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~ Vanitas ludus omnis

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Archivi Mensili: dicembre 2021

L’opera d’arte nell’epoca della raccolta differenziata.

30 giovedì Dic 2021

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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Questa notizia di cronaca minima, proveniente dalla mia cittadina, merita di essere portata a conoscenza dei colti lettori di questo piccolo blog, i quali non dubito che ne ricaveranno qualche spunto di amena ma istruttiva riflessione:

https://www.cesenatoday.it/cronaca/opera-d-arte-che-abbelliva-una-rotonda-buttata-via-per-sbaglio-dal-comune.html

Sobrietà. (Non abbiamo bisogno di molte cose, per essere cristiani) [#Dante, Paradiso, canto V, vv. 73-84]

28 martedì Dic 2021

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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#Dante, civetteria religiosa, cristianesimo e religioni, semplicità, serietà., sobrietà

Avendo meditato così limpidamente sull’irrevocabilità del dono della libertà impegnata con Dio, il discorso potrebbe sembrare chiuso. Sappiamo però da Dante che, quando la nostra intelligenza raggiunge una certezza, «posasi in essa, come fera in lustra» sì, ma poi di lì balza nuovamente in avanti, protesa da nuove domande a cercare altre risposte, in una continua e mai finita ascesa verso la Verità tutta intera. Nessuna questione, di conseguenza, si può mai cnsiderare definitivamente chiusa. Ora, per esempio, si apre il problema che la «Santa Chiesa» in certi casi dispensa dai voti, il «che par contra lo ver ch’i’ t’ho scoverto» (v. 36). Bisogna quindi tornare a studiare, per comprendere che non vi è contraddizione: nel voto vi è infatti una forma, la quale consiste nella libera disposizione della volontà che si impegna a fare o a non fare, e una materia costituita dall’oggetto dell’impegno. La prima non può in nessun caso essere annullata o commutata (si noti che in questo la posizione di Dante è molto più rigorista di quella di molti teologi del suo tempo, compreso san Tommaso); la seconda invece può essere cambiata, giammai però a proprio arbitrio, bensì solo se si è autorizzati dalla chiesa, e in ogni caso assumendo un impegno sostitutivo non minore, ma più gravoso di quello che si lascia.

Tutto questo rigore intellettuale ha un preciso riscontro morale e, se posso dir così, estetico: «Non prendan li mortali il voto a ciancia» (v. 64). Il cristianesimo è una cosa estremamente semplice, perciò anche estremamente seria, perciò anche estremamente sobria sul piano “stilistico”: tolti di mezzo tutte le sovrastrutture, i filtri, gli orpelli e gli stratagemmi delle religioni, esso mette l’uomo e Dio a diretto contatto, poichè rivela che Dio si è fatto uomo. Dio è qui. L’uomo religioso sa che «è terribile cadere nelle mani del Dio vivente» (Ebr. 10,31), quindi mette tra sé e la Divinità mille diaframmi teorici e pratici per stare a distanza di sicurezza. Esattamente come fa, esemplarmente, la Samaritana del Vangelo di Giovanni, quando si accorge che il suo dialogo con quello sconosciuto al pozzo di Giacobbe minaccia di prendere una piega preoccupante perché quel tale le si disvela come un profeta, cioè un “uomo di Dio”: a quel punto la butta sul religioso, accampando questioni rituali su cui dirottare la conversazione («Signore, vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare» Gv 4, 19-20); e quando l’altro la blocca («né su questo monte né a Gerusalemme […] ma viene l’ora, ed è questa […]» Gv 4, 21-23), ella tenta un ultimo diversivo teologico («So che deve venire il Messia […] Gv 4, 25) che viene immediatamente annientato da Gesù: «Sono io, che parlo con te» (Gv 4, 26).

