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  • La chiesa e la crisi degli anni sessanta.

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~ Vanitas ludus omnis

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Archivi Mensili: ottobre 2019

Dante e Farinata: uno scontro interrotto [#Dante, Inferno, canto X, seconda parte]

27 domenica Ott 2019

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Dante, grandezza, politica

«O Tosco che per la città del foco / vivo ten vai così parlando onesto, / piacciati di restare in questo loco» (vv.22-24). Per la terza volta a prendere l’iniziativa d’interpellare Dante è un dannato. Lo aveva fatto Ciacco nel canto VI («“O tu che se’ per questo ‘nferno tratto”, / mi disse, “riconoscimi, se sai: / tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto»), col tono di quella familiarità sgradita con cui uno sconosciuto ti ferma per la strada, trattandoti confidenzialmente, mentre tu non sai ancora chi sia e resti sulle tue («L’angoscia che tu hai / forse ti tira fuor de la mia mente, / sì che non par ch’i’ ti vedessi mai»). Ci aveva provato Filippo Argenti, nel canto VII, sbarrandogli il passo («dinanzi mi si fece un pien di fango») e apostrofandolo con una volgarità che fa subito venir voglia di rendergli il fatto suo: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?».

Ora lo fa un gran signore, Manente degli Uberti, detto Farinata, il capo dei ghibellini di Firenze verso la metà del XIII secolo, morto un anno prima che Dante nascesse e giudicato eretico in un processo post mortem, tenutosi a Firenze nel 1283, quando Dante aveva diciotto anni. Il primo di cui aveva chiesto notizie a Ciacco: «Farinata e ‘l Tegghiaio, che fuor dì degni …». Son sempre i fiorentini a farsi avanti, con più o meno garbo, per chieder conto a Dante di qualcosa.

Qui di garbo ce n’è, anzi c’è tutto quel decoro, quel «parlare onesto» (appunto), che ci si può aspettare da un “padre della patria”. (Forse per avere un’idea dell’atmosfera di questo incontro, dovremmo immaginare noi stessi a colloquio con uno dei fondatori della nostra repubblica, uno di quelli che hanno scritto la costituzione, magari scegliendolo tra quelli di parte avversa alla nostra, perché tale era Farinata per Dante. Che ne so, come se io fossi lì a parlare con Togliatti).

Però tutto il decoro e il parlare alto di questo mondo non possono farci dimenticare che anche questo è uno scontro. Ce lo conferma in modo inequivocabile quello che segue: la prima reazione di Dante è di paura – si accosta al suo maestro il quale, come ogni coach che si rispetti, spinge il suo campione ad andare incontro alla sfida senza esitare: «Volgiti! Che fai? / Vedi là Farinata che s’è dritto: / da la cintola in sù tutto ‘l vedrai» (vv.31-33). Versi meravigliosi, perché ce lo fanno vedere senza affatto descriverlo. I bravi scrittori descrivono bene e ci fanno vedere ciò che descrivono (ut pictura poesis); i genii (e i vangeli) ci fanno vedere senza descrivere (quindi superano di molto le possibilità della pittura). Si faccia avanti chi non ha l’impressione, decisa, certa e indiscutibile, che Farinata sia grande? Grande fisicamente, intendo dire. Io poi ho sempre avuto anche un’altra impressione (ma questa mi piacerebbe confrontarla con quella degli altri gentili lettori): che sia, non so come, più in alto di Dante. Il che è fisicamente quanto mai improbabile, dato che si leva dal fondo di un sepolcro che è posato a terra: eppure la prossemica ideale di questo dialogo, tutte le volte che l’ho letto compresa quest’ultima, per me non cambia: Farinata sopra e Dante sotto.

«Io avea già il mio viso nel suo fitto; / ed el s’ergea col petto e con la fronte / com’avesse l’inferno a gran dispitto» (vv.34-36). Ditemi se questa non è la tensione dei primi momenti di un incontro di pugilato, subito dopo il gong, quando i due avversari si studiano. La parola chiave, da memorizzare, qui è dispitto. Anzi gran dispitto. Quest’uomo disprezza anche (e perciò non capisce neanche) l’inferno.

«E l’animose man del duca e pronte / mi pinser tra le sepolture a lui / dicendo «Le parole tue sien conte» (vv. 37-39). Virgilio con l’asciugamani attorno al collo, il secchio dell’acqua e la spugna in mano, che spinge il suo pugile al centro del ring e gli dà le ultime raccomandazioni: «tieni alta la guardia e occhio al suo sinistro».

«Com’io al piè de la sua tomba fui» – ve lo dicevo che Farinata stava in alto e Dante in basso (ma se fossi un illustratore della Commedia non saprei proprio come fare a rendere l’idea) – «guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso, / mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?». Qui per capire dobbiamo tener presente il rