Posso sbagliarmi, perché io sono soltanto un modesto osservartore periferico che guarda le cose di lontano (e per giunta è miope), ma una cosa del genere non l’avevo ancora vista: diverse conferenze episcopali (direi già una quindicina, se non conto male, soprattutto africane ma non solo) e un numero crescente di singoli vescovi che dichiarano apertamente di non tenere in alcun conto la Dichiarazione Fiducia supplicans, con cui il prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede, cardinale Fernández, si è pronunciato in favore delle benedizioni impartite alle coppie omosessuali o in situazione di adulterio, e di voler continuare a seguire l’insegnamento costantemente impartito dalla Chiesa, ribadito tra l’altro anche da un Responsum dello stesso dicastero appena tre anni fa, che invece le proibisce. Tra le numerose prese di posizione che si vanno accumulando in questi giorni, per lo più in senso critico verso il documento firmato dal cardinale Fernández (e approvato dal papa), va segnalata quella del cardinale Müller, già prefetto dello stesso dicastero vaticano, il quale ha demolito, sotto il profilo teologico (ma direi logico tout court), l’impianto concettuale di Fiducia supplicans, mostrandone impietosamente la debolezza argomentativa (Si veda qui il suo testo: https://lanuovabq.it/it/mueller-le-benedizioni-per-le-coppie-gay-sono-blasfeme).
Questo intervento è particolarmente importante non solo per la sua intrinseca qualità, ma anche perché si inserisce in una linea di condotta che il cardinale Müller aveva già cominciato a tracciare in precedenza, valutando criticamente la risposta che il Dicastero per la Dottrina della Fede aveva dato qualche tempo fa, agli esordi della gestione Fernández, ad alcuni dubia esposti dal cardinale Duka, a nome dei vescovi della Repubblica Ceca, riguardo all’interpretazione di Amoris Laetitia. Il testo di Müller conteneva, a mio avviso, un’indicazione di metodo preziosa per aiutare molti buoni cattolici a uscire dalla difficile condizione di aporia in cui attualmente si trovano, stretti come sono tra il sincero desiderio di continuare a ubbidire al papa e il profondo disagio, per non dire la sofferenza, che certi aspetti del suo magistero provocano alla loro coscienza, a causa di quella che appare loro come una netta discontinuità, quando non addirittura una vera e propria contraddizione del precedente magistero della Chiesa. Avevo scritto in proposito un commento, pubblicato da Sandro Magister nel suo blog, Settimo cielo, che purtroppo oggi non è più accessibile. Per questo motivo ne riprendo qui il contenuto:
«In un certo senso, si potrebbe dire che il testo del cardinale Müller rappresenta un punto di svolta nella dinamica di quel processo di formulazione di quesiti con cui un piccolo, ma non per questo insignificante gruppo di porporati ha cercato, nel corso degli anni, di rimediare a quello che a molti pare un peculiare difetto dell’insegnamento di papa Francesco, cioè la sua ambiguità. Affermare che l’insegnamento del papa spesso è ambiguo non significa essergli ostili o mancargli di rispetto: direi che si tratta, più che altro, della constatazione di un fatto evidente. Come lei stesso ricorda introducendo la lettera di Müller, non si contano ormai più i casi in cui il papa ha fatto affermazioni equivoche (nel senso che si prestano ad interpretazioni opposte) e/o contradditorie tra loro in quanto divergenti le une dalle altre, ed ogni volta che gli è stato chiesto di precisarne il senso in modo univoco, egli o ha evitato di rispondere, oppure lo ha fatto, spesso per via indiretta, in modo altrettanto ambiguo e sfuggente. In tale modus operandi, l’ambiguità sembra dunque essere non accidentale bensì essenziale, perché corrisponde a un’idea fluida della verità che aborre ogni forma di definizione concettuale, considerandola come un irrigidimento che priva di vita il messaggio cristiano. L’assioma che «la realtà è superiore all’idea», a cui più volte papa Bergoglio si è appellato, viene usato infatti in modo tale da schiacciare il principio di non contraddizione, e la conseguente pretesa che non si possa affermare un’idea e al tempo stesso anche il suo contrario.
La novità della presa di posizione del cardinale Müller consiste, a mio avviso, nel fatto che alle domande rivolte dai suoi confratelli vescovi al prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede (e quindi in ultima analisi al papa che lo ha nominato) ha risposto lui, ed ha risposto come avrebbe dovuto fare il suo attuale successore in quell’incarico, cioè in modo chiaro, razionalmente argomentato e corrispondente ai dati della Rivelazione così come la sacra Tradizione e la sacra Scrittura ce li hanno trasmessi. Ma questo non significa usurpare una funzione che non gli spetta e minare l’autorità del papa? Per rispondere a tale domanda si deve tenere presente che, in tutta la magmatica fluidità dell’attuale “nuovo magistero”, c’è però un punto fermo, sempre riaffermato e mai negato dal papa e da tutti i suoi collaboratori senza eccezione alcuna, ed è quello della asserita piena continuità tra l’insegnamento di Francesco e quello dei suoi predecessori, in particolare Benedetto XVI e Giovanni Paolo II. “La dottrina non cambia” si è ripetuto mille volte, come un mantra, ai cattolici dubbiosi e allarmati.
È precisamente qui che l’argomento di Müller si inserisce, a mio parere con la semplicità disarmante di un “uovo di Colombo”, indicandoci una via: se riguardo a un qualsiasi problema x il magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI è chiaro ed univoco e invece quello di Francesco appare ambiguo e suscettibile di essere interpretato in senso contrario ad essi, dal principio di continuità deriva che quando noi fedeli non capiamo (e il papa non si spiega), possiamo tranquillamente rivolgerci ai suoi predecessori e seguire il loro insegnamento come se fosse il suo, poiché egli stesso ci garantisce che non c’è discontinuità. L’assenso religioso dell’intelligenza e della volontà si può dare infatti solo a ciò che comprendiamo correttamente: non possiamo assentire ad una affermazione di cui non ci è chiaro il senso.
In sostanza, l’intervento del cardinale Müller ci addita la direzione in cui orientare lo sguardo: noi cattolici possediamo un ricchissimo patrimonio che ci viene da venti secoli di sviluppo della dottrina cristiana, e che in anni recenti è stato bene approfondito, articolato ed applicato alle situazioni ed ai problemi della contemporaneità, soprattutto grazie all’opera di grandi papi come quelli sopra ricordati. Le risposte di cui abbiamo bisogno le troviamo lì. Seguiamo quello e non sbaglieremo. Ciò che invece oggi sceglie di restare ambiguo, resta anche irrilevante per la coscienza, proprio in ragione della propria equivocità in confronto a quanto è stato invece definito con chiarezza nel passato. Viene, se così si può dire, tenuto in custodia dal principio di continuità. Solo nel momento in cui il papa dichiarasse, senza ambiguità, che non si deve più prestare assenso al magistero dei suoi predecessori perché è stato abrogato dal suo, allora sì che tale custodia cadrebbe. Ma a quel punto cadrebbe molto altro. E possiamo confidare che non succederà».
Oggi direi che siamo un passo avanti rispetto a quel momento (motus in fine velocior?), perché in sostanza ciò che mi pare si stia realizzando è una presa d’atto sempre più diffusa nella Chiesa dell’irrilevanza di un insegnamento confuso e volutamente ambiguo che, proprio perché è tale, risulta inutile per l’alimentazione della fede.