Cosa può fare l’uomo, quando Dio lo guarda in faccia, a pochi centimetri da lui e gli parla così? Di fronte a Dio che ti dice «Sono io, che parlo con te», cosa puoi fare se non l’essenziale, cioè stare al punto? Ecco perché nel cristianesimo è tutto così tremendamente semplice e tremendamente serio. Il voto, che non va mai preso a ciancia, non è che l’epitome simbolica di ogni rapporto della libertà dell’uomo con la libertà di Dio che è venuto da lui (e poteva non venire!), e ora non si schioda dalla porta di casa e bussa (cfr. Apoc 3, 20). Ne consegue una semplice serietà, o seria semplicità, che è essenziale al cristianesimo. Da quest’etica della semplice serietà cristiana consegue a sua volta un’estetica, che ha la sua cifra stilistica nella sobrietà. Quella sobrietà che venne da subito notata, e spesso fraintesa e disprezzata dai pagani, come tratto caratteristico del primo cristianesimo, quando le manifestazioni esterne della nuova religione erano minime e un Tertulliano doveva replicare ai detrattori del battesimo cristiano – che pareva fatto di niente rispetto agli idolorum sollemnia vel arcana, cioè alle cerimonie fastose ed arcane dei misteri pagani – che proprio in tale povertà esso rispecchiava esattamente la semplicità e la potenza di Dio (cfr. De baptismo, 2, 1-2). Un po’ d’acqua, l’invocazione dello Spirito, una breve formula, ed ecco che nasce l’uomo nuovo! È molto feriale, dimesso e ordinario, sotto un certo aspetto, il cristianesimo.

Certo, la sobrietà non è tutto nello stile cristiano: all’altro capo della tensione polare che sempre lo anima c’è la continua fioritura di forme espressive, nel culto e nella cultura, a cui l’inventiva dello Spirito e quella degli uomini danno vita e che nel corso dei secoli si è fatta a volte persino lussureggiante. Ma senza la sobrietà, il lato umano di tale impresa prenderebbe inevitabilmente la mano, la creatività degenererebbe in licenza “artistica“, il rito diventerebbe teatro, e tutto l’apparato ecclesiastico si ridurrebbe a “civetteria religiosa” (coquetterie religieuse), come dice mirabilmente Baudelaire nel suo progettato libro sul Belgio (Pauvre Belgique!).

Ecco dunque l’apologia dantesca della sobrietà cristiana (vv. 73-84):

Siate, Cristiani, a muovervi più gravi:
non siate come penna ad ogne vento,
e non crediate ch’ogne acqua vi lavi.

Avete il novo e ’l vecchio Testamento,
e ’l pastor de la Chiesa che vi guida;
questo vi basti a vostro salvamento.

Se mala cupidigia altro vi grida,
uomini siate, e non pecore matte,
sì che ’l Giudeo di voi tra voi non rida!

Non fate com’agnel che lascia il latte
de la sua madre, e semplice e lascivo
seco medesmo a suo piacer combatte!

«Avete il novo e ‘l vecchio Testamento, / e ‘l pastor de la Chiesa che vi guida; / questo basti a vostro salvamento». Nonostante l’affollarsi di apparenze contrarie, queste parole sono vere sempre. Anche adesso.

Natale 2021. (Poteva anche non venire)

24 venerdì Dic 2021

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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Poteva anche non venire.

Non era obbligato.

Poteva mandare qualcuno, far sapere … magari telefonare.

Invece è venuto Lui, in persona.

Nella persona del Figlio.

E questo è un fatto.

È venuto a modo Suo, in un modo che non è il nostro (noi avremmo fatto tutto diverso), ma è venuto. Di persona. E questo è il Fatto.

Il bello del cristianesimo è che è vero. (Non “così bello da desiderare che sia anche vero”, ma proprio vero, come è vero un fatto).

La sola cosa che Dio non ha. (#Dante, Paradiso, canto IV, vv. 136-142 e V, vv. 19-31)

22 mercoledì Dic 2021

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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dono, libertà

La sola cosa che Dio non ha è la libertà degli uomini e degli angeli, perché gliel’ha irrevocabilmente donata Lui stesso creandoli. È dunque la sola cosa che noi abbiamo da offrirgli, il solo dono prezioso a cui Lui, che ha tutto, tenga infinitamente. (In clima natalizio, in effetti, la questione si potrebbe mettere anche in questi termini: “cosa regaliamo a Dio? Non si sa mai cosa fargli, ha già tutto …”).

