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«S’aperse in nuovi amor l’eterno amore». Metafisica del punto e mistero della creazione. (#Dante, Paradiso, canto XXIX, vv. 1-18)

17 venerdì Mar 2023

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#Dante, creazione, il punto-Dio, Trinità, tutto in tutto

Mai pausa fu tanto significativa in un discorso musicale, come qui, all’inizio del XXIX. Ecco l’ouverture del canto (vv. 1-9):

Quando ambedue li figli di Latona (cioè il sole e la luna), / coperti del Montone e de la Libra (trovandosi rispettivamente sotto il segno dell’Ariete e della Bilancia), / fanno dell’orizzonte insieme zona (sono contemporaneamente ai lati opposti dell’orizzonte), // quant’è dal punto che ‘l cenìt i ‘nlibra / infin che l’uno e l’altro da quel cinto, / cambiando l’emisperio, si dilibra (cioè quanto tempo passa dal momento in cui sono equidistanti dallo zenit fino a quello in cui si liberano da quel “cinto” – quel momentaneo equilibrio – e si muovono verso emisferi opposti), // tanto, col volto di riso dipinto, / si tacque Bëatrice, riguardando / fiso nel punto che m’avëa vinto.

Nove versi per descrivere un tempo infinitesimale, un punto di tempo; un “nonnulla di silenzio” che noi, con la nostra solita misura grossolana di contare il tempo, non avvertiremmo neppure, e in ogni caso non stimeremmo degno di attenzione. È come quando, in un’esecuzione musicale, quel minimo di esitazione (o di premura), quella certa ombra quasi impercettibile di ritardo (o di anticipo) nel suonare una certa nota – che è di quell’interprete e non di tutti gli altri – cambia a volte tutto il senso della frase, la illumina e ne rivela il tesoro di bellezza altrimenti nascosto. Si ascolti, per un esempio di ciò che intendo, come Arturo Benedetti Michelangeli rivela, facendo sorgere ogni nota dal silenzio, quale capolavoro sia la Sonata in do maggiore di Galuppi, che diversamente confonderemmo con un qualsiasi altro dignitoso prodotto dello stile galante settecentesco. Qui il primo movimento, ma ascolatatela tutta, se potete:

Continua, dunque, quella che potremmo chiamare la metafisica del punto che ci si era palesata nel canto XXVIII. Se avessimo dubbi in proposito, le prime parole che sgorgano dal “punto di silenzio” di Beatrice ce li tolgono : «Poi cominciò: “Io dico, e non dimando, / quel che tu vuoli udir, perch’io l’ho visto / là ‘ve s’appunta ogne ubi e ogne quando» (vv.10-12). Metafisica del punto vuol dire assoluta concentrazione della Totalità – Dio che è «tutto in tutto» – nell’Unità: senza parti, senza distinzioni, senza dimensioni di spazio-tempo …

La ragione qui si sgomenta: dunque il “punto-Dio” è anche senza movimento, senza storia, senza evento? E se non vi è “movimento”, “storia”, “evento”, sarà anche senza relazione? E se è senza relazione, è senza amore? Eppure ci ha fatti: e per amore, ci diciamo sempre, per farci coraggio. Qui si spalanca davanti a noi l’abisso del mistero che è più mistero di tutti i misteri divini; qui davvero la mente e il cuore vacillano e se vi si soffermano troppo la vertigine si fa insopportabile; qui la fede è sospesa nel vuoto: davanti al mistero della creazione. Lo si è detto altre volte, ma non ci stanchiamo di ripeterlo: come è possibile, e perché mai, per quale inconcepibile ragione Dio, il Tutto, il Punto della Totalità dell’Essere, fa essere dal nulla qualcosa di altro-da-sé, qualcosa che non è Dio? Un’inconcepibile – eppure reale, siamo qui! – alterità da Lui, che proprio perché realmente altra può non amarlo, non corrisponderGli, negarLo.

In questo abisso si immerge (ci immerge) e si innalza (ci innalza), partendo da quel punto di silenzio che è un tutt’uno col punto divino che è tutto («là ‘ve s’appunta ogne ubi e ogne quando»), la sovrana bellezza dell’ultima lezione magistrale di Beatrice:

Non per aver a sé di bene acquisto,
ch’esser non può, ma perché suo splendore
potesse, risplendendo, dir “Subsisto”,

in sua etternità di tempo fore,
fuor d’ogne altro comprender, come i piacque,
s’aperse in nuovi amor l’etterno amore.

Quel punto metafisico che avevamo appena fissato nella su unità, ci si è graziosamente rivelato nella sua essenza trinitaria: comunione amorosa delle tre Persone e dunque, in qualche modo da noi ineffabile, anche movimento (περιχώρεσις dissero i Padri, con parola che evoca un armonioso movimento nello spazio, quasi una danza); perché non sarebbe per noi concepibile un amore che non fosse anche un “andare verso” l’altro. Ma come sta che il cerchio di quella perfetta relazione intratrinitaria, perfettamente bastante a se stesso («non per aver a sé di bene acquisto») – in cui il Padre è rivolto al Figlio e il Figlio è rivolto (πρός dice il prologo di Giovanni) e il loro rceproco andare l’uno verso l’altro è lo Spirito che da entrambi procede – si dilata e si apre sino a fare sorgere dal nulla l’essere dell’universo creato? Dante suggerisce: è come se l’effusione di luce di quell’infinito amore divino non accettasse di non diventare, nel suo effondersi, anche risposta d’amore, consapevole e libera, a se stessa: «perché suo splendore / potesse, risplendendo, dir “Subsisto”».

Può un verso solo, un verso solo di un poeta, dire di più di un intero trattato teologico? Se trova orecchi che lo intendano, sì: «s’aperse in nuovi amor l’etterno amore» (v. 18). (Io, per esempio, non l’avevo inteso fino ad ora. Ora che lo intendo, non ho orecchi, mente e cuore che per esso e vorrei sempre ripeterlo, questo verso ultimo e definitivo, che dice tutto:

s’aperse in nuovi amor l’etterno amore.

Dante ci chiede una rivoluzione cognitiva: se Dio è un punto, tutti i nostri ordini di grandezza vanno rovesciati, come “potenti dai troni”. (#Dante, Paradiso, canto XXVIII, vv. 22-96)

08 mercoledì Mar 2023

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#Dante, angeli, cieli, grandezza, il punto-Dio, rivoluzione cognitiva

Quel puntino su cui ci siamo fermati la volta scorsa, che è Dio!, ha attorno a sé «un cerchio d’igne / che girava sì ratto, ch’avria vinto / quel moto che più tosto il mondo cigne» (vv. 25-27), cioè più veloce del movimento del nono cielo, quel Primo Mobile in cui ci troviamo, «e questo era d’un altro circumcinto, / e quel dal terzo, e ‘l terzo poi dal quarto, / dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto» (vv. 28-30: occhio al v. 30, se sei Dante puoi permetterti fare un verso composto solo di aggettivi numerali che poeticamente funziona alla grande!). Seguono gli altri tre cieli, e tutti e nove sono progressivamente sempre meno veloci di mano in mano che cresce la distanza dal centro, quindi la loro circonferenza. Che razza di visione cosmica è mai questa? Tutti abbiamo sempre saputo che al centro del cosmo di Dante c’è la terra, circondata da nove sfere celesti che ruotano via via sempre più velocemente in proporzione al loro dilatarsi verso “l’esterno” e verso l’alto, là dove al di là di tutto c’è Dio, nell’Empireo che è, se così si può dire, “fuori”, o se si preferisce “al di sopra” dei nove cieli: comunque all’estrema periferia di quel modello cosmico che illustrano, piantandolo per sempre nella mente degli studenti, i disegni immancabilmente esibiti nelle prime pagine da ogni edizione scolastica della Commedia che si rispetti. Ora invece pare che Dio sia “dentro”, e i cieli che più ardono del suo amore e della sua forza siano quelli più piccoli …

È il momento di spiegare che quel bel disegnino che tutti conosciamo e che migliaia di professori giurano essere il “cosmo tolemaico di Dante”, non va affatto preso come una descrizione reale dell’universo (da guardare con un sorrisino post-copernicano di compatimento, oltretutto, dato che di astronomia riteniamo di saperne a pacchi più di lui), bensì come un mero modello interpretativo, da adoperare quando serve, cioè finché consideriamo le cose dal nostro punto di vista terrestre, ma poi da abbandonare a favore di una visione completamente rovesciata in cui noi, coi piedi piantati nell’«aiuola che ci fa tanto feroci», non siamo affatto al centro di un bel niente ma semmai all’estrema periferia di tutto, o se si vuole quasi nel punto più basso (sotto di noi, infatti al centro della terra, c’è solo l’inferno, «l’infima lacuna de l’universo»).

