Entrati in Licaonia, è un po’ come se avessimo attraversato una frontiera culturale: l’episodio narrato in Atti 14, 8-20 ci porta in un mondo rurale, solo debolmente grecizzato, diverso da quelli (giudaico ed ellenistico-urbano), che finora avevamo conosciuto. Relativamente meno noto di altri momenti della missione paolina, l’episodio di Listra merita invece tutta la nostra attenzione perché ci dice qualcosa di molto importante sul problema del rapporto tra il cristianesimo e le religioni, che è uno dei punti di crisi, e di debolezza, della presenza cristiana nel mondo di oggi.
Il racconto è molto stilizzato e per comprenderlo bene dobbiamo integrarne lo scarno dettato con alcuni particolari che non affiorano alla superficie del testo ma vi restano impliciti e che sono utili per immaginare correttamente la scena. Paolo (e un Barnaba ormai ridotto a silenzioso comprimario) si trovano dunque nelle immediate vicinanze della piccola città di Listra, nei pressi di un tempio di Zeus situato fuori dalle mura dove si è radunata molta gente per partecipare al culto, e Paolo attacca discorso con i presenti. Questa ricostruzione, ricavabile dal testo anche se non esplicitamente descritta, ci permette di capire che l’uomo «menomato ai piedi, storpio sin dalla nascita» che, stando seduto, ascolta le parole di Paolo (cfr 14, 8-9a) è quasi certamente un mendicante che sosta abitualmente davanti al tempio per chiedere l’elemosina ai fedeli. Lo scarno racconto di Luca non ci dice molto di più, ma ci autorizza a ipotizzare che le parole che il mendicante ha sentito facciano parte di un discorso rivolto alle persone radunate in quel luogo e che il tenore di quel discorso sia tale da suscitare in lui un’attesa di guarigione, perché ci viene detto che Paolo «fissandolo con lo sguardo e vedendo che aveva fede per essere sanato / salvato (πίστιν τοῦ σωθῆναι), disse con voce forte: “Alzati ritto sui tuoi piedi!”» (14, 9b-10a). Ιgnoriamo però se quel discorso paolino ai pagani assiepati davanti al tempio sia un’infrazione alla regola sin qui seguita di rivolgersi innanzitutto ai giudei e solo dopo, a seguito del loro rifiuto, di parlare anche con i gentili o se invece si sia trattato di un intervento estemporaneo, ocasionalmente indotto dall’essersi imbattuto in quella celebrazione religiosa che doveva aver provocato in lui un forte reazione interiore (si veda, per un confronto, il suo stato d’animo ad Atene, in 17, 16). In ogni caso, Luca, che come sempre rielabora alla sua maniera informazioni che gli vengono dalla tradizione, ci dà anche in questo modo un segno dell’accresciuta disinvoltura nel rivolgersi ai pagani che contrassegna sempre più l’azione missionaria di Paolo.
In forza della sua fede, il paralitico viene immediatamente guarito da Paolo con quell’ordine imperioso («Alzati ritto sui tuoi piedi!» da cui è assente, si noti il particolare, la menzione di Gesù Cristo, a differenza di quanto accade a 3, 6, cioè nell’episodio di guarigione di un paralitico nel Tempio di Gerusalemme da parte di Pietro (Atti 3, 1-0), che per il resto fa da modello al racconto di questo miracolo: come allora, infatti, la guarigione istantanea provoca negli astanti una forte reazione di stupore e di ammirazione religiosa per gli artefici del prodigio, che a Gerusalemme era stata immediatamente corretta e rintuzzata da Pietro (3, 12) e qui, nel contesto di un “paganesimo incolto”, dà luogo ad uno sviluppo ben più drammatico. «Le folle, avendo visto ciò che aveva fatto Paolo alzarono la loro voce in licaonio (Λυκαονιστὶ) dicendo: “Gli dèi, resi simili a uomini, sono scesi tra noi (οἱ θεοὶ ὁμοιωθέντες ἀνθρώποις κατέβησαν πρὸς ἠμᾶς). E chiamavano Barnaba “Zeus” e Paolo “Hermes”, perché era lui che conduceva il discorso» (14, 11-12). Si faccia attenzione al riferimento linguistico – questa gente parla in dialetto licaonio – che non ha paralleli in tutto il resto del libro. Siamo, se non proprio fuori dall’ellenismo, quantomeno alle sue frontiere: le persone con cui Paolo ha a che fare sono presumibilmente in grado di intendere il suo greco (altrimenti non si spiegherebbe come il mendicante possa aver reagito alle parole con quella fede che gli ha meritato la guarigione) ma normalmente si esprimono nella propria lingua materna, che i missionari non comprendono. Non ci eravamo mai trovati così lontani, dal punto di vista culturale (e di conseguenza anche religioso), rispetto al “punto di partenza“ della missione cristiana, quell’Antiochia in cui giudeo-cristianesimo ed elleno-cristianesimo convivevano, sia pure con tensioni e difficoltà, nell’humus della civiltà urbana ellenistico-romana. Quei rozzi campagnoli di Listra fanno una cosa che non avrebbero mai fatto né i giudei di Gerusalemme, per quanto affascinati e turbati dalla potenza taumaturgica di Pietro, né gli scettici e raffinati cittadini di Atene: prendono Paolo e Barnaba per dèi apparsi in forma umana e li identificano rispettivamente con Hermes, il signore dei discorsi, e Zeus.
