorità [cioè quella episcopale], sta nel non superare di molto la folla, nel non mostrarsi sempre superiore e nel non commisurare la propria virtù alla dignità della carica» (43, 38). In Basilio, dunque, non c’è alcuna divisione tra la dimensione esterna della “carriera” ecclesiastica, con le sue azioni pubbliche, e quella interiore della crescita spirituale: così la circostanza della consacrazione episcopale viene da lui metabolizzata attraverso un giudizio “filosofico”, condiviso con l’amico Gregorio, su questo kairòs , sentito come un dono ricevuto da Dio. Divenuto vescovo, è «con i lògoi di un’arte medica di larghi orizzonti» (43, In lui si realizza un ideale simile a quello del sovrano come “legge vivente” Che pochi anni prima l’imperatore Giuliano aveva vanamente cercato di incarnare 40) che egli cura le tensioni e i contrasti provocati dalla sua elezione. Il suo è un governo al tempo stesso energico e moderato, «poco bisognoso di lògos [cioè di parola], ma che compie il suo servizio piuttosto con l’azione; non asservendo [gli altri] mediante una tecnica ma conquistandoseli con la benevolenza; non facendo [materialmente] uso dei suoi poteri, ma acquistando consenso per il [solo] fatto di avere il potere ma di trattenersi nell’usarlo» (43, 40). Andrà qui osservato come la descrizione dell’attività di governo di Basilio metta in risalto soprattutto la sua estraneità a una concezione puramente materiale, di esercizio della forza — alla maniera, per intenderci, della meccanica politica di Machiavelli — e la sua concezione di un esercizio, per così dire, intellettuale del potere. Subito dopo, infatti, Gregorio aggiunge che tutti erano vinti «dalla sua intelligenza», e dipendevano tanto strettamente dal suo giudizio da «pensare che distaccarsi da lui significava una separazione da Dio» ( ibidem ). Nella persona di Basilio, in questo modo, si realizza un ideale per certi aspetti simile a quello del sovrano come “legge vivente” ( nòmos èmpsychos ) che, pochi anni addietro il grande avversario dei due cappadoci, l’imperatore Giuliano, aveva vanamente cercato di incarnare: in entrambi i casi la virtù intellettuale, prima ancora che morale, del governante (cioè il suo retto esercizio del giudizio) si propone come oggettivo criterio di giudizio sulla realtà, politica o ecclesiale che sia.
© Osservatore Romano – 3 dicembre 2014