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  • La chiesa e la crisi degli anni sessanta.

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~ Vanitas ludus omnis

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Archivi Mensili: gennaio 2015

Civiltà

29 giovedì Gen 2015

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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civiltà, Daniélou

Una folgorante definizione di civiltà: «essenzialmente un ordine di cose, in cui l’uomo è rispettato e amato, e in cui è tanto più amato quanto più è debole, isolato, infelice. Al contrario, ogni ordine di cose in cui il debole, lo straniero è disprezzato, respinto, soppresso, non è una vera civiltà, quand’anche vi si trovassero tutte le raffinatezze della tecnica». [Jean Daniélou, Saggio sul mistero della storia, trad.it. Brescia 1963, p.77]

Gesù Cristo in forma di clown (3). (Il popolo? Sta a guardare …)

27 martedì Gen 2015

Posted by leonardolugaresi in Cristianesimo e spettacoli

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«E il popolo stava a guardare (καὶ εἰστήκει ὁ λαὸς θεωρῶν). Anche i capi lo schernivano dicendo: “Ha salvato gli altri, salvi se stesso se questi è il Cristo di Dio, l’eletto!”. Si facevano beffe di lui anche i soldati, che si avvicinavano portandogli dell’aceto e dicendo: “Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso!”» (Lc 23,35-37).

Se la crocifissione ha da essere un grande spettacolo “comico”, in cui si umilia e si deride il condannato, ha bisogno di un pubblico. E il pubblico c’è: Luca lo identifica con la folla accorsa ad assistere all’esecuzione capitale di Gesù. Contro la tentazione del populismo, ricorrente anche oggi nella chiesa, questo passo ci ricorda che il popolo non è molto migliore dei suoi capi. Non viene certo di lì, la salvezza.

Soprattutto quando “il popolo” è ormai diventato – come oggi – un pubblico di spettatori, che guarda e commenta senza compromettersi, senza rischiare.

Non so quanti followers avrebbe, Gesù crocifisso, ma sicuramente il video della sua morte sarebbe “virale”.

Gesù Cristo in forma di clown (2). (Ils sont Charlie)

25 domenica Gen 2015

Posted by leonardolugaresi in Cristianesimo e spettacoli

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«E anche Erode con i suoi soldati gli mostrò il suo disprezzo e dopo essersi preso gioco di lui mettendogli addosso una veste splendida (περιβαλὼν ἠσθῆτα λαμπρὰν) lo rimandò da Pilato» (Lc 23,11)

Perché mettere addosso a un condannato una «veste splendida»? Chi è l’unico – in un mondo come quello antico in cui di regola l’abito fa il monaco, nel senso che ciascuno si veste rigorosamente come il suo status comporta – che può indossare una veste dall’apparenza splendida senza avere affatto il rango e la dignità corrispondenti?

È l’attore. E così, secondo Luca, quando Gesù torna da Pilato è acconciato come potrebbe esserlo un guitto che recita la parte di un re da burla in una farsa.

Gli altri due sinottici (Mc 15,16-20 e Mt 27,27-31) collocano invece la derisione di Gesù in un contesto diverso, dopo il secondo interrogatorio da parte di Pilato, quando il procuratore romano lo consegna alle guardie per la normale procedura del supplizio capitale: flagellazione e crocifissione. A quel punto, sembrerebbe per un’autonoma iniziativa dei soldati, si improvvisa una sorta di mimo, in cui Gesù è il protagonista di una burlesca incoronazione: «Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e convocarono l’intera coorte. Lo rivestirono di porpora e dopo aver intrecciato una corona di spine gliela misero sul capo. Cominciarono poi a salutarlo: “Salve, re dei Giudei!”. E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano a lui. Dopo averlo schernito, lo spogliarono della porpora e gli rimisero le sue vesti, poi lo condussero fuori per crocifiggerlo» (Mc 15,16-20).

Satira politica, si direbbe oggi.

(Volessimo fare dello spirito anche noi, potremmo dire che quei bravi militi erano sia Charlie che Kouachi: satira politica e punizione esemplare dell’empio, tutto in una volta).

Gesù Cristo in forma di clown. (Ridono di noi, sin dall’inizio)

23 venerdì Gen 2015

Posted by leonardolugaresi in Cristianesimo e spettacoli

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spettacoli

In questi giorni si parla molto della satira, dei suoi limiti e del suo rapporto con la religione. Può essere non del tutto inutile rammentare come stanno le cose, per noi cristiani, sin dall’inizio della nostra storia. Lo faremo, come sempre, “in pillole”. Ecco la prima.