A questo punto, il loro “specialista del sacro”, «il sacerdote di Zeus che è davanti alla città», – cioè di quel tempietto extraurbano che è lo sfondo imprescindibile di tutta la scena, e che possiamo immaginare come un edificio molto modesto, dato che pare essere officiato da una sola persona – compie un atto ancor più significativo, su cui vale la pena di riflettere un attimo: «avendo recato alle porte [del tempio] tori e corone, voleva offrire un sacrificio (θύειν)» (14, 13), si intende a Paolo e Barnaba. Decide cioè di dedicare il sacrificio che era già stato allestito ai protagonisti di quella sorprendente teofania. Perché lo fa? Senza il vangelo, cioè senza la “buona notizia” che Dio è Amore e che ci ama infinitamente, il rapporto religioso dell’uomo con la divinità non può che essere ambivalente, sospeso tra desiderio e terrore. L’uomo religioso tiene sì al rapporto con la divinità, sentendolo come essenziale per la sua vita, ma al tempo stesso lo teme. Teme in particolare la vicinanza di Dio: quando Egli si manifesta, l’uomo si copre il volto per non vederlo, perché crede che ne morirebbe; gli offre sacrifici per tenerlo buono e per avere a sua volta titolo per chiedere protezione. Se davvero gli dèi sono scesi in forma umana tra di noi, come gli antichi miti raccontano, cos’altro possiamo fare se non sacrificare affinché non ci capiti nulla di male? Questo, pressappoco, è ciò che deve aver pensato quel sacerdote di Zeus, riorientando il sacrificio già previsto in direzione di quei due “dèi apparsi in forma umana”. Qesta è la sintesi del paganesimo: se Dio viene da me, mi devo cautelare.
Come reagiscono gli «apostoli» (solo qui Luca applica a Barnaba e Paolo una qualifica che solitamente riserva ai Dodici) all’entusiasmo del popolo e all’iniziativa del sacerdote? Mettendo in atto un comportamento codificato, ben conosciuto sia in ambito giudaico che in altre culture religiose, che, tramite il gesto simbolico di stracciarsi le vesti, esprime il massimo grado possibile di opposizione e di rifiuto, ma – e questo è importante e non scontato! – non si limitano a questa strategia difensiva. Su quella ripulsa si innesta infatti una forma particolare di annuncio cristiano, diversa da quelle che riscontriamo nelle altre situazioni missionarie presentate nel libro: «Avendo ascoltato, gli apostoli Barnaba e Paolo, strappati i loro mantelli, si precipitarono verso la folla gridando e dicendo: «Uomini, perché fate queste cose? Anche noi siamo sofferenti allo stesso modo (ὁμοιοπαθεῖς) di voi, degli esseri umani (ἄνθρωποι) che vi annunciano la buona notizia (εὐαγγελιζόμενοι) di volgervi, [allontanandovi] da queste nullità (ἀπὸ τούτων τῶν ματαίων), verso un Dio vivente (ἐπὶ θεὸν ζῶντα), che ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutte le cose [che sono] in essi; il quale nelle generazioni passate ha permesso a tutte le nazioni di camminare nelle loro strade. Tuttavia non lasciò se stesso senza testimonianza (ἀμάρτυρον), facendo del bene, donandovi dal cielo piogge e stagioni fertili, riempiendo i vostri cuori di cibo e di letizia (ἐμπιπλῶν τροφῆς καὶ εὐφροσύνης τὰς καρδίας ὑμῶν)» (14, 14-17).