La forma e la dinamica della visione che ora Dante contempla è molto più “reale” e “vera” di quella che continuiamo a spacciare come “la cosmologia dantesca”. Lui stesso di primo acchito ne resta sconcertato, tanto che Beatrice deve intervenire: «La donna mia, che mi vedëa in cura / forte sospeso, disse: “Da quel punto / depende il cielo e tutta la natura. // Mira quel cerchio che più li è congiunto; e sappi che ‘l suo muovere è sì tosto / per l’affocato amore ond’elli è punto» (vv. 40-45). La rima equivoca di «punto» tira con forza l’attenzione anche del più distratto dei lettori su quella parola, che già individuammo nel precedente commento come la vera chiave del canto. Siamo ricondotti, come si dice, al punto: quel punto che è Dio, cioè il Tutto, e che non può che essere il centro di tutto.

Dante però non è ancora convinto e vuole vederci chiaro: perché allora il mondo sensibile è fatto a rovescio, rispetto all’«ordine ch’io veggio in quelle rote?» (v. 47). Nel cosmo, infatti, le sfere celesti sono tanto più vicine a Dio e perciò tanto più veloci nel movimento – come Beatrice ha detto – quanto più sono grandi e lontane dal centro. Non si capisce dunque come mai «l’essemplo / e l’essemplare non vanno d’un modo» (vv. 55-56). È solo nell’ordine della materia, gli spiega Beatrice, che «maggior bontà vuol far maggior salute; / maggior salute maggior corpo cape» (vv. 66-67): più grandi sono i cieli, maggior quantità contengono della virtù divina che li fa muovere, e infatti il più grande di tutti, il Primo Mobile, «corrisponde / al cerchio che più ama e più sape» (vv. 71-72). Ma se dall’ordine della materia passiamo a quello dello spirito e consideriamo la forza divina in se stessa e non «la parvenza / de le sustanze che t’appaion tonde» (vv. 74-75), si vedrà che essa corrisponde mirabilmente al grado di perfezione delle intelligenze angeliche, che è tanto maggiore quanto più sono vicine al punto da cui tutto dipende. Dunque, per noi paradossalmente, sono tanto più spiritualmente grandi quanto più appaiono piccole se ci sforziamo di immaginarle materialmente come circonferenze concentriche al punto-Dio.

È un’ultima conversione dell’intelletto, una vera e propria rivoluzione cognitiva, quella che Dante ora ci chiede: per noi, che viviamo nel mondo corporeo, l’eccellenza è infatti concepibile solo come grandezza. Anche Dio, quando lo pensiamo, non sappiamo immaginarcelo se non come infinitamente grande. Ma se la rappresentazione meno inadeguata che il poeta sa trovare per descrivere Dio è un punto, non significa forse questo che dovremmo immaginarlo ancor meglio come infinitamente piccolo? E questa scoperta non “abbatterà dai troni” tutte le nostre gerarchie e scale di valori? Il Magnificat, in questa logica, non sarà il vero manifesto della rivoluzionaria metanoia a cui Dio rivelandosi ci chiama?

Questa rivelazione è come un vento impetuoso che pulisce da ogni «roffia», cioè da ogni crosta, l’orizzonte mentale di Dante, talché possiamo insieme con lui contemplare la limpida verità: «e come stella in cielo il ver si vide» (v. 87), e unirci al canto di osanna che gli angeli rivolgono «al punto fisso che li tiene a li ubi» (v. 95).

Dio? Un punto. (#Dante, Paradiso, canto XXVIII, vv. 1-21)

27 lunedì Feb 2023

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#Dante, Dio, punto, storia, Visione di Dio

Paradossi del cristianesimo: per vivere bisogna morire; per avere bisogna dare; per essere liberi bisogna servire; per essere esaltati bisogna umiliarsi; per conseguire la grandezza bisogna farsi piccoli … Anche l’immagine di Dio è paradossale.

Abbiamo atteso tanto, per vedere Dio: noi della comitiva, per esempio, camminiamo da quasi tre anni dietro a Dante; siamo passati dai pericoli e dalle brutture dell’Inferno alle fatiche del Purgatorio, e poi attraverso i rapimenti vertiginosi del Paradiso, solo per giungere finalmente a questa meta. Che è l’unica, in fondo, per tutti. «Mostraci il Padre e ci basta!» implorò un giorno l’apostolo Filippo, dando voce al più profondo e universale dei nostri bisogni (l’unico che conti veramente, in definitiva), e si sentì rispondere come sappiamo: che l’aveva già visto, Dio (senza saperlo e senza capirlo!), in quell’umile frammento di spazio e di tempo costituito dalla sua familiarità con l’uomo che gli stava di fronte, Gesù di Nazaret.

Ma come sarà quando vedremo Dio, nella maestà della Sua infinita grandezza e nello splendore della Sua luce? Come sarà Dio, visto in faccia? Questo è il “tema impossibile” svolto da Dante negli ultimi canti del Paradiso. La prima risposta, qui nel XXVIII (che sarà poi anche l’ultima, estrema e definitiva, del XXXIII), è sorprendente per noi che abbiamo ancora in mente il canto spiegato dell’esordio («La gloria di colui che tutto move / per l’universo penetra, e risplende / in una parte più e meno altrove»). Ai vv. 16-21 il poeta dice:

un punto vidi che raggiava lume
acuto sì, che ’l viso ch’elli affoca
chiuder conviensi per lo forte acume;

e quale stella par quinci più poca,
parrebbe luna, locata con esso
come stella con stella si collòca.

Un punto! Ecco tutto quello che vede Dante, prima «riguardando ne’ begli occhi / onde a pigliarmi fece Amor la corda» (vv. 11-12), cioè nello sguardo di Beatrice, e poi di lì volgendosi a contemplare direttamente «ciò che pare in quel volume, / quandunque nel suo giro ben s’adocchi» (vv. 14-15). Tutto ciò che quel cielo immenso, il volume che contiene tutto il cosmo, squaderna alla vista di colui che lo perlustra in tutta la sua orbita, è concentrato ora in un punto di luce così intensa che la vista ne è bruciata e gli occhi decono chiudersi perché non lo sostengono. Una visione, dunque, che si tramuta immediatamente in cecità; ed una luce così intensa da diventare, paradossalmente, quasi impercettibile, talché la stella più piccola del firmamento, quella che quasi non si vede tanto è remota, parrebbe una luna al suo confronto.

Il «geometra» – (inteso non come il tecnico che fa le pratiche al catasto, ma come il discepolo di Euclide: una figura che significativamente incontreremo nell’ultimo canto del Paradiso) – riconosce nel punto un ente primitivo della propria scienza: spazio senza dimensioni, perciò non divisibile, non misurabile, non descrivibile. Se ha abbastanza senso religioso, pensando al punto egli piegherà le ginocchia e si metterà a meditarlo con devota ammirazione. Sarà per lui come l’ostia nel tabernacolo.

«Punto» è parola chiave in questo canto. Della quarantina di occorrenze che la parola, intesa come sostantivo, ha nell’intera Commedia, ben cinque si trovano qui. Non per caso (nulla è per caso, nel poema). Un’altra occorrenza, molto significativa, la troveremo nel canto XXXIII, a ulteriore conferma del legame tra i due canti. Vedremo. Intanto veneriamo anche noi, come geometri, quel puntolino quasi invisibile, dotato di una luce così intensa da risultare impercettibile ai nostri poveri occhi, in cui si rivolve la prima apparizione del volto di Dio.

Stiamo attenti, però: questo “fissare il punto”, in Dante, non è una forma traslata di onfaloscopia, cioè di contemplazione dell’ombelico che, come in certe pratiche orientali, astragga dal dramma della vita reale, dalla storia con tutti i suoi “punti discriminanti”. Se torniamo a scorrere l’elenco delle occorrenze di punto nel testo dantesco scopriamo infatti che «punto» compare la prima volta in Inf. I, v.11, a segnalare il momento critico di resa allo smarrimento che conduce l’uomo fuori strada («tant’era pieno di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai»); la seconda volta in Inf. II, v.51, per indicare un altro frangente decisivo, quello in cui Virgilio viene riscosso dall’immobile sospensione del Limbo per accorrere in soccorso di Dante («nel primo punto che di te mi dolve. // Io era tra color che son sospesi / e donna mi chiamò beata e bella …); e la terza volta – la più importante di tutte, come notò forse per primo Contini – il «punto» è nel discorso di Francesca, in un verso famoso la cui densità di significato ci si rivela soltanto ora (e che vedremo ripreso allusivamente anche nel canto XXX): «ma solo un punto fu quel che ci vinse» (V, 132). Il punto è il qui-e-ora in cui tutto lo spazio e il tempo del mondo e della storia si concentrano nell’urgenza di una decisione della libertà. Come scrive Contini, «il punto, sia esso spaziale o temporale o tematico, vince o supera, risponde a un rischio o cimento supremo nel soggetto, discrimine che sancisce la vera identità del vocabolo. […] Dall’occasione di tanto peccato alla visione divina, quale abisso e quale preterintenzionalità di parentela!» (Un esempio di poesia dantesca. Il canto XXVIII del Paradiso, in Un’idea di Dante, Torino 1976, p. 206).

Un punto, il punto: quello in cui, ogni momento, decidi della tua vita. E lì c’è Dio. (Oppure no).

Gli Angeli! (#Dante, Paradiso, canti XXVIII-XXIX, a mo’ di introduzione)

22 mercoledì Feb 2023

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#Dante, angeli

Due interi canti il nostro maestro dedica agli Angeli, in questo cielo che non è nemmeno più un cielo; misteriosa giuntura tra l’Empireo – il coelum Trinitatis dove sta Dio (e che non è nemmeno un dove, perché lo spazio-tempo vi è trasceso e come annullato) – e i cieli veri e propri, che sono sì abissalmente diversi dalla terra, ma dove c’è ancora spazio, tempo e movimento.

Per una volta, noi moderni non troviamo affatto strana la scelta dantesca: gli angeli, infatti, ci piacciono. Essi ci interessano molto, ci attraggono, ci affascinano; forse ci inquietano, o quanto meno ci incuriosiscono. Per quanto affogati nel grasso della nostra stupidità, neppure noi possiamo ridurre la percezione della realtà alla sola materia. È così evidente che la “sola materia” non esiste, non potrebbe esistere, che un materialismo rigoroso (dialettico o meno) può sopravvivere, nella concezione umana, solo con un grande sforzo di ottusità (e grandi mangiate e bevute); uno sforzo che la nostra mente è ben difficilmente in grado di sostenere a lungo. Non di notte, in ogni caso, quando ci si sveglia di soprassalto e nella casa silenziosa, sotto forma di sogni o ricordi o presentimenti o altre arcane percezioni, si fanno presenti a noi delle presenze che solo la piatta luce del giorno e la coltre delle abitudini potrà dissipare. Non in certi frangenti dell’esistenza, quando la superficie che l’avvolge – tegumento, carta stagnola o domopak che sia – crepa e dalle ferite, o attorno ad esse, ricompaiono, per consolare o per tormentare, delle ombre … “presenze”, in ogni caso. Non quando la morte si avvicina …

Espulso violentemente Dio dal nostro orizzonte, siamo perciò più che disposti a credere che il nostro vuoto si riempia di figure, di spiriti che volentieri chiamiamo angeli, e a cui diamo più facilmente udienza perché li troviamo meno insopportabili di Colui che abbiamo dichiarato morto (tremendo era il suo Volto, e il suo Fuoco bruciava troppo). I più acuti tra noi convengono sulla loro necessità, come dice un poeta che – per una volta, in questa sede di “monoteismo dantesco”, voglio citare per esteso:

Io sono l’Angelo della realtà,
intravisto un istante sulla soglia.
Non ho ala di cenere, né di oro stinto,
né tepore d’aureola mi riscalda.
Non mi seguono stelle in corteo,
in me racchiudo l’essere e il conoscere.
Sono uno come voi, e ciò che sono e so
per me come per voi è la stessa cosa.
Eppure, io sono l’Angelo necessario della terra,
poiché chi vede me vede di nuovo
la terra, libera dai ceppi della mente, dura,
caparbia, e chi ascolta me ne ascolta il canto
monotono levarsi in liquide lentezze e affiorare
in sillabe d’acqua; come un significato
che si cerchi per ripetizioni, approssimando.
O forse io sono soltanto una figura a metà,
intravista un istante, un’invenzione della mente,
un’apparizione tanto lieve all’apparenza
che basta ch’io volga le spalle,
ed eccomi presto, troppo presto, scomparso?

(Wallace Stevens, L’angelo necessario)

Non è questo il luogo per tracciare un profilo dell’angelologia dell’Otto-Novecento (né io sarei in grado di farlo: eventualmente i colti lettori di questo piccolo blog potranno aggiungere, se lo vorranno, molto di più e di meglio in proposito). Mi limito a sottolinearne un tratto: gli angeli di cui ci interessiamo, quelli che tanto ci intrigano, sono di regola “angeli-per-noi”; esseri che immaginiamo soprattutto intenti ad osservarci, a parlarci forse, quando non addirittura affacendati a servirci. Magari attratti dalle nostre vite carnali, povere sì ma palpitanti di una vita che a loro sfugge, un po’ come si vede nel Cielo sopra Berlino di Wim Wenders.

Non di questo genere, se vogliamo, ma comunque dediti agli uomini sono stati anche gli Angeli della Commedia, finché eravamo nel Purgatorio: espressioni della cura di Dio per noi, “angeli custodi” in definitiva. (Anche il primo che vedemmo ancora all’Inferno, il Messo celeste del canto IX, era sì sovranamente indifferente nei confronti di Virgilio e Dante, ma in fin dei conti era venuto laggiù proprio per loro).

Ecco, tutto questo va benissimo, ma ora ce lo dobbiamo lasciare alle spalle: ora gli Angeli li contempliamo “in se stessi”, non “per noi”, il che vuol dire che li contempliamo “in Dio e per Dio”, nel loro rapporto di comunione con Dio. Veramente Angeli!

Ultima occhiata alla terra e un pensiero rivolto ai bambini. (Che ne sarà di loro?). [#Dante, Paradiso, canto XXVII, vv. 79-135)

17 venerdì Feb 2023

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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#Dante, bambini, Beatrice, Cielo e terra, infanzia

A dire il vero, io «l’ultimo sguardo» alla terra l’avevo già annunciato, sbagliando, qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2022/11/16/ultimo-sguardo-alla-terra-laiuola-che-ci-fa-tanto-feroci-dante-paradiso-canto-xxii-vv-106-154/. Dei bravi studenti di liceo mi avrebbero dovuto infilzare allora, ma io penso che i soci della comitiva dantesca abbiano avuto compassione della mia smemoratezza senile. Dei bravi bambini di scuola elementare, invece, avrebbero potuto reagire come fecero gli scolari di un mio amico, che il maestro in gioventù lo fece davvero e che una volta mi raccontò come, essendogli capitato un giorno di dire una castroneria su non so quale argomento, si sentì dire dai suoi bambini: «Maestro, il libro è sbagliato!», perché nel sussidiario avevano trovato che quella certa cosa stava diversamente. Meraviglia! (Tra un attimo si capirà perché evochiamo i bambini).

Il vero ultimo sguardo alla terra è qui, mentre stiamo per congedarci dal cielo delle stelle fisse, l’ultimo cielo materiale, l’ultimo luogo in cui siamo ancora nel regno della fisica, per quanto di una fisica “sopralunare” ben diversa da quella a cui siamo abituati quaggiù, ed anche superiore a quella di tutti gli altri cielo, come già notammo. Questa estrema e conclusiva occhiata dall’alto ci viene proposta dal poeta in studiatissima corrispondenza con quell’altro sguardo, che invece aveva aperto la lunga sezione dedicata all’ottavo cielo: perché non sfugga nemmeno al lettore più distratto il testo offre, come gancio a cui appendere la memoria, l’occorrenza di una parola-chiave, quell’«aiuola» che al v. 151 del canto XXII «ci fa tanto feroci» e qui, al v. 86 fa capolino quasi di sfuggita: «E più mi fora discoverto il sito / di questa aiuola; ma il sol procedea / sotto i mie’ piedi un segno e più partito» (vv. 85-87).

Ci siamo spostati, nel frattempo: «Da l’ora ch’io avea guardato prima / i’ vidi mosso me per tutto l’arco / che fa dal mezzo al fine il primo clima» (vv. 79-81) – cioè una distanza che sulla terra corrisponde a quella che c’è tra il centro del cosidddetto “primo clima” (il meridiano di Gerusalemme) alla sua estremità occidentale (Cadice) – «sì ch’io vedea di là da Gade il varco / folle d’Ulisse,» – ecco un altro bell’arpione gettato nella mente del lettore! – «e di qua presso il lito / nel qual si fece Europa dolce carco» (vv. 82-84). Tutto qui, ma basta e avanza, a uno come Dante, per dirci con estrema parsimonia di mezzi ciò che conta: quel modo così succinto di definire il mondo, attraverso l’allusione a due miti di bramosia – folle brama di conoscere l’inconoscibile in Ulisse, brama di carne femminile nel ratto di una fanciulla presa con la forza mentre raccoglieva fiori sulla coste della Fenicia e portata ad occidente da uno Zeus taurino e come sempre infoiato – pe riprendere quel concetto che già aveva incastonato come una gemma nell’altro verso che ci aveva tanto colpito: «l’aiuola che ci fa tanto feroci».

L’aiuola, appunto: quassù, nel più alto dei cieli, Dante non sa che farsene delle cupidigie mondane, carnali, terrene che occupano e soffocano tutti quanti quaggiù, singoli uomini e donne, popoli, regni ed imperi. Qui c’è Beatrice! nel cui volto risplende infinitamente di più di tutto quello che il mondo contiene di bello e di desiderabile, e quindi lui non vuole altro che guardare lei, mentre sale dall’ottavo al Primo Mobile: «La mente innamorata, che donnea / con la mia donna sempre, di ridure / ad essa li occhi più che mai ardea; // e se natura o arte fé pasture / da pigliare occhi, per aver la mente, / in carne umana o ne le sue pitture // tutte adunate, parrebber nïente / ver’ lo piacer divin che mi rifulse, / quando mi volsi al suo viso ridente» (vv. 88-96). Se qualcuno di noi, per sua particolare insensibilità verso la poesia d’amore, fosse rimasto indifferente alla bellezza di questi versi, non potrà resistere alla potenza della terzina con cui poco dopo viene introdoto il discorso di Beatrice sulla natura del nono cielo: «Ma ella, che vedëa ‘l mio disire, / incominciò, ridendo tanto lieta, / che Dio parea nel suo volto gioire» (vv. 103-105).

Secondo lo schema alternato che regge questo canto, di nuovo dopo la contemplazione del Cielo, viene il sofferto rimprovero per i mali della terra. Ma rispetto all’invettiva di Pietro che aveva dominato la prima parte, la seconda si chiude su un tono diverso, che non è di indignazione quanto piuttosto di sconsolata amarezza e quasi di commiserazione per l’impotenza degli uomini:

Oh cupidigia, che i mortali affonde
sì sotto te, che nessuno ha podere
di trarre li occhi fuor de le tue onde!

Ben fiorisce ne li uomini il volere;
ma la pioggia continüa converte
in bozzacchioni le sosine vere.

Lo sconforto si decompone e, per così dire si disfa in una malinconia struggente al pensiero dei bambini, che sono protagonisti dell’ultima fotografia che Dante scatta al mondo terreno. I bambini! Che di tutto il nostro male, di tutta la nostra miseria morale e del nostro schifo sono le prime vittime e i predestinati continuatori:

Fede e innocenza son reperte
solo ne’ parvoletti; poi ciascuna
pria fugge che le guance sian coperte.

Tale, balbuzïendo ancor, digiuna,
che poi divora, con la lingua sciolta,
qualunque cibo per qualunque luna;

e tal, balbuzïendo, ama e ascolta
la madre sua, che, con loquela intera,
disïa poi di vederla sepolta.

Tutti noi, purtroppo, abbiamo nella mente l’immagine torva e pazza del criminale che ha ucciso, offeso, ingannato o violato la madre; tutti abbiamo visto le foto di qualcuno di quei “mostri” e ci siamo detti: anche lui è stato un bambino. Ancor di più, tutti noi conosciamo tanti bambini “bellissimi” che sono poi divenuti mediocri o “brutti” adulti e ci chiediamo come sia stato possibile, chi sia stato a ridurli così, che ne sia stato della loro grazia divina …

Poscritto personale. Uno dei punti luminosi della mia giornata è quando vado a prendere a scuola e all’asilo i miei nipotini. La maggior dose di bellezza, ora, è dalla parte di Marco, che ha quattro anni e mezzo e fa ancora l’asilo, per quanto ci sia ancora un po’ di santa infanzia anche nella terza elementare della Monica. Ma l’asilo è impagabile: io, per qualche misteriosa ragione, in genere sono abbastanza popolare tra i bambini: quando arrivo mi vengono incontro, mi sorridono, “Marco c’è il tuo nonno!”, lui mi abbraccia, poi eseguiamo uno scrupoloso controllo per esser certi di avere tutto quello che serve per tornare a casa: guai a dimenticare anche una sola delle molte cose che si è portato dietro o che gli hanno dato a scuola! Poi si va a prendere la sorella, e lì il problema è scrostarla dalle amiche con cui vorrebbe continuare a correre e giocare nel cortile della scuola. Le richieste del nonno valgono quanto certe note diplomatiche, anche perché la piccola ne conosce l’arrendevolezza. Marco commenta: “la dada non dà retta”. Quando siamo riusciti a convincerla e li ho caricati in macchina, c’è da risolvere l’altro problema dell’allacciamento della cintura del seggiolino, che Marco vuole fare rigorosamente da solo, poi possiamo partire e peccato che il viaggio da scuola a casa duri così poco, perché è una goduria: di solito la Monica chiede una storia, ma non c’è mai il tempo di finirla, così le racconto a pezzi, ieri avevo iniziato il racconto di Ulisse e Polifemo e Marco ne ha detta una delle sue, che purtroppo non sono riuscito a memorizzare esattamente, ma pressappoco era così: “A me piaccono le storie da grandi, che si imparano tante cose”.

Mentre mi prendo il mio pezzetto di piccolo paradiso quotidiano (la mia parte di ricchezza, direbbe un altro poeta, ma è ben più dell’odore dei limoni), mi chiedo però quanto ancora durerà; che ne sarà di loro? e dei loro amici, che ne sarà?

L’ira di Pietro sul suo successore: un monito contro il papismo. (#Dante, Paradiso, canto XXVII, vv. 22-66)

11 sabato Feb 2023

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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#Dante, Bonifacio VIII, corruzione nella chiesa, munus petrino, papa

Dante tiene unite due cose che noi tendiamo sempre a separare: la contemplazione del Cielo e lo sguardo sulla terra. Lui ci vede bene, noi siamo strabici: se guardiamo il Cielo, pensiamo di doverci dimenticare la terra; la terra così com’è, piena di lacrime, merda e sangue. Se guardiamo la terra – intendo se la guardiamo seriamente – ne restiamo così impressionati da temere (o da pensare) che essa neghi l’esistenza stessa del Cielo. Per questo motivo la maggior parte di noi, ormai, non guarda più né la terra né il Cielo, ma si limita a vagare con gli occhi qua e là, senza posarli su nulla di reale: una volta si guardavano le vetrine; ora che anche quelle stanno scomparendo, si abbassa lo sguardo sullo smartphone, illudendosi che lì ci sia vita.

Dante, invece, contempla il Cielo senza mai dimenticare la terra e per tutto il poema guarda intensamente la terra – «poeta del mondo terreno» lo definì definitivamente Auerbach – con la memoria viva del Cielo nella sua mente. Per questo la Commedia, come si usa dire, è veramente “il mondo terreno sub specie aeternitatis”. Qui, nel canto XXVII, l’intreccio dei due temi, o piuttosto dei due poli, è determinante e forma la struttura stessa della composizione. Dall’adorazione del Gloria iniziale, passiamo immediatamente alla denuncia, anzi all’invettiva contro “il male del male” della terra, cioè la corruzione della chiesa.

Flannery O’ Connor una volta ha scritto: «Credo che la Chiesa sia l’unica cosa che renderà sopportabile il mondo terribile verso il quale ci stiamo avviando; l’unica cosa che rende sopportabile la Chiesa è che, in qualche modo, è il Corpo di Cristo e di questo siamo nutriti. […] Se si crede nella divinità di Cristo si deve aver caro il mondo nello stesso momento in cui si lotta per sopportarlo». Ecco perché la corruzione nella chiesa (e della chiesa, in una certa misura) è “il male del male”, la cosa peggiore in assoluto – per quanto orribili siano le cose del mondo. Perché a rimedio, o antidoto, delle insopportabili brutture del mondo c’è appunto la chiesa: ma se l’antidoto diventa anch’esso veleno (o il sale diventa scipito, che è un altro modo di dire la stessa cosa), che cosa ci resta?

Dunque, qui nel cielo delle stelle fisse, dopo quel Gloria trionfale che ci è appena dilagato nel cuore, la luce di Pietro ad un tratto si fa rossa rossa e tutti i cori angelici tacciono d’improvviso, come ammutoliti di fronte all’ira del principe degli apostoli, che rivolto a Dante parla così (vv. 22-27):

Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo mio che vaca
ne la presenza del Figliuol di Dio,


fatt’ ha del cimitero mio cloaca
del sangue e de la puzza; onde ’l perverso
che cadde di qua sù, là giù si placa.

L’usurpatore è inequivocabilmente Bonifacio VIII, papa regnante nel 1300 quando si immagina che queste parole vengano pronunciate, ma per favore non scambiamo Dante per uno di quei sedevacantisti da strapazzo che oggi sono in circolazione. Dante non ha alcun dubbio sulla legittimità formale del pontificato di Bonifacio, né gli interessa metterla in discussione: cosa ne pensi del papa in quanto papa (anche di Benedetto Caetani!) lo ha detto magnificamente nel canto XX del Purgatorio (che noi sbrigammo un po’ alla bersagliera qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2021/06/17/il-canto-della-cupidigia-dante-purgatorio-canto-xx-un-po-alla-svelta/): «veggio in Alagna intrar lo fiordaliso, / e nel vicario suo Cristo esser catto. // Veggiolo un’altra volta esser deriso; / veggio rinovellar l’aceto e ‘l fiele, / e tra vivi ladroni esser anciso» (vv. 86-90). Il papa percosso, in quanto papa, dal re di Francia è come Cristo in croce.

Il punto qui non è appena, come tanti commentatori ripetono, il personale risentimento di Dante contro un papa che gli aveva rovinato la vita. Le parole che fa pronunciare a Pietro sono molto più profonde e più terribili delle chiacchiere di certi blog antipapisti di oggi, perché spalancano alla possibilità – tremenda ma reale – che il papa, se è un cattivo papa, svolga una funzione oggettivamente “anticristica” (e l’accenno, rabbrividente, al «perverso» caduto dal cielo che «là giù si placa» è eloquente a questo proposito). Se succede questo, se la corruzione prende il sopravvento nella chiesa, essa diventa peggiore del mondo: sangue e merda, come sopra abbiamo detto, parafrasando semplicemente il dettato dantesco: «cloaca / del sangue e de la puzza».

Il papa è tale in quanto è il successore di Pietro, investito della funzione di adempiere al mandato petrino di «confermare nella fede» i suoi fratelli (Lc 22,32). Il cattivo papa che fa altro da questo «usurpa» – dice il Pietro dantesco – «il luogo mio / il luogo mio, il luogo mio». Prendiamo sul serio questa triplice anafora, che non è soltanto il riverbero stilistico-retorico dell’apostolica incazzatura, ma indica un punto sostanziale: il luogo è mio, dice san Pietro, ossia il mandato è petrino e basta. Non nel senso in cui anche gli ortodossi e certi protestanti sono disposti ad ammettere un primato di Pietro che però finisce con lui e non si trasmette ai vescovi di Roma, bensì nel senso che ciò che si trasmette è quel mandato e nient’altro. Non esiste un mandato di Cristo a Bonifacio o a qualunque altro dei duecentosessanta e rotti papi pro tempore della storia. Il mandato è solo uno, quello dato a Pietro. E quel mandato non è un potere conferito al papa: a Pietro, infatti, Gesù dice esplcitamente che la sua funzione di pascere le pecore si esercita in una assoluta obbedienza, espressa addirittura nella forma di un essere legato: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi» (Gv 21, 17-18).

Sono i papi come Bonifacio a pensare di avere le mani libere, come si è visto splendidamente nell’altro episodio dantesco che lo riguarda: ricordate il canto di Guido da Montefeltro (Inf. XXVII: toh, come questo!)? Ricordate la disinvoltura di quel papa furbissimo nel maneggiare le “sacre chiavi” che quel fesso del suo predecessore aveva ceduto?

Lo ciel poss’io serrare e diserrare,
come tu sai; però son due le chiavi
che ’l mio antecessor non ebbe care
.

Il papa non può fare quello che vuole, e sono cattivi cattolici quelli che glielo lasciano credere. Quando il papa pensa e si comporta così è un anti-papa, senza bisogno di essere un antipapa. E i fedeli che pensano che “il papa può fare quello che vuole” perché è Dio che l’ha messo lì per questo, saranno buoni papisti ma sono cattivi cattolici. Detto questo, che mi pare sia il cuore di tutta la faccenda, ci resta solo da aggiungere un’altra annotazione: nei versi che sopra abbiamo riportato il terzo membro dell’anafora sfocia in un’espressione densa, oscura e sfidante: «il luogo mio che vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio» (vv. 23-24). Che significa? Solo che la sede petrina è di fatto “vacante” al cospetto di Cristo, anche quando formalmente un papa regnante c’è, quando colui che esercita l’ufficio ne è indegno – così come abitualmente il verso viene spiegato dai commentatori (anche la nostra maestra, Annamaria Chiavacci Leonardi, intende così) – o c’è dell’altro? Me lo chiedo perché a me pare che l’espressione dantesca contenga una voluta, e molto significativa contraddizione: il «luogo mio», dice Pietro, cioè il munus che è mio (e solo mio) in quanto mi è stato affidato da Cristo e che io come tale, nella sua irripetibile unicità consegno ai miei successori, è al tempo stesso un pieno e un vuoto. “Vicario di Cristo”: si mediti sulla precaria ambiguità di questa espressione! “Vicario” è colui che fa le veci, è in tutto e per tutto, agli effetti pratici, come colui che rappresenta: avere lui o il suo vicario è la stessa identica cosa. In questo senso, però, può veramente darsi un “vicario” di Cristo o il papa può esserlo solo in un modo del tutto sui generis, in cui il pieno del mandato (compito di ammaestrare tutte le nazioni e autorità di sciogliere e di legare!) coesiste con il vuoto di una distanza che resta abissale ed incolmabile tra il Maestro e i discepoli, il Figlio unigenito e i figli di adozione, Dio e gli uomini? È possibile che proprio a questo alluda lo stupendo ossimoro «vaca / ne la presenza»?

A questo punto, seguiamo pure con muta attenzione il resto della sfuriata (non vi è certo da mangiare il popcorn), assaporando come Pietro – cioè come in nome suo il laico battezzato Dante Alighieri, devoto cattolico – sa parlare al papa (e con lui ai cardinali, vescovi e preti che lo attorniano):

Non fu la sposa di Cristo allevata
del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto,
per essere ad acquisto d’oro usata;

ma per acquisto d’esto viver lieto
e Sisto e Pïo e Calisto e Urbano
sparser lo sangue dopo molto fleto.

Non fu nostra intenzion ch’a destra mano
d’i nostri successor parte sedesse,
parte da l’altra del popol cristiano;

né che le chiavi che mi fuor concesse,
divenisser signaculo in vessillo
che contra battezzati combattesse;

né ch’io fossi figura di sigillo
a privilegi venduti e mendaci,
ond’ io sovente arrosso e disfavillo.

In vesta di pastor lupi rapaci
si veggion di qua sù per tutti i paschi:
o difesa di Dio, perché pur giaci?

Da un predica così si uscirebbe con le ossa rotte e il morale sotto i piedi, se non fosse per la promessa finale: «Ma l’alta provedenza […] soccorrà tosto» (vv. 61.63). Quanto a Dante, sa già qual è il suo compito ma per sicurezza qui gli viene ribadito: «apri la bocca, / e non asconder quel ch’io non ascondo» (vv. 65-66). Oportet ut scandala eveniant.

«Un riso / de l’universo» (#Dante, Paradiso, canto XXVII, vv. 1-9).

05 domenica Feb 2023

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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#Dante, Bellezza, Mistero, universo

’Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo’,
cominciò, ’gloria!’, tutto ’l paradiso,
sì che m’inebrïava il dolce canto.

Sono sempre più in difficoltà, mentre ci inoltriamo sempre più nella luce abbagliante del Mistero di questo supremo tratto del Paradiso dantesco. Vorrei stare zitto: dovrei stare zitto. Ascoltare soltanto, in silenzio, e contemplare le parole scritte sulla pagina bianca, come se fosse un’ostensorio.

Se seguissi la mia voglia, mi fermerei qui. Penso però di non poterlo fare, perché ho preso un impegno: la mia mamma, come tutte le mamme di allora, diceva che quel che è nel piatto si deve finire, e nostro Signore Gesù Cristo nel vangelo ci ammonisce a non fare come quel tale che cominciò una costruzione (forse col superbonus del 110%) e poi la lasciò incompiuta: «Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro!» (Lc 14, 30). Quindi andiamo pure avanti, e chi mi legge compatisca e perdoni le lacune sempre più evidenti, la miseria sempre più risibile delle poche note di viaggio che riesco a dettare.

La prima è, appunto, che ora è proprio come se fossimo entrati in chiesa a fare l’adorazione: l’analogia sembrerà forse eccessiva a qualcuno, ma non so trovare di meglio. Ammesso e non concesso che finora ci si potesse aggirare nelle navate della cattedrale che è la Commedia soltanto col rispetto di visitatori consapevoli del luogo sacro in cui sono, ora non basta: nel tempio si sta celebrando la divina liturgia. Occorre pregare. Ascoltiamo dunque questo Gloria, inebriamoci pure del suo dolce canto, sentendo risuonare in esso tutte le bellezze dei più bei Gloria che la musica sacra dell’Europa cristiana ha generato – nel corso dei secoli in cui c’è stata una musica sacra. Il mio preferito è forse questo (altri diranno la loro scelta):

Però soprattutto pensiamo che l’essenza di quella Bellezza c’è tutta in ogni Gloria che diciamo, anche nel più “feriale”, veloce e distratto che esce dalle nostre labbra come una formula ripetuta quasi meccanicamente. La Bellezza è tutta lì, nelle parole “Gloria al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo” (di cui quel che segue è già una meditazione: “com’era nel principio, ora e sempre, nei secoli dei secoli. Amen”), solo che noi non la vediamo più. La terzina dantesca ci rieduca a scorgere quella Bellezza onnipresente e nascosta. Ma c’è un punto verso il quale indirizzare lo sguardo:

Ciò ch’io vedeva mi sembiava un riso
de l’universo; per che mia ebbrezza
intrava per l’udire e per lo viso.

Ho detto che è come se fossimo entrati in chiesa ad adorare il Santissimo, e quando si adora non c’è niente da fare: né pensieri da articolare, né sentimenti o emozioni da spremere. C’è solo da starci. Stare alla Presenza di Dio, che è tutto in tutto. Ma a noi, in quanto uomini, è totalmente preclusa la visione della totalità. Sempre noi vediamo solo qualcosa; sempre guardiamo un particolare, fissiamo gli occhi, la mente e il cuore su un punto. Anche i panorami più vasti, le visioni che noi diciamo “cosmiche” (il cielo stellato sopra di me, le distese a perdita d’occhio del mare o dei deserti, le vette irragiungibili) sono solo figure, pallidi indizi di una totalità infinita che inesorabilmente ci sfugge). Eppure, a volte, ne abbiamo come un presentimento più vicino; e allora usciamo da noi stessi (è l’ebbrezza di cui parla il poeta), andiamo, come si dice, “in estasi”.

«Ciò ch’io vedeva mi sembiava un riso / de l’universo»: l’espressione è di un’intensità poetica quasi insopportabile, ma se riusciamo a non farcene travolgere e restiamo abbastanza lucidi, possiamo cogliere un indizio preziosissimo che Dante ci fornisce, e che più tardi nel canto riprenderà: la via che ci porta al Tutto non consiste in un allargamento della visione – a noi strutturalmente impossibile – con la pretesa di abbracciare ogni cosa, bensì nella concentrazione del fuoco su un punto. Un punto che è un volto. Dante ci dice di aver visto «un riso / de l’universo», e «riso», nella sua lingua, vuol dire anche questo: non solo luce, festa, gioia, splendore … ma un viso che “porta” ed esprime tutto ciò. Ricordate il «disiato riso» baciato da Lancillotto in Inf. V, 133 e vagheggiato da Francesca? E cosa si fa, quando si è colpiti da una visione come questa?

Oh gioia! oh ineffabile allegrezza!
oh vita intègra d’amore e di pace!
oh sanza brama sicura ricchezza!

Sopraffatti dalla gioia, la sintassi del discorso teologico e la semantica dei concetti ci si destrutturano, e quasi si sciolgono nel grado più prossimo allo zero che la lingua umana conosca, che è quello della mera esclamazione. È il livello più vicino allo stupore degli infanti (quell’oh ripetuto senza vergogna quattro volte in tre versi), e al silenzio dei mistici.

Dante, la lingua perfetta e l’abbandono del culto della parola. (#Dante, Paradiso, canto XXVI, vv. 124-138)

28 sabato Gen 2023

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi, Senza categoria

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#Dante, lingua, parola, poesia

Nel precedente pezzo sul canto XXVI (qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2023/01/21/adamo-nostro-padre-dante-paradiso-canto-xxvi-vv-67-123-139-142/) avevamo lasciato indietro la terza risposta di Adamo alle domande di Dante, quella relativa alla lingua primordiale, un po’ per non farla troppo lunga e un po’ perché si tratta di una questione complessa, di cui io so giusto quel poco che mi permette di capire che non ne so abbastanza. Per chi volesse approfondire un po’ l’argomento c’è, come sempre, la voce Adamo dell’Enciclepedia Dantesca, curata per la parte che riguarda la lingua da Piervincenzo Mengaldo e consultabile online (sia benedetto Internet!) qui: https://www.treccani.it/enciclopedia/adamo_%28Enciclopedia-Dantesca%29/. Facilmente accessibile e scritto in modo chiaro e scorrevole è anche un libro di Umberto Eco, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, che ha un capitolo dedicato a Dante.

Noi qui, però, siamo alla scuola elementare e quindi stiamo all’essenziale. Che lingua parlava Adamo? Adamo che dava i nomi a tutti gli esseri viventi e «in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome» (Gen 2, 19), e se diceva che il gatto si chiama gatto e il cane cane, anche Dio si adeguava e lo chiamava così! Adamo che, quando Dio «passeggiava nel giardino alla brezza del giorno» (Gen 3, 8) gli parlava a tu per tu, senza interprete, e si capivano perfettamente perché parlavano la stessa lingua … e invece dopo la cacciata dall’Eden le comunicazioni sono sempre state difficili, precarie e continuamente disturbate; il segnale non arriva o arriva debole, e hai voglia a spostarti un po’ più in là perché “qui non c’è campo”, hai voglia a dotarti dell’ultimo costoso modello di telefono; e poi, anche quando sembra che Dio parli non si capisce mai bene che cosa voglia dire, parla un’altra lingua, e ci vogliono gli interpreti (preti, aruspici, profeti, teologi sapienti, ma anche una folla di visionari, indovini e imbroglioni e così via), e vatti a fidare … Un disastro, insomma, almeno finché Dio non venne di persona, nella persona del suo Figlio, e parlò semplice, chiaro, alla portata di tutti. Ma anche dopo di allora i problemi non sono finiti, perché in che lingua parlò nostro Signore? In aramaico? E che ne sappiamo di ciò che disse propriamente e come lo disse? Non c’era mica il registratore (come disse quel tale). I resoconti che ci restano sono in greco, e si sa che tradurre è un po’ tradire, poi c’è stato il latino, ora quelle parole le leggiamo chi in una lingua e chi nell’altra, e ci sembra che non sia mai proprio la stessa cosa, a seconda di come si intende e di come si traduce … (ricordate per esempio quanto ci siamo arrabattati, di recente, col Padre Nostro?). Con le lingue che abbiamo sembra sempre che non arriviamo a toccare l’essenziale, il fondo della questione, il cuore del problema, l’essenza della realtà.

Ah, la lingua perfetta, quella di Adamo; quella condivisa con Dio e perciò eterna, immutabile, totalmente aderente alla realtà, senza difetti, senza lacune, senza ambiguità né oscurità. La lingua che afferra, possiede, illumina di senso tutte le cose. Lingua del Signore e lingua della signoria dell’uomo sul cosmo. Lingua che, se la ritrovassimo …

Ecco, la notizia è che quella lingua non c’è. Non esiste, non c’è mai stata. Qui si compie una rivoluzione concettuale per Dante, il quale in precedenza, quando aveva scritto il De vulgari eloquentia, non la pensava così. Come spiega bene la succitata voce della ED: «la differenza più sensibile tra la posizione dichiarata nel De vulgari Eloquentia e quella successiva del poema consiste in questo: nel trattato latino la lingua è fatta da Dio ed è concreata con l’anima “quanto ai vocaboli coi quali eran designate le cose, quanto alla costruzione delle parole e perfino quanto al modo di proferire il discorso” (Nardi), e tale doveva mantenersi sempre, prima e dopo la torre di Babele; nel poema, invece, la lingua parlata da A. era creazione sua, cioè opera naturale, e quindi come tale soggetta alla legge della mutabilità».

«La lingua ch’io parlai fu tutta spenta / innanzi che a l’ovra inconsummabile / fosse la gente di Nembròt attenta» (vv. 124-138) – dunque ben prima della Torre di Babele, quel monumento dell’umana superbia destinato a ergersi perenne a conquista del cielo (noi diremmo “inconsumabile”, fraintendendo l’aggettivo che Dante impiega invece per bollare la vanità di un’opera che non si porta mai a termine) – e si è spenta perché era un’opera umana, mutevole e peribile come ogni altro prodotto delle nostre mani.

«Opera naturale è ch’uom favella; / ma così o così, natura lascia / per fare a voi secondo che v’abbella» (vv. 130-132): è naturale, cioè frutto dell’impronta divina sulla creazione, che l’uomo abbia la parola, il logos che lo connette al Logos, ma le parole, cioè i diversi linguaggi sono convenzionali, farina del sacco di ciascun parlante (siamo, come si vede, a un passo dalla nozione di arbitrarietà della lingua quasi sei secoli prima di Saussure). Anche Dio, come si chiama? «Pria ch’i’ scendessi a l’infernale ambascia, / I s’appellava in terra il sommo bene / onde vien la letizia che mi fascia; // e El si dichiarò poi: e ciò convene, / ché l’uso d’i mortali è come fronda / in ramo, che sen va e altra vene» (vv. 133-138).

C’è qui, a mio avviso, una poderosa liberazione da ogni idolatria della parola, una salutare e realistica presa di distanza da un abbaglio che noi uomini amiamo tanto prendere (e forse i poeti sono ancor più tentati degli altri a gettarsi in questo inganno): possiamo anche accettare di essere come «d’autunno / sugli alberi / le foglie», ma vogliamo disperatamente che almeno la nostra parola, la parola poetica, duri: «non omnis moriar» disse quel tale, convinto di aver edificato un «munumentum aere perennius». Tanto più significativo, quindi, che la base di tale monumento sia minata qui proprio da un poeta. Ma che dico? Dal poeta. Dal più grande dei poeti.

Beninteso, Dante qui non ci vuole affatto portare al nominalismo scetticamente rassegnato del nomina nuda tenemus che l’erudito sopra menzionato rubò ad un autore medievale per metterlo in esergo ad un suo fortunato romanzo e che da allora tutti conoscono. Le parole sono preziose, e chi meglio di lui lo sa e lo dimostra!; sono la cosa più preziosa – e, in un certo senso, sacra – che abbiamo. Ma sono le nostre. Non sono Dio. Attenzione dunque, a praticarne il culto. Si finirà per credere, sotto sotto e magari con più ipocrisia, quello che un altro, impudente quant’altri mai, ebbe la coraggiosa sfrontatezza di scrivere, nero su bianco: «divina è la Parola […] il Verso è tutto». Baggianate.

Quando Dio è venuto a parlarci, e – come ho detto sopra – parlò chiaro, parlò semplice, usando parole e immagini che potessero capire anche i piccoli, non fece alcun dettato. Non disse: “bambini, scrivete!” (eppure sapeva bene che eravamo come bambini, di fronte a Lui). Parlò, e si affidò alla nostra intelligenza, memoria e onestà. “Mi sarete testimoni”, quello che io ho detto a voi, voi ditelo a tutti. Figuriamoci. Noi non l’avremmo mai fatto. Ma Lui era Dio, e Dio – incomprensibilmente – ha grande stima della nostra libertà.

Adamo, nostro padre! (#Dante, Paradiso, canto XXVI, vv. 67-123; 139-142)

21 sabato Gen 2023

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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#Dante, Adamo, padri e figli, peccato originale, Umanesimo

La bella risposta di Dante sulle ragioni dell’Amore entusiasma i beati e «un dolcissimo canto / risonò per lo cielo» (vv. 67-68): sì proprio quel Sanctus che noi, salvo rare eccezioni, alla messa strapazziamo, miagolandolo su improbabili melodie con schitarrate di contorno. Riavuta, e più forte di prima, la vista smarrita – grazie alla luce degli occhi di Beatrice «che rifulgea da più di mille milia» (v. 78), Dante si accorge con stupore di un «quarto lume» accanto ai tre apostoli che l’hanno interrogato su fede, speranza e carità. È Adamo.

«Come la fronda che flette la cima / nel transito del vento, e poi si leva / per la propria virtù che la soblima, // fec’io in tanto in quant’ella diceva, / stupendo, e poi mi rifece sicuro / un disio di parlare ond’io ardeva» (vv. 85-90). Di fronte ad Adamo, Dante immediatamente si inchina, pieno di reverente stupore, e poi però subito dopo raddrizza la schiena e, rifatto sicuro, si appresta a interrogarlo. La similitudine, come sempre nella Commedia, non è solo icastica ma anche piena di significato.

Noi, tra i tanti guai intellettuali di cui soffriamo, abbiamo anche quello di essere un po’ tutti “darwiniani” inconsapevoli, anche senza sapere quasi nulla della teoria dell’evoluzionismo. (Così come siamo “marxisti” immaginarî, “freudiani” per sentito dire, “nietzschiani” di riporto e altre cose del genere: abbiamo cioè assorbito, senza saperlo e senza pensarci, certe “idee ricevute” che fanno da pavimento su cui poggiamo i piedi ogni volta che apriamo bocca). Ne deriva che – anche senza bisogno di immaginarci il “primo uomo” come uno scimmione grugnente – siamo incapacitati a provare verso di lui la reverenza dovuta al padre. Peggio: siamo immersi come tortellini in un brodo di cultura che si fa vanto di disonorare i padri e lo prende per contrassegno della propria “uscita dallo stato di minorità” (come diceva quel grande che non uscì mai da Königsberg). Perciò anche l’Adamo del racconto biblico, ci viene spontaneo pensarlo come un fessacchiotto che fa senza riflettere tutto quello che gli dice sua moglie (altra cima, colei, che si lascia abbindolare dal primo televenditore che le propone “un’offerta imperdibile”!).

Come adolescenti in crisi, ci crogioliamo nel risentimento verso i padri e nella velleitaria pretesa di essere migliori di loro (noi, i moderni!). Quale unico rimedio alle palesi incongruenze di tale velleità e agli evidenti disastri che essa produce, abbiamo saputo produrre solo la reazione – altrettanto infantile, e peraltro minoritaria e “di nicchia” – di una supina sottomissione al culto del passato (come quella che, in ambito ecclesiale, è propria ad esempio di un certo tradizionalismo). Più intellettualmente provveduto di noi, Dante sa che Adamo è l’uomo creato direttamente dalle mani di Dio, senza il tramite di una generazione umana; il portatore del “principio divino” che è alla nostra origine («O pomo che maturo / solo prodotto fosti», lo chiama ai vv. 91-92). Il nostro inizio è in alto, non in basso. Questo è il punto, ed è per questo, essenzialmente solo per questo, che la prima mossa umana nell’accostarsi all’Uomo dev’essere sempre un atto di religioso rispetto: «divoto quanto posso a te supplìco», come dice Dante (v. 94). Eccolo qui l’umanesimo, il solo vero umanesimo: non autolatria, blasfemo culto di se stessi, ma venerazione dell’opera divina in noi, riconoscimento della nostra divina provenienza. Guardando Adamo, noi contempliamo le mani divine che lo plasmano, non il fango dell’impasto (quello lo conosciamo bene: è la roba di cui siamo fatti).

Adulto è chi, divenuto padre a sua volta, onora il padre, ma allo stesso tempo lo interroga, gli chiede conto, lo critica anche, con quella krisis a cui sempre tutti ci dobbiamo sottoporre. (L’atteggiamento dantesco nei confronti dei classici, in questo senso, è molto più “umanistico”, nel senso vero del termine, rispetto a quello degli umanisti teorizzatori dell’imitazione degli antichi in quando modelli insuperabili). Ecco dunque una sventagliata di domande per il padre Adamo, che Dante non articola neanche, per far prima, tanto l’altro gliele legge nella mente: «tu vedi mia voglia, / e per udirti tosto non la dico» (vv.95-96). «Tu vuogli udir» – replica prontamente Adamo – «quant’è che Dio mi pose / ne l’eccelso giardino, ove costei / a così lunga scala ti dispuose, // e quanto fu diletto a li occhi miei, / e la propria cagion del gran disdegno / e l’idïoma ch’usai e che fei» (vv. 109-114).