L’incessante meditazione sul mistero della libertà è uno dei motivi conduttori dell’intera Commedia, forse addirittura il principale. Noi, che ad essa pensiamo così poco, dalla lezione dantesca potremmo trarre un grande beneficio. Noi che ce ne priveremmo ben volentieri, pur di star bene e non aver fastidi, noi che tanto più amiamo sbandierarla nelle dichiarazioni quanto meno la sosteniamo nel suo concreto e difficile esercizio pratico, noi che facilmente la scambiamo con la licenziosità.

Il canto IV si era chiuso su un Dante che, inondato di luce e di calore dall’amoroso magistero di Beatrice, prima di esserne sopraffatto («Beatrice mi guardò con gli occhi pieni / di faville d’amor così divini, / che, vinta, mia virtute diè le reni // e quasi mi perdei con gli occhi chini», vv. 139-142) non rinuncia tuttavia a porre un’ulteriore domanda: «Io vo’ saper se l’uom può soddisfarvi / ai voti manchi sì con altri beni, ch’a la vostra statera non sien parvi» (vv. 136-138). Detta così, non sembra una questione molto interessante per noi moderni, che di voti ne facciamo ben pochi e facilmente li infrangiamo, ma la questione, a ben vedere, riguarda un aspetto essenziale della libertà: se essa sia impegnabile irrevocabilmente; se esista anche per noi uomini il “per sempre” che è proprio di Dio, la possibilità, e talora perfino il dovere, di imitarlo in questa disposizione senza limiti del volere, che è in fondo l’espressione di un amore infinito.

Dopo che ho impegnato la mia libertà – chiede Dante preoccupato, e noi gli facciamo eco addirittura con angoscia, perché il “per sempre” proprio non lo sopportiamo – se cambio idea, o cambia la situazione intorno a me, posso riscattarla? Posso scambiare ciò che ho dato in pegno con qualcos’altro? Ascoltiamo, anzi contempliamo la risposta di Beatrice:

Lo maggior don che Dio per sua larghezza
fesse creando, e a la sua bontate
più conformato, e quel ch’e’ più apprezza,

fu de la volontà la libertate;
di che le creature intelligenti,
e tutte e sole, fuoro e son dotate.

Or ti parrà, se tu quinci argomenti,
l’alto valor del voto, s’è sì fatto
che Dio consenta quando tu consenti;

ché, nel fermar tra Dio e l’omo il patto,
vittima fassi di questo tesoro,
tal quale io dico; e fassi col suo atto.

Dunque che render puossi per ristoro?

Dopo che a Dio hai donato l’unica cosa a cui tenga, la sola che gli manchi, cioè la libertà del tuo cuore, che cosa mai puoi dargli in cambio? Che cosa gli regali per Natale: una sciarpa?

Abbiamo “dichiarato la guerra” a un virus, e per questo la stiamo perdendo.

20 lunedì Dic 2021

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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covid19, guerra, Informazione, pandemia, propaganda, verità

Mi permetto di suggerire agli avventori della nostra piccola bottega la lettura di questo articolo di Roberto Buffagni, che condivido integralmente e che mi pare assai lodevole per rigore analitico e limpidezza dell’esposizione:

https://italiaeilmondo.com/2021/12/19/sulle-strategie-di-approccio-alla-pandemia-da-coronavirus-tiriamo-le-fila_di-roberto-buffagni/?fbclid=IwAR19zynyLfY-ae9Z8metMPw1PHUPgvY8DUDjGEEreBaP0Gh6XAOYg68s8o8.

