Il 17 luglio del 180, a Cartagine, un gruppo di cristiani provenienti da una cittadina dell’Africa proconsolare, Scili, vennero processati e condannati a morte dal governatore romano. Gli Atti del loro processo sono il più antico documento della letteratura latina cristiana, ed essendo sostanzialmente costituiti dal verbale dell’udienza ci permettono – caso davvero eccezionale nella storia antica – di “assistere” al fatto, come se fossimo presenti all’interrogatorio e poi alla sentenza di quei tali. È verosimile, infatti, che il testo che possediamo riproduca fedelmente le note prese dal cancelliere e che l’intervento del redattore cristiano si limiti alla formula conclusiva.
Scarno ed essenziale com’è, questo documento si rivela ricchissimo di spunti di riflessione per noi. Eccone uno, forse il più profondo e commovente. Il magistrato, Saturnino cerca in tutti i modi di indurre gli imputati ad accettare un ragionevole compromesso: se “giurano per il genio dell’imperatore signore nostro” e compiono un atto di culto in suo onore potranno andarsene liberi. È sottinteso che nessuno indagherà su ciò che faranno poi in privato, nel chiuso delle loro dimore: continuino pure a credere nel dio che voglono, purché dimostrino di essere leali sudditi dello Stato Romano. Chi gli risponde, e per un po’ gli tiene testa, è soprattutto Sperato, che appare come il leader del piccolo gruppo (sei sono quelli nominati all’inizio, poi dodici quelli citati nella sentenza). Forse è un presbitero, in ogni caso uno che sa parlare, che ha ragioni da dare e addirittura ad un certo punto del dialogo cerca di annunciare il vangelo al proconsole che lo sta interrogando.
Però non è lui, a mio parere, che dice la parola decisiva, quella che va al cuore di tutto. Ad un certo punto Saturnino, vedendo che con Sperato non la spunta, si rivolge agli altri, che finora sono stati zitti e li invita a dissociarsi dalla «follia» (dementia) del loro capo. Ecco le loro risposte:
«Cittino disse: “Non temiamo nessun altro all’infuori del Signore Dio nostro che è nei cieli». Donata disse: «Onore a cesare in quanto cesare ma timore solo verso Dio». [Questi sono due bravi cristiani, che hanno studiato e assimilato il catechismo: ne ripetono le formule, e certo non sbagliano]. «Vestia disse: Sono cristiana». [E qui, se ci è permesso immaginare, ci sembra che queste parole escano come un sussurro, dalle labbra di una donna che di parole è abituata a dirne pochissime; e che ora è intimidita, confusa: non ha dialettica, come Sperato, e non ricorda le formule, come Cittino e Donata … quando tutto crolla, resta l’essenziale: “sono cristiana”. Ma lo spessore di questa sua professione di fede emerge dalle parole di un’altra donna, l’ultima che risponde].
«Seconda disse: “Ciò che sono, quello voglio essere” (Quod sum, ipsud volo esse)».
Non è questione di idee, di costumi, di opzioni sociali e politiche, non è questione di niente, se non di identità. L’identità tra il mio essere e la mia libertà.
Il mondo, ultimamente, odia i cristiani non per quello che dicono e quello che fanno, ma perché sono. E la testimonianza, ultimamente, non consiste nel fare questo o quello, ma nell’esserci.