Mai pausa fu tanto significativa in un discorso musicale, come qui, all’inizio del XXIX. Ecco l’ouverture del canto (vv. 1-9):
Quando ambedue li figli di Latona (cioè il sole e la luna), / coperti del Montone e de la Libra (trovandosi rispettivamente sotto il segno dell’Ariete e della Bilancia), / fanno dell’orizzonte insieme zona (sono contemporaneamente ai lati opposti dell’orizzonte), // quant’è dal punto che ‘l cenìt i ‘nlibra / infin che l’uno e l’altro da quel cinto, / cambiando l’emisperio, si dilibra (cioè quanto tempo passa dal momento in cui sono equidistanti dallo zenit fino a quello in cui si liberano da quel “cinto” – quel momentaneo equilibrio – e si muovono verso emisferi opposti), // tanto, col volto di riso dipinto, / si tacque Bëatrice, riguardando / fiso nel punto che m’avëa vinto.
Nove versi per descrivere un tempo infinitesimale, un punto di tempo; un “nonnulla di silenzio” che noi, con la nostra solita misura grossolana di contare il tempo, non avvertiremmo neppure, e in ogni caso non stimeremmo degno di attenzione. È come quando, in un’esecuzione musicale, quel minimo di esitazione (o di premura), quella certa ombra quasi impercettibile di ritardo (o di anticipo) nel suonare una certa nota – che è di quell’interprete e non di tutti gli altri – cambia a volte tutto il senso della frase, la illumina e ne rivela il tesoro di bellezza altrimenti nascosto. Si ascolti, per un esempio di ciò che intendo, come Arturo Benedetti Michelangeli rivela, facendo sorgere ogni nota dal silenzio, quale capolavoro sia la Sonata in do maggiore di Galuppi, che diversamente confonderemmo con un qualsiasi altro dignitoso prodotto dello stile galante settecentesco. Qui il primo movimento, ma ascolatatela tutta, se potete:
Continua, dunque, quella che potremmo chiamare la metafisica del punto che ci si era palesata nel canto XXVIII. Se avessimo dubbi in proposito, le prime parole che sgorgano dal “punto di silenzio” di Beatrice ce li tolgono : «Poi cominciò: “Io dico, e non dimando, / quel che tu vuoli udir, perch’io l’ho visto / là ‘ve s’appunta ogne ubi e ogne quando» (vv.10-12). Metafisica del punto vuol dire assoluta concentrazione della Totalità – Dio che è «tutto in tutto» – nell’Unità: senza parti, senza distinzioni, senza dimensioni di spazio-tempo …
La ragione qui si sgomenta: dunque il “punto-Dio” è anche senza movimento, senza storia, senza evento? E se non vi è “movimento”, “storia”, “evento”, sarà anche senza relazione? E se è senza relazione, è senza amore? Eppure ci ha fatti: e per amore, ci diciamo sempre, per farci coraggio. Qui si spalanca davanti a noi l’abisso del mistero che è più mistero di tutti i misteri divini; qui davvero la mente e il cuore vacillano e se vi si soffermano troppo la vertigine si fa insopportabile; qui la fede è sospesa nel vuoto: davanti al mistero della creazione. Lo si è detto altre volte, ma non ci stanchiamo di ripeterlo: come è possibile, e perché mai, per quale inconcepibile ragione Dio, il Tutto, il Punto della Totalità dell’Essere, fa essere dal nulla qualcosa di altro-da-sé, qualcosa che non è Dio? Un’inconcepibile – eppure reale, siamo qui! – alterità da Lui, che proprio perché realmente altra può non amarlo, non corrisponderGli, negarLo.
In questo abisso si immerge (ci immerge) e si innalza (ci innalza), partendo da quel punto di silenzio che è un tutt’uno col punto divino che è tutto («là ‘ve s’appunta ogne ubi e ogne quando»), la sovrana bellezza dell’ultima lezione magistrale di Beatrice:
Non per aver a sé di bene acquisto,
ch’esser non può, ma perché suo splendore
potesse, risplendendo, dir “Subsisto”,
in sua etternità di tempo fore,
fuor d’ogne altro comprender, come i piacque,
s’aperse in nuovi amor l’etterno amore.
Quel punto metafisico che avevamo appena fissato nella su unità, ci si è graziosamente rivelato nella sua essenza trinitaria: comunione amorosa delle tre Persone e dunque, in qualche modo da noi ineffabile, anche movimento (περιχώρεσις dissero i Padri, con parola che evoca un armonioso movimento nello spazio, quasi una danza); perché non sarebbe per noi concepibile un amore che non fosse anche un “andare verso” l’altro. Ma come sta che il cerchio di quella perfetta relazione intratrinitaria, perfettamente bastante a se stesso («non per aver a sé di bene acquisto») – in cui il Padre è rivolto al Figlio e il Figlio è rivolto (πρός dice il prologo di Giovanni) e il loro rceproco andare l’uno verso l’altro è lo Spirito che da entrambi procede – si dilata e si apre sino a fare sorgere dal nulla l’essere dell’universo creato? Dante suggerisce: è come se l’effusione di luce di quell’infinito amore divino non accettasse di non diventare, nel suo effondersi, anche risposta d’amore, consapevole e libera, a se stessa: «perché suo splendore / potesse, risplendendo, dir “Subsisto”».
Può un verso solo, un verso solo di un poeta, dire di più di un intero trattato teologico? Se trova orecchi che lo intendano, sì: «s’aperse in nuovi amor l’etterno amore» (v. 18). (Io, per esempio, non l’avevo inteso fino ad ora. Ora che lo intendo, non ho orecchi, mente e cuore che per esso e vorrei sempre ripeterlo, questo verso ultimo e definitivo, che dice tutto:
s’aperse in nuovi amor l’etterno amore.