A domanda risponde: 1. La causa del disastro originale – (cioè della cacciata di casa, dal «loco / fatto per proprio dell’umana spece», come sveva detto nel I canto del Paradiso: per cui la qualifica di “scappati di casa” che oggi va di moda per denigrare quelli che non ci piacciono, ha in realtà valenza universale) – non fu «il gustar del legno», cioè aver mangiato un frutto proibito (uno sgarro alla dieta del divino nutrizionista, praticamente), «ma solamente il trapassar del segno» (v. 117). Non amare il segno, cioè non stare al limite che ci è stato provvidenzialmente assegnato. 2. Nel limbo, dove finii dopo la morte, ho avuto la residenza per 4302 anni e sulla terra ho campato per 930 anni. (Siamo autorizzati a sorridere di queste cronologie). 4. Nel paradiso terrestre, «con vita pura e disonesta» (v. 140) cioè tra prima e dopo il fattaccio, ci sono rimasto sette ore (!). Per la precisione «da la prima ora a quella che seconda, // come ‘l sol muta quadra, l’ora sesta» (vv. 141-142), cioè dalla sei della mattina all’una dopo mezzogiorno. L’implicita autoironia di questa dichiarazione non finisce di deliziarmi: usciti perfetti dalle mani di Dio alla mattina, quei due (nostro padre e nostra madre!) hanno scazzato immediatamente, e di brutto. Dietro la paradossale, e quasi comica, incongruenza della situazione, intravediamo però il più abissale, vertiginoso e tremendo dei misteri, quello che la nostra ragione mai potrà non dico comprendere ma neppure inquadrare: come è possibile che Dio crei qualcosa che è “altro-da-Lui”, qualcuno che non è Dio ma, creato da Lui, non può che riflettere la sua divina perfezione, e tuttavia nella sua reale libertà, questo altro-da-Dio, non corrisponda all’amore di Dio che lo fa essere? Per quei due, Adamo ed Eva, possiamo almeno aggrapparci alla presenza del Tentatore e al fango di cui il divino artefice li aveva fatti. Ma chi ha tentato il Tentatore, creato anche lui perfetto (e senza traccia di fango), anzi fu la più bella delle creature? Come è possibile il non-amore di Dio-Amore?

Ridiamoci su, che è meglio: nostro padre e nostra madre a casa ci sono restati sette ore, poi si sono fatti cacciare. E noi ci meravigliamo che le cose quaggiù vanno da schifo?

P.S. E la risposta numero 3? Un’altra volta.

Dante esaminato sull’Amore: fatti, non parole. (#Dante, Paradiso, canto XXVI, vv. 1-66)

19 giovedì Gen 2023

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi

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#Dante, Agostino, amore, san Giovanni

Il canto comincia con Dante ancora accecato dalla luce di san Giovanni («Mentr’io dubbiava per lo viso spento»). È giusto, perché Giovanni qui rappresenta l’Amore – cioè Dio, perché «Dio è amore» (1 Gv 4,8) – e l’uomo, in quanto uomo, non può guardare il volto di Dio e conservare la vista umana. Tutto il nostro “illuminismo”, cioè tutta la luce dell’umana intelligenza applicata al mondo, altro non è che uno sguardo gettato sulle cose illuminate dalla luce divina, cioè dando le spalle a Dio. Come dice perfettamente, parlando del suo percorso intellettuale prima della conversione, Agostino in passo mirabile delle Confessioni: «dorsum habebam ad lumen et ad ea, quae inluminantur faciem: unde ipsa facies mea, qua inluminata cernebam, non inluminabatur» (Conf. 4, 16, 30). (Ne abbiamo parlato tempo fa, in questo post dove trovate anche la traduzione della frase agostiniana: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2019/03/23/una-questione-di-posizione-santagostino-ci-spiega-tutto-per-la-nostra-conversione/ ). Quando invece ci volgiamo a fissare direttamente il volto di Dio, la prima conseguenza è una sorta di cecità per troppa luce: la tenebra luminosa dei mistici.

Niente paura, dice san Giovanni: «fa ragion che sia / la vista in te smarrita e non defunta: // perché la donna che per questa dia / regïon ti conduce, ha ne lo sguardo / la virtù ch’ebbe la man d’Anania» (vv. 8-12). Che “smarrito” non equivalga a “perduto” noi lo sappiamo sin dal primo canto dell’Inferno, anzi l’avevamo detto ancor prima di cominciare il viaggio (qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2019/06/20/con-dante-per-ritrovarci-una-proposta-per-tutti/). Non spaventiamoci dunque dei nostri smarrimenti (oggi, per esempio, la chiesa sembra così “smarrita” che delle volte ci pare di non sapere dove sbattere la testa): per quanto possiamo essere «pecore matte», siamo comunque accuditi da un Pastore che non si accontenta di una performance del 99% (come farebbe perfino il più rampante dei manager del più aggressivo sistema capitalistico) e non si dà pace finché non ha recuperato anche l’unica bestia smarrita (probabilmente la più scema del gregge). Negli occhi di Beatrice, cioè della donna che è per lui la forma concreta della Grazia che gli è specificamente destinata, Dante troverà la «virtù» che gli ridonerà la vista. Lui che all’inizio aveva obiettato: «io non Enëa, io non Paulo sono» (Inf. II, 32), ora è proprio come Saulo di Tarso risanato per mezzo delle mani di Anania. La risposta di Dante (vv. 13-18) è bellissima, ma la salto perché, come si dice, le secret d’ennuyer est celui de tout dire (e poi magari a qualcuno della comitiva viene voglia di commentarlo e lo farà meglio di me).

Mi interessa arrivare subito ad un’altra risposta, quella che il poeta dà alla seconda domanda di san Giovanni: una volta chiarito che l’oggetto proprio dell’Amore è Dio, l’esaminatore vuol sapere da chi o da che cosa viene indotto questo amore («dicer convienti / chi drizzò l’arco tuo a tal berzaglio» vv. 23-24). La prima parte del discorso di Dante è, per così dire, “da manuale” – come quando un alunno ripete bene, cioè dimostrando di averlo capito, ciò che sta scritto nel libro di testo – e consiste nell’indicazione dei «filosofici argomenti» e dell’autorità delle Scritture su cui si fonda la ragionevolezza dell’amore per Dio (vv. 25-45). Ma bastano, le parole, fossero anche quelle ispirate da Dio, a muovere l’amore? San Giovanni incalza Dante: «Ma dì ancor se tu senti altre corde / tirarti verso lui, sì che tu suone / con quanti denti questo amor ti morde» (vv. 49-51). “Corde”, “denti”: che bello, e che vero!, questo linguaggio da meccanici, carpentieri o muratori, e non da poeti romantici, per parlare dell’amore. Che è una forza della mente, delle braccia e delle gambe, non un sospiro o un palpito del cuore: l’amore che ti fa alzare, uscire e andare fino in capo al mondo, se è necessario; e ti fa decidere di adempiere ai doveri più sgraditi, se è necessario. Fatti, non parole; vita, non letteratura («noi leggiavamo un giorno per diletto …» disse la sciagurata). E Dante dà le ragioni del suo Amore così (vv. 55-63):

Però ricominciai: «Tutti quei morsi
che posson far lo cor volgere a Dio,
a la mia caritate son concorsi:

ché l’essere del mondo e l’esser mio,
la morte ch’el sostenne perch’ io viva,
e quel che spera ogne fedel com’ io,

con la predetta conoscenza viva,
tratto m’hanno del mar de l’amor torto,
e del diritto m’han posto a la riva.

Che noi abbiamo bisogno di essere condotti ad amare Dio a forza di morsi – «quei morsi / che posson far lo cor volgere a Dio» – è una cosa così profondamente vera, così spudoratamente umana, che solo un grande poeta cristiano poteva arrivare a dirla. Eccoli, dunque i “morsi”, cioè i fatti di Dio che ce lo fanno amare con tutto il cuore, perché si incidono nella carne, se solo ci diamo la pena di pensarci: Dio ha fatto il mondo; ha fatto me! («l’esser mio»); poi soprattutto c’è «la morte ch’ el sostenne perch’io viva» (qualcun altro è mai morto per me? esiste o è mai esistito qualcuno che abbia fatto questo? E allora ogni altra persona o cosa che reclama il mio amore, si faccia indietro e si metta in fila, dopo Dio!); infine c’è l’eterna beatitudine che spero. Tutta roba mia, nel senso di tutta roba fatta per me: «l’esser mio … perch’io viva … ogne fedel com’io».

Ci vuole non meno di questo, per tirarci fuori «del mar de l’amor torto» – immensa espressione, che ricopre con le sue distese senza confini tutto il campionario di situazioni e di figure che abbiamo perlustrato lungo i sessantasei canti dell’Inferno e del Purgatorio (là dentro c’è Francesca, c’è l’oceano di Ulisse, c’è il pelago da cui Dante credette di essere uscito «con lena affannata» prima di incontrare Virgilio, c’è tutta la varietà di forme ingannevoli in cui si presenta il «picciol bene» di cui si invaghisce «l’anima semplicetta» di ciascuno di noi … tutta la fiera della vanità del mondo è là «[nel] mar de l’amor torto»).

Per chi ama veramente Dio, invece, il mondo torna ad essere un giardino, dove, con perfetta competenza botanica, ogni pianta, fiore o frutto viene amato per quello che è, nella giusta misura che gli spetta, né più né meno: «Le fronde onde s’infronda tutto l’orto / de l’ortolano eterno» – si confronti, per piacere, lo spessore e l’afflato cristiano di questa mirabile definizione di Dio, con l’algido orologiaio svizzero immaginato dalle filosofie deiste – «am’io cotanto / quanto da lui a lor di bene è porto» (vv. 64-66).

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