Che la passione e morte di Nostro Signore Gesù Cristo sia, agli occhi del mondo, anche un grande spettacolo “comico” è un fatto scandaloso che siamo tentati di rimuovere, ma che dai testi evangelici emerge abbastanza chiaramente.

Come scrive Martin Hengel, «con l’esposizione pubblica del suppliziato nudo in un luogo ben visibile – su di una pubblica piazza, in un teatro, su di un’altura, sul luogo del delitto – la crocifissione rappresentava anche l’ultima delle profanazioni inflitte alla vittima» [M.Hengel, Crocifissione ed espiazione, trad.it. Brescia 1988, p.126).

«Ora, nel caso della passione e della morte di Gesù questo elemento di teatralizzazione potenzialmente presente nel summum supplicium viene effettivamente sviluppato e il racconto degli evangelisti (in particolare quello di Luca) lo sottolinea in modo esplicito, con un’intenzionalità che non ci sembra venire adeguatamente apprezzata da molti esegeti. Si pensi, per cominciare, al modo in cui Luca racconta il primo episodio di oltraggio subito da Gesù, collocandolo nelle ore notturne che precedono il suo interrogatorio da parte del sinedrio. “E gli uomini che lo avevano in custodia si prendevano gioco di lui percuotendolo, e avendolo bendato lo interrogavano dicendo: «Indovina (προφήτευσον): chi ti ha colpito»” (Lc 22,63-64). C’è qui qualcosa di più di un gioco estemporeaneo e futile o di una beffa crudele. Come è stato giustamente osservato, traducendo come si è soliti fare, l’imperativo προφήτευσον con «indovina» si dà l’idea di un passatempo quasi infantile. In realtà nel verbo è presente il significato proprio di «profetizzare». Andrebbe dunque tradotto con «profetizza» o meglio ancora «fa’ il profeta». I soldati attuano, in questo modo, una sorta di rozza parodia della funzione profetica che Gesù si attribuiva, costringendo il sedicente profeta a impersonare la caricatura di se stesso» [L.Lugaresi, Il teatro di Dio. Il problema degli spettacoli nel cristianesimo antico (II-IV secolo), Brescia 2008, pp.300-301]

Vuole tutto da te chi ti ha fatto

21 mercoledì Gen 2015

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Agostino

Totum exigit de te, qui fecit te.

[Agostino, serm. 34,7]

La frase di Agostino potrebbe essere letta come l’enunciazione di una pretesa estrema, ma forse, più profondamente, è la serena e pacificante constatazione di un fatto. Alla fine dei conti, la morte è una grande obbedienza. Comunque ci si consegna, ci si restituisce a chi di dovere. La nostra parte? Farlo di buona grazia, non malvolentieri.

La morte di un amico

17 sabato Gen 2015

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Agostino, amicizia, morte

In quegli anni, all’inizio del mio insegnamento nella città natale, mi ero fatto un amico, che la comunanza dei gusti mi rendeva assai caro. Mio coetaneo, nel fiore dell’adolescenza come me, con me era cresciuto da ragazzo, insieme eravamo andati a scuola e insieme avevamo giocato; però prima di allora non era stato un mio amico, sebbene neppure allora lo fosse, secondo la vera amicizia. Infatti non c’è vera amicizia, se non quando l’annodi tu fra persone a te strette col vincolo dell’amore diffuso nei nostri cuori ad opera dello Spirito Santo che ci fu dato. […] Quando eccoti arrivare alle spalle dei tuoi fuggiaschi, Dio delle vendette e fonte insieme di misericordie, che ci rivolgi a te in modi straordinari 22; eccoti strapparlo a questa vita dopo un anno appena che mi era amico, a me dolce più di tutte le dolcezze della mia vita di allora. […] L’angoscia avviluppò di tenebre il mio cuore. Ogni oggetto su cui posavo lo sguardo era morte (quidquid aspiciebam mors erat). Era per me un tormento la mia patria, la casa paterna un’infelicità straordinaria. Tutte le cose che avevo avuto in comune con lui, la sua assenza aveva trasformate in uno strazio immane. I miei occhi se lo aspettavano dovunque senza incontrarlo, odiavo il mondo intero perché non lo possedeva e non poteva più dirmi: “Ecco, verrà”, come durante le sue assenze da vivo (Expetebant eum undique oculi mei, et non dabatur; et oderam omnia, quod non haberent eum, nec mihi iam dicere poterant: “Ecce veniet”, sicut cum viveret, quando absens erat). Io stesso ero divenuto per me un grande enigma (Factus eram ipse mihi magna quaestio). Chiedevo alla mia anima perché fosse triste e perché mi conturbasse tanto, ma non sapeva darmi alcuna risposta; e se le dicevo: “Spera in Dio” a ragione non mi ubbidiva, poiché l’uomo carissimo che aveva perduto era più reale e buono del fantasma in cui era sollecitata a sperare (quia verior erat et melior homo, quem carissimum amiserat, quam phantasma, in quod sperare iubebatur). Soltanto le lacrime mi erano dolci e presero il posto del mio amico tra i conforti del mio spirito.

[Agostino, Confessioni, IV,4,7-9]

Davanti alla morte (e la morte dell’amico è veramente la morte; quella dell’estraneo e dello sconosciuto è un’astrazione), davanti alla morte – questa cosa “assolutamente im-pensabile” – anche il pensiero religioso, se resta un pensiero, è come un fantasma. E l’uomo carissimo che abbiamo perduto era più reale di qualsiasi fantasma.

Incontrare Cristo, per Agostino, sarà finalmente incontrare una presenza reale e buona che non muore. La morte dell’amico mette alla prova la nostra conoscenza di Cristo: fantasma o presenza?

Dio ride?

16 venerdì Gen 2015

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Pseudo-Ambrogio, riso

Il nostro certamente sì. Del Padre, lo dice esplicitamente la Bibbia, che anzi precisa che talvolta ride di noi:  «Insorgono i re della terra / e i principi congiurano insieme / contro il Signore e contro il suo Messia: / “Spezziamo le loro catene, / gettiamo via i loro legami”. Se ne ride chi abita i cieli, / li schernisce dall’alto il Signore» (Salmo 2, 2-4).

A chi poi sappia leggere un minimo quell’altro liber scriptus digito Dei che è il mondo creato le prove dell’umorismo di Dio appaiono copiose ed evidenti.

Del Figlio possiamo esserne ragionevolmente sicuri. Tutti (compreso Umberto Eco) conoscono l’adagio pseudoambrosiano, che risale in realtà ad un autore medievale, a proposito della presunta assenza del riso nella vita di Gesù: flevisse lego, risisse numquam (nel vangelo “leggo che ha pianto, ma non leggo mai che abbia riso”). Ci vuole una discreta chiusura mentale e un miope attaccamento alla lettera per non vedere dove Gesù abbia riso: alla festa di nozze di Cana ci è andato (per giunta con i suoi amici, come precisa il vangelo) o no? E lì, durante la festa, che cosa volete che abbia fatto, se non quello che facevano tutti gli altri uomini ad una festa: mangiare, bere, parlare, cantare, scherzare, ridere? L’alternativa è immaginare un Gesù che si chiede: «Mi si nota di più se vengo e sto in disparte o se non vengo per niente?», e siamo a Nanni Moretti.

Dunque il nostro è un Dio che sa ridere, e quando gliene diamo il motivo ride di noi.

È già qualcosa. Di qui prenderemo le mosse, nei prossimi giorni, per qualche pensierino patristico che forse può gettare un po’ di luce sulla confusione presente, a proposito di ridere di Dio, ridere di chi crede in Lui, ridere di chi ride …

La grazia di cadere

14 mercoledì Gen 2015

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caduta, grazia, Origene

Dobbiamo ora cercare di intendere che cosa vogliono dire le parole: «Ecco, egli è stabilito per la rovina e la risurrezione di molti in Israele» (Lc 2,34). Debbo dunque prima cadere, e quando sarò caduto debbo risollevarmi, se non voglio che il Salvatore sia causa per me di una irreparabile rovina. Ma è perché io mi risollevi che mi ha fatto cadere, e questa rovina mi arrecherà vantaggi molto superiori a quelli dei quali godevo in quel tempo in cui sembravo stare in piedi. Stavo infatti in piedi nel peccato nel tempo in cui vivevo nel peccato; e poiché stavo nel peccato fu quindi per me molto vantaggioso cadere e morire al peccato. Del resto anche i santi profeti, quando contemplavano qualcosa di molto sublime, cadevano con la faccia a terra; e proprio per questo cadevano, epr espiare più pienamente i peccati attraverso tale caduta.

Questa è appunto la grazia che il Salvatore ci concede per prima, la grazia di cadere.