Aggiungo solo una piccola chiosa: l’errore fondamentale – ma forse sarebbe più giusto dire il crimine politico – compiuto dai nostri governanti è stato quello di voler pensare (e obbligare a pensare) sin dall’inizio tutta la gestione della pandemia entro la metafora della guerra. “Siamo in guerra, e quindi tutto deve piegarsi alla logica di guerra”: à la guerre comme à la guerre. Ora, l’uso della metafora bellica è molto facile e viene spontaneo a molti di noi quando si tratta di malattie (ad esempio, si legge frequentemente nei necrologi che il tale o il talaltro “non si è arreso alla malattia, ma ha combattuto fino all’ultimo”), ma è pericoloso perché spesso si basa su un falso presupposto.

La guerra, nel suo senso proprio di conflitto armato tra gruppi di uomini, è caratterizzata da un fondamentale elemento di simmetria (che rimane anche nelle cosiddette guerre asimmetriche, che sono solo relativamente tali): il nemico è dotato di intelligenza e di volontà, esattamente come noi. La sua intelligenza fa sì che egli pensi e commetta stupidaggini, proprio come noi; e la sua volontà può essere spezzata, esattamente come la nostra. In altri termini, la sua umanità compensa la nostra. Non sono un esperto della materia, ma mi pare che le strategie militari incorporino sempre questo assunto quando vengono pensate e messe in atto da chi di guerra se ne intende veramente.

Un virus, ovviamente, non ha né intelligenza né volontà, quindi non gli si può “fare la guerra” (il che non significa, ovviamente, che competenze, mezzi e logistica militare non possano essere utili, o addirittura indispensabili, nell’azione politico-sanitaria che si deve compiere per la prevenzione e la cura dei danni da esso prodotti, ma questo è tutto un altro discorso). Capisco che a qualcuno possa sembrare una questione di lana caprina, una sottigliezza intellettuale futile e indegna della gravità del momento che stiamo attraversando, ma pregherei comunque gli eventuali lettori di pensarci un po’ su. La prima vittima della guerra, di ogni guerra, è la verità. In guerra, per principio, si mente perché si ha paura che la verità possa fare il gioco del nemico, perciò all’informazione si sostituisce la propaganda. Qual è però il costo di tale operazione? È che, in guerra, nessuno, tranne forse le persone molto stupide e/o molto fanatiche, crede veramente alla propaganda. Finché la retorica dello sforzo bellico ha dalla sua la forza della novità, e soprattutto finché si coniuga con l’aspettativa di un’imminente vittoria, il popolo può tributare un consenso superficiale (perfino apparentemente entusiastico) al governo, ma poi l’intima persuasione di quasi tutti che le autorità mentano prevale e corrode inevitabilmente il cemento stesso dell’edificio sociale e politico, che è la fiducia. Chi, nel 1943, in Italia credeva alla «immancabile vittoria finale» e prendeva per buoni i bollettini di guerra?

La colossale perdita di credibilità che l’establishment politico-sanitario ha realizzato in questi due anni è il costo della guerra che ha voluto dichiarare e che, in questo senso, stiamo perdendo. (La pandemia, invece, come ogni altra cosa terrena, a un certo punto finirà).

Una Chiesa commissariata?

18 sabato Dic 2021

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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Chiesa, gerarchia

Sarà solo una mia impressione, ma l’impressione è che nella Chiesa i “commissariamenti” ormai non si contino più, così come sono all’ordine del giorno i casi di vescovi e cardinali “mandati a casa“, a volte per motivi che si conoscono, più spesso senza che se ne capisca bene la ragione. Ieri, per esempio, a quanto si legge sarebbe toccato al cardinale Turkson, prefetto del nuovo “Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale“, fare le valigie entro san Silvestro.

Ovviamente non mi permetto neanche lontanamente di pronunciarmi sui singoli casi, che saranno tutti più che giustificati. Qualcuno potrebbe maliziosamente osservare che, continuando così, alla fine resterà solo papa Francesco (oppure: resterà solo, papa Francesco), ma sarebbe solo una battuta.

Faccio invece due osservazioni, che mi paiono del tutto obiettive. La prima è che in molti di questi casi “il pubblico”, cioè per dir meglio la comunità dei fedeli, viene tenuto all’oscuro o solo malamente informato delle ragioni per cui vengono presi certi provvedimenti. Ora, si capisce che il governo di qualunque istituazione, ivi compresa la Chiesa Cattolica, abbia le sue esigenze di riservatezza; e si può comprendere anche la preoccupazione ecclesiastica di non scandalizzare troppo “i piccoli”. Però bisognerebbe tener conto anche che, nel mondo di oggi, dà più scandalo la mancanza di trasparenza, per non dire la copertura o le mezze verità. Perché poi finisce che certe cose si vengono comunque a sapere e l’effetto è peggiore. Per esempio, nella bruttissima vicenda di cui è stato vittima l’ex arcivescovo di Parigi (di cui qualcosa si è detto qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2021/12/07/il-papa-e-larcivescovo-di-parigi/), colpisce molto una risposta che mons. Aupetit ha dato in un’intervista dell’altro giorno al giornale Le Parisien. La trascrivo in originale: «Vous attendiez-vous à ce que le pape accepte votre démission?» «S’il me l’avait demandé, j’aurais traversé la tempête. J’en étais capable. J’imagine qu’il a jugé que la situation pouvait fragiliser la diocèse». Il vescovo è, come deve, estremamente rispettoso nei confronti del papa, ma non tace la verità: non è lui che è voluto andare via, ma è il papa che lo ha congedato, non rinnovandogli la fiducia quando lui ha rimesso il mandato nelle sue mani. Sulla base, per giunta, di una conoscenza dei fatti a quanto pare un po’ confusa, perché come chiarisce mons. Aupetit nella stessa intervista, la segretaria di cui Francesco ha parlato con i giornalisti come oggetto di attenzioni improprie da parte del presule francese, non c’entrava assolutamente nulla. In sostanza, qui abbiamo un vescovo, oggetto di chiacchiericcio clericale e di una campagna di stampa malevola, il quale si dichiara innocente e, senza un’indagine adeguata (per la quale non c’è stato evidentemente il tempo) viene sacrificato «sull’altare dell’ipocrisia» come letteralmente (e incredibilmente) ha dichiarato il papa stesso.

La seconda considerazione è questa: comunque la si giri, pare che nella chiesa oggi vi sia un problema di gerarchia. Se infatti tutte queste dimissioni e tutti questi commissariamenti sono giustificati, anzi doverosi, vuol dire che c’è un problema della gerarchia e nella gerarchia. Se invece non lo sono, significa che c’è una problema di chi li prende e in chi li prende, cioè al vertice della gerarchia.

Tertium datur, ma implicherebbe che va tutto bene così e problemi non ce ne sono. Siamo sicuri?

Illuminismo dantesco. (#Dante, Paradiso, canto IV, vv. 118-142)

15 mercoledì Dic 2021

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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#Dante, conoscenza, ricerca, verità

Questo canto, che si era aperto all’insegna del dubbio, culmina in una entusiastica lode della certezza che l’intelletto umano, se rettamente impiegato, può conseguire. Siamo fatti per conoscere la verità, e possiamo conoscerla. Parzialmente, un pezzo alla volta, attraverso un cammino pieno di errori e di dubbi, che ci porta sempre a correggere e superare ciò che crediamo di avere acquisito, in un’ascesa che non finisce mai perché può avere termine solo nel Vero «di fuor dal qual nessun vero si spazia». Ma possiamo conoscere. È puro illuminismo cristiano; quello vero, che non riduce la ragione idolatrandola, ma le conserva tutta l’ampiezza che deriva dalla corrispondenza con la realtà (adaequatio rei et intellectus).

Dicevamo l’altro giorno che i dubbi son belli, purché ci sia chi li risolve. Dante ne ha due, che non riesce neppure a formulare. Beatrice, con saggio ordine pedagogico, provvede a sciogliere innanzitutto quello che «più ha di felle» (v. 27), perché riguarda la gerarchia e la collocazione dei beati. Com’è possibile che in Paradiso vi siano gradi diversi di beatitudine, e che le anime siano perciò distribuite nei diversi cieli? Aveva dunque ragione Platone, a sostenere che le anime tornassero a quelle stelle da cui provenivano? Ecco una questione che a noi non verrebbe mai in mente, tanto ci sembra astratta, e invece è concreta e importantissima, perché, se fosse così, vorrebbe dire che gli uomini non sono tutti ugualmente creati da Dio in persona, ma hanno origini diverse (e perciò anche diversi destini!). Sei della Luna, di Mercurio, di Venere o di un altro astro? Allora tale sarà la tua natura e tale il tuo esito, senza scampo. C’è qui il germe dell’idea, terribile, di una discriminazione ontologica tra gli uomini.

Grazie a Dio le cose non stanno così: i beati – spiega Beatrice – «tutti fanno bello il primo giro», cioè sono tutti nell’Empireo, «e differentemente han dolce vita / per sentir più e men l’etterno spiro» (vv. 34-36). Le differenze dunque in Paradiso ci sono, perché diverse sono le persone e le loro storie, ma è una questione di libertà, non l’effetto di un determinismo astrologico: la libertà di Dio che gratuitamente assegna ad ogni uomo una diversa misura di doni di grazia (come i talenti della parabola), e la libertà dell’uomo che aderisce con maggiore o minore ardore di carità al dono ricevuto. Dio è tutto in tutti, ma ciascuno lo accoglie secondo una misura che gli è propria («più e men»). Solo così, tra l’altro, la gran festa del Paradiso può brillare per noi di mille e mille luci, che non si annullano in un abbaglinte e indistinto fulgore divino. Questa differenza rende possibile la stessa narrazione del viaggio dantesco, gli incontri, la vita come noi la concepiamo. Il Paradiso dantesco è un ordine nel quale, come Piccarda ci ha già spiegato nel canto precedente, si può essere “meno beati” di un altro e al tempo stesso “perfettamente beati”.

Il tema della libertà, che è il cuore di tutta la Commedia, sottende anche alla seconda perplessità di Dante: Piccarda e le altre anime del cielo della luna si sono piegate alla violenza, quindi in fondo l’hanno voluta, «ché volontà, se non vuol, non s’ammorza, / ma fa come natura face in foco, / se mille volte vœiolenza il torza» (vv. 76-78). Perché dunque sono in Paradiso? Questa, a differenza dell’altra, è un’obiezione che ci è familiarissima, perché è la stessa che ci fiorisce impunemente sulle labbra ogni volta che ci scandalizziamo per il mancato eroismo altrui: «Se fosse stato lor volere intero, / come tenne Lorenzo in su la grada, / e fece Muzio a la sua man severo» (vv. 82-84), dice Dante. E noi diremmo: “in fondo se l’è cercata; se voleva, poteva rifiutarsi; perché non si è fatta ammazzare, piuttosto?”. Eppure Piccarda ha detto che lei e Costanza sono rimaste interiormente fedeli al loro voto, e noi sappiamo che i beati non possono mentire. Dunque? Il fatto è che, nella vita degli uomini, succede a volte che per fuggire un male maggiore se ne accetti uno minore: «Voglia assoluta non consente al danno; / ma consentevi in tanto in quanto teme, se si ritrae, cadere in più affanno» (vv. 109-111). C’è quindi una volontà assoluta e una relativa: Piccarda si riferiva alla prima, quando diceva di non essere mai venuta meno al proprio voto; Beatrice si riferisce invece alla volontà relativa, quella che, per evitare un male maggiore, le ha fatto assentire ad una condizione che non voleva ma in cui la violenza degli uomini l’aveva posta suo malgrado.

Il fiume di intelligenza che fluisce nella lezione di Beatrice pacifica l’uno e l’altro disio di Dante, che prorompe in un caldo e spontaneo moto di affetto per la sua maestra: «“O amanza del primo amante, o diva”, / diss’io appresso, “il cui parlar m’inonda / e scalda sì, che più e più m’avviva, // non è l’affezion mia tanto profonda, / che basti a render voi grazia per grazia; / ma quei che vede e puote a ciò risponda”». Non si potrebbe esprimere meglio il senso di profonda gratitudine per la carità che, nella sua più pura essenza, l’insegnamento è: carità che va incontro all’uomo nel suo bisogno più profondo, conoscere la verità e lo soccorre nella sua miseria più radicale, l’ignoranza.

Sarebbe già tanto, ma Dante non si ferma qui: la gratitudine per il dono della scienza non è infatti un sentimento passivo, e i nove versi che seguono (vv. 124-132) celebrano, con la più smagliante delle lodi, il movimento dell’intelligenza umana alla ricerca della verità.

Io veggio ben che già mai non si sazia
nostro intelletto, se ’l ver non lo illustra
di fuor dal qual nessun vero si spazia.
Posasi in esso, come fera in lustra,
tosto che giunto l’ha; e giugner puollo:
se non, ciascun disio sarebbe frustra.
Nasce per quello, a guisa di rampollo,
a piè del vero il dubbio; ed è natura
ch’al sommo pinge noi di collo in coll
o.

Non conosco una descrizione altrettanto bella del metodo della ricerca. L’immagine dell’intelligenza umana che, ogni volta che afferra un vero, «posasi in esso, come fera in lustra» e quella del dubbio che «a guisa di rampollo» rinasce immediatamente da ogni conquista conoscitiva sono di quelle che non si dimenticano. Il vero secolo dei lumi è quello di Dante.

Apologia minima della stupidità.

14 martedì Dic 2021

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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angoscia, comicità, stupidità

È molto praticato, sui social più ancora che nella vita normale, lo sport di dileggiare gli avversari per la loro stupidità (poco importa qui se reale o presunta). È umano: uno dei meccanismi elementari della comicità, da sempre, è l’euforia che ci procura la stupidità dell’altro. Ridiamo del clown perché fa e dice cose tanto stupide che a noi non passerebbero neanche per l’anticamera del cervello. Lui è stupido, io no, il che per noi significa: lui è stupido, dunque io non lo sono.

Che sollievo! Non ci vuole molto a capire che sotto c’è un’angoscia latente, che accomuna tutti gli esseri umani: non sarò per caso io, lo stupido? Anzi, l’unico stupido: perché la radice del problema sta proprio in questo, che ciascuno, conoscendosi, può avere ragioni per sospettare la propria stupidità, e di fatto, almeno inconsciamente, quel sospetto ce l’hanno un po’ tutti (tranne coloro che sono veramente e integralmente stupidi, creature perfette che chissà se esistono!), ma degli altri non sappiamo. È ciò che illustra mirabilmente, a beneficio anche dei piccoli, I vestiti nuovi dell’imperatore, la più bella fiaba di Andersen. Benedetto dunque il clown, che mi fa ridere mostrandomi com’è veramente uno stupido (non io!); e benedetto anche l’avversario, o piuttosto il nemico, se posso ridicolizzarlo impunemente, mostrando a me stesso e ai miei sodali (questo è uno sport che si pratica meglio a squadre) quanto lui sia stupido e noi invece intelligenti.

Molto umana, questa forma di gratificazione è analoga all’altra – di cui è probabilmente una sorta di replica in sedicesimo – che ci viene procurata dalla morte dell’altro: lui è morto, io invece sono vivo (che diventa, nella nostra mente: lui è morto, quindi io sono vivo). Proprio come diceva don Abbondio, senza infingimenti. Marchingegno mentale anche questo ben noto, e sport praticato specialmente da noi vecchi, che siamo grandi degustatori di necrologi e funerali. (La morte per covid è diversa, e fa tanto sconquasso, solo perché è contagiosa: il gioco ci è impedito perché vi si frappone un altro pensiero: lui è morto, dunque potrei morire anch’io. Non fosse contagioso il virus, di morti ce ne potrebbero essere anche dieci o cento volte tanti: lacrime sì, se ne verserebbero a fiumi, ma la vita andrebbe avanti tranquillamente, perché “chi muore giace e chi vive si dà pace“).