Due osservazioni su questo discorso. La prima riguarda la pars destruens: espressa in forma elementare e sintetica c’è qui la critica cristiana alla pretesa delle religioni di divinizzare ciò che è umano. L’uomo religioso, nel suo anelito di raggiungere quel divino che allo stesso tempo teme, tende a divinizzare la propria umana immaginazione del divino stesso. Questa dimensione critica sembra oggi mancare nel modo in cui i cristiani si rapportano alle religioni. La seconda osservazione verte sulla parte propositiva del discorso, in cui non si può fare a meno di restare colpiti, e di primo acchito sconcertati da ciò che manca, più che da ciò che è presente. Ciò che manca è l’annuncio di Cristo: come nella formula di guarigione dello storpio Gesù non era stato invocato, così ora non viene proposto come risposta alla domanda religiosa degli abitanti di Listra. La prima urgenza, in questo caso, è dissipare il terribile equivoco in cui quei “primitivi religiosi“ sono caduti, e stroncare sul nascere il moto di idolatria, blasfema e repellente per la coscienza giudaica e cristiana, a cui stanno per abbandonarsi. “Siamo uomini come voi!”: la stessa espressione che un Pietro altrettanto preoccupato aveva usato con Cornelio che gli si stava gettando ai piedi (cfr 10, 26).
L’affermazione di essere poveri uomini, fragili e limitati come tutti gli altri (questo suggerisce il termine omoiopatheis), e non degli dèi resi simili (omoiothentes) a uomini, si coniuga però alla rivendicazione del proprio ruolo di evangelisti, cioè di messaggeri del vero Dio. L’appello ad una conversione – cioè all’abbandono delle vanità idolatriche del passato (che Dio, qui si dice, ha in qualche modo tollerato), per andare incontro a un «Dio vivente» di cui, grazie alla sua rivelazione cosmica, gli uomini possono avere almeno una nozione fondamentale, cioè che è buono e provvidente – è forte e chiaro. Siamo vicini alla dottrina di Rom. 1, 19-20 sulla rivelazione ai pagani. Però a questo punto il discorso di Paolo a Listra si ferma e non va oltre. Perché? Non si deve vedere qui alcuna concessione a una sorta di teologia del pluralismo religioso ante litteram, nessuna idea che in fondo gli uomini si possono salvare seguendo ciascuno la propria religione perché tutte le religioni sono strade che portano a Dio. Piuttosto, un senso acuto dell’opportunità che fa ritenere quella folla ancora troppo rozza e imbevuta di un paganesimo volgare per poter accogliere l’annuncio cristiano nella sua integralità. Occorre una preparazione, una coltivazione dell’umano, una purificazione del senso religioso, perché l’animo sia in grado di accogliere e di “portare il peso” della rivelazione cristiana. Quello che Luca ci presenta con il discorso di Listra, quindi, è un modello di discernimento pastorale, che nel linguaggio dei Padri si potrebbe definire di synkatabasis, cioè di concessione, di accondiscendenza che rinuncia a pretendere tutto subito e accetta che l’altro faccia, per ora, solo il primo passo. In questo senso sarà molto interessante confrontarlo con il discorso di Atene, che invece è un modello di chresis, cioè di giusto uso, in cui la posizione dell’altro è molto più valorizzata ma all’altro viene richiesto molto di più.
Che Paolo e Barnaba abbiano ragione a fermarsi prudenzialmente a questo livello lo dimostra il fatto che anche limitando e concentrando il proprio sforzo catechetico sull’obiettivo minimo di un “monoteismo naturale”, fanno fatica a spegnere il fanatismo della folla e a distoglierla dal sacrificio (14, 18). Ma c’è di più: quegli stessi entusiasti adoratori poco tempo dopo si lasciano trascinare da giudei venuti apposta da Antiochia e da Iconio per sobillarli contro Paolo, e tentano addirittura di linciarlo, trascinandolo mezzo morto fuori dalla città (14, 19). (Magari, potremmo immaginare noi, nello stesso luogo dove pochi giorni prima l’avevano osannato). Ben poco affidamente, dunque, si poteva fare su quella disposizione apparentemente simpatetica con cui l’avevano accolto all’inizio! «Ma, grazie ai discepoli che lo circondarono, egli si rialzò e rientrò in città. E il giorno dopo partì con Barnaba in direzione di Derbe» (14, 20). Una nuova sconfitta, una nuova fuga? Non proprio: dopotutto, perfino lì a Listra, in quella trasferta avventurosa e disgraziata, qualche discepolo l’avevano fatto. Il bicchiere della missione della chiesa, ci sta insegnando Luca, anche quando è mezzo vuoto, non resta mai completamente a secco. Gli apostoli seminano e Dio, i suoi eletti, sa sempre dove trovarli.