Questo canto, che si era aperto all’insegna del dubbio, culmina in una entusiastica lode della certezza che l’intelletto umano, se rettamente impiegato, può conseguire. Siamo fatti per conoscere la verità, e possiamo conoscerla. Parzialmente, un pezzo alla volta, attraverso un cammino pieno di errori e di dubbi, che ci porta sempre a correggere e superare ciò che crediamo di avere acquisito, in un’ascesa che non finisce mai perché può avere termine solo nel Vero «di fuor dal qual nessun vero si spazia». Ma possiamo conoscere. È puro illuminismo cristiano; quello vero, che non riduce la ragione idolatrandola, ma le conserva tutta l’ampiezza che deriva dalla corrispondenza con la realtà (adaequatio rei et intellectus).
Dicevamo l’altro giorno che i dubbi son belli, purché ci sia chi li risolve. Dante ne ha due, che non riesce neppure a formulare. Beatrice, con saggio ordine pedagogico, provvede a sciogliere innanzitutto quello che «più ha di felle» (v. 27), perché riguarda la gerarchia e la collocazione dei beati. Com’è possibile che in Paradiso vi siano gradi diversi di beatitudine, e che le anime siano perciò distribuite nei diversi cieli? Aveva dunque ragione Platone, a sostenere che le anime tornassero a quelle stelle da cui provenivano? Ecco una questione che a noi non verrebbe mai in mente, tanto ci sembra astratta, e invece è concreta e importantissima, perché, se fosse così, vorrebbe dire che gli uomini non sono tutti ugualmente creati da Dio in persona, ma hanno origini diverse (e perciò anche diversi destini!). Sei della Luna, di Mercurio, di Venere o di un altro astro? Allora tale sarà la tua natura e tale il tuo esito, senza scampo. C’è qui il germe dell’idea, terribile, di una discriminazione ontologica tra gli uomini.
Grazie a Dio le cose non stanno così: i beati – spiega Beatrice – «tutti fanno bello il primo giro», cioè sono tutti nell’Empireo, «e differentemente han dolce vita / per sentir più e men l’etterno spiro» (vv. 34-36). Le differenze dunque in Paradiso ci sono, perché diverse sono le persone e le loro storie, ma è una questione di libertà, non l’effetto di un determinismo astrologico: la libertà di Dio che gratuitamente assegna ad ogni uomo una diversa misura di doni di grazia (come i talenti della parabola), e la libertà dell’uomo che aderisce con maggiore o minore ardore di carità al dono ricevuto. Dio è tutto in tutti, ma ciascuno lo accoglie secondo una misura che gli è propria («più e men»). Solo così, tra l’altro, la gran festa del Paradiso può brillare per noi di mille e mille luci, che non si annullano in un abbaglinte e indistinto fulgore divino. Questa differenza rende possibile la stessa narrazione del viaggio dantesco, gli incontri, la vita come noi la concepiamo. Il Paradiso dantesco è un ordine nel quale, come Piccarda ci ha già spiegato nel canto precedente, si può essere “meno beati” di un altro e al tempo stesso “perfettamente beati”.
Il tema della libertà, che è il cuore di tutta la Commedia, sottende anche alla seconda perplessità di Dante: Piccarda e le altre anime del cielo della luna si sono piegate alla violenza, quindi in fondo l’hanno voluta, «ché volontà, se non vuol, non s’ammorza, / ma fa come natura face in foco, / se mille volte vœiolenza il torza» (vv. 76-78). Perché dunque sono in Paradiso? Questa, a differenza dell’altra, è un’obiezione che ci è familiarissima, perché è la stessa che ci fiorisce impunemente sulle labbra ogni volta che ci scandalizziamo per il mancato eroismo altrui: «Se fosse stato lor volere intero, / come tenne Lorenzo in su la grada, / e fece Muzio a la sua man severo» (vv. 82-84), dice Dante. E noi diremmo: “in fondo se l’è cercata; se voleva, poteva rifiutarsi; perché non si è fatta ammazzare, piuttosto?”. Eppure Piccarda ha detto che lei e Costanza sono rimaste interiormente fedeli al loro voto, e noi sappiamo che i beati non possono mentire. Dunque? Il fatto è che, nella vita degli uomini, succede a volte che per fuggire un male maggiore se ne accetti uno minore: «Voglia assoluta non consente al danno; / ma consentevi in tanto in quanto teme, se si ritrae, cadere in più affanno» (vv. 109-111). C’è quindi una volontà assoluta e una relativa: Piccarda si riferiva alla prima, quando diceva di non essere mai venuta meno al proprio voto; Beatrice si riferisce invece alla volontà relativa, quella che, per evitare un male maggiore, le ha fatto assentire ad una condizione che non voleva ma in cui la violenza degli uomini l’aveva posta suo malgrado.
Il fiume di intelligenza che fluisce nella lezione di Beatrice pacifica l’uno e l’altro disio di Dante, che prorompe in un caldo e spontaneo moto di affetto per la sua maestra: «“O amanza del primo amante, o diva”, / diss’io appresso, “il cui parlar m’inonda / e scalda sì, che più e più m’avviva, // non è l’affezion mia tanto profonda, / che basti a render voi grazia per grazia; / ma quei che vede e puote a ciò risponda”». Non si potrebbe esprimere meglio il senso di profonda gratitudine per la carità che, nella sua più pura essenza, l’insegnamento è: carità che va incontro all’uomo nel suo bisogno più profondo, conoscere la verità e lo soccorre nella sua miseria più radicale, l’ignoranza.
Sarebbe già tanto, ma Dante non si ferma qui: la gratitudine per il dono della scienza non è infatti un sentimento passivo, e i nove versi che seguono (vv. 124-132) celebrano, con la più smagliante delle lodi, il movimento dell’intelligenza umana alla ricerca della verità.
Io veggio ben che già mai non si sazia
nostro intelletto, se ’l ver non lo illustra
di fuor dal qual nessun vero si spazia.
Posasi in esso, come fera in lustra,
tosto che giunto l’ha; e giugner puollo:
se non, ciascun disio sarebbe frustra.
Nasce per quello, a guisa di rampollo,
a piè del vero il dubbio; ed è natura
ch’al sommo pinge noi di collo in collo.
Non conosco una descrizione altrettanto bella del metodo della ricerca. L’immagine dell’intelligenza umana che, ogni volta che afferra un vero, «posasi in esso, come fera in lustra» e quella del dubbio che «a guisa di rampollo» rinasce immediatamente da ogni conquista conoscitiva sono di quelle che non si dimenticano. Il vero secolo dei lumi è quello di Dante.