Bisogna forse avere autoindulgenza per entrambi questi badalucchi, ma al tempo stesso sarebbe bene esserne consapevoli. Dileggiamo pure l’altro per la sua conclamata stupidità – soprattutto se appartiene a una delle poche categorie non protette dalle regole del discorso pubblico, oggi così oppressive (i “no vax”, come li chiamano, da questo punto di vista sono selvaggina perfetta: sembrano in effetti spesso molto stupidi e gli si può dire qualunque cosa, sicuri di non essere ripresi o sanzionati da nessuna “autorità“) – ma non censuriamo l’avvertenza che in definitiva a questo mondo non si sa mai chi sia più stupido; che l’intelligenza e la stupidità si accoppiano volentieri, anche ai loro gradi massimi; che la stupidità, infine, come ogni qualità umana, ha diritto ad una forma di rispetto. Non sono un esperto, ma credo che per esempio Flaubert, che della bêtise è stato un grande cultore, avesse per la stupidità umana una sorta di profonda ammirazione.

E soprattutto, può esserci, dal punto di vista di Dio (l’unico che certamente non è stupido!), qualcosa di più stupido di ciò che hanno fatto Eva e Adamo? Eppure …

Eliminiamo i «no vax». (Codice di igiene linguistica: Parlare meglio per vivere meglio, 2)

13 lunedì Dic 2021

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Igiene linguistica

Ormai tendiamo tutti a parlare per slogan e per etichette. Dicono che sia perché si fa presto e si fa meno fatica, ma forse non è solo per quello. In ogni caso, come ogni scelta, anche questa ha un costo, che è molto pesante perché è inevitabile che si tenda anche a pensare come si parla. Sul danno causato dal “parlare per slogan“ alla qualità del magistero ecclesiastico, per esempio, qualche giorno fa ha scritto cose di molto buon senso Stefano Fontana in questo articolo: https://lanuovabq.it/it/magistero-per-slogan-una-prassi-deleteria.

Le etichette (che adesso si chiamano tag, perché “etichetta“ era troppo lungo e faticoso da pronunciare) sono ugualmente pericolose. Uno le mette “per comodità“, poi si abitua a pensare che il contenuto corrisponda veramente a quello che c’è scritto sul coperchio del barattolo in cui l’ha messo. In questo modo, se mi passate il gioco di parole veramente deplorevole, per l’etichetta si perde l’etica. L’etica del linguaggio, intendo dire, quella che impone di non rinunciare mai allo sforzo continuo di far corrispondere il più possibile le parole alla realtà che esse pretendono di rappresentare, sapendo che ci sarà sempre uno scarto (che è la nostra salvezza dal totalitarismo intellettuale).

Un atto di resistenza linguistica – ma anche ipso facto di resistenza civile – semplice e alla portata di tutti sarebbe dunque quello di rinunciarvi, facendo ogni volta la “fatica“ di articolare una frase (dunque un pensiero) invece di mettere un timbro. Nelle presenti circostanze, in particolare, se invece dell’orrendo «no vax», ci imponessimo di dire ogni volta «persone che non si vogliono vaccinare», daremmo un piccolo contributo al miglioramento della qualità della vita umana sul pianeta. Come dicevano un tempo a sinistra, con uno slogan che ebbe la sua fortuna: “resteremmo umani“.

11 dicembre: l’anniversario del suicidio dell’Occidente.

11 sabato Dic 2021

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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Cina, mondo

Vent’anni fa, in questo giorno, la Cina entrò a far parte dell’Organizzazione mondiale del commercio. Qualcuno decise che poteva lucrare tutti i vantaggi che ne derivano, senza sottostare alle regole che governano (e spesso ingabbiano) la politica, la società e l’economia dei paesi occidentali. I risultati oggi li vediamo tutti, ma anche allora erano prevedibili da molti (e di fatto furono previsti da alcuni). Fu cecità o lungimiranza? Chi volle quella decisione sciagurata non intravide affatto il “mondo cinese“ verso il quale ora tutti stiamo andando a grandi passi o lo previde perfettamente?

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