Eri pagano, vada dunque in rovina in te il pagano; amavi le prostitute, perisca in te tale amore; eri peccatore, vada in rovina in te il peccatore, affinché tu possa poi risorgere e dire: «Se siamo morti con lui, con lui vivremo» (2 Tim. 2,11).

[Origene, Omelie sul Vangelo di Luca, 17,3]

Il nostro Origene! Insieme con Agostino, l’uomo più intelligente che ci sia mai stato. Non fraintendiamolo: non c’è una grazia di peccare, il peccato non è mai una grazia (come forse qualche volta pensa male Lutero). La “prima grazia” di cui parla Origene, la «grazia di cadere» è il fallimento della mia pretesa di autosufficienza. Sono i cocci della mia vita, i frantumi a cui si riduce, così facilmente, la mia giornata. La mia vita.

(Anche i continui ostacoli di cui mi parlava stamattina una cara amica, a cui un po’ è dedicata la “pillola” di oggi)

Cercare dei maestri per trovare Gesù

13 martedì Gen 2015

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Cristo, maestri, Origene

Maria e Giuseppe cercavano Gesù tra i parenti, e non lo trovavano; lo cercavano tra i compagni di viaggio e non potevano trovarlo. Andarono a cercarlo «nel tempio», e non soltanto «nel tempio» ma presso i maestri e «in mezzo ai maestri» lo trovano. Ovunque ci siano dei maestri, è in mezzo ad essi che si trova Gesù, sempreché tuttavia il maestro risieda «nel tempio» e non ne esca mai. Gesù arrecava vantaggio ai suoi maestri, ed insegnava a coloro che sembrava interrogare, parlando «in mezzo ad essi». In un certo senso li spingeva a cercare ciò che ignoravano, e a scoprire le verità di cui, fino ad allora, erano incapaci di sapere se le conoscevano o se le ignoravano.

[Origene, Omelie sul vangelo di Luca, 20,1. Il passo evangelico commentato è Lc 2,49-51]

Siamo noi gli empi?

10 sabato Gen 2015

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apologetica, Atenagora, empietà

«Si ritiene che siano pii quanti credono che la vita consista in questo: “mangiamo e beviamo perché domani moriremo” e considerano la morte un sonno profondo e un oblio. Ma noi che riteniamo la vita di quaggiù degna di un nonnulla, che siamo spinti dal solo desiderio di conoscere Dio e il suo Verbo che è presso di Lui; qual è l’unione del Figlio con il Padre e quale la comunione del Padre con il Figlio; che cosa è lo Spirito, quale l’unione di questi esseri così grandi e la distinzione di loro così uniti, dello Spirito, del Figlio, del Padre; noi che sappiamo che la vita che ci aspetta è superiore a ogni dire se vi giungeremo purificati da ogni delitto; noi tanto caritatevoli da amare non solo gli amici – è detto: se amerete coloro che vi amano e presterete a coloro che vi prestano, quale ricompensa riceverete? (Mt 5,46) – noi, essendo così e vivendo questa vita per evitare di essere condannati nel giudizio, si crederà che non siamo pii?».

[Atenagora, Supplica per i cristiani, 12,3]
Il brano di oggi, tratto da uno scritto apologetico composto intorno al 176 e indirizzato agli imperatori Marco Aurelio e Commodo, mi è stato suggerito da una cara e dotta amica, che così lo commenta: «Mi chiedo se nella nostra epoca ci può essere qualche cristiano che si presenta così!».

Io penso che dovrà tornare ad esserci, un cristiano che si presenta così: quando apriremo gli occhi e sentiremo tutto lo spaesamento di chi finalmente si accorge che il mondo è tornato ad essere così non cristiano come lo era ai tempi di Atenagora. I cristiani, allora, non avevano un “mondo cattolico” in cui rifugiarsi e non si ponevano il problema di essere “in uscita”, perché non c’era un solo metro di terra che potessero sentire come “casa propria”. Vivevano in città in cui nulla, ma proprio nulla, richiamava alla fede in Gesù Cristo e tutto, invece, rimandava ad altri culti e ad altre appartenenze.

Anche noi potremmo credere di essere già abituati all’opposizione del mondo, ma in realtà fino ad ora ci siamo illusi di poterci considerare pii: empi erano gli altri, empio era il mondo che si allontanava da Cristo. Forse sarà il momento di prendere atto che ormai  il mondo ha un’altra “pietà” (simile a quella descritta da Atenagora), e agli occhi di quasi tutti siamo noi gli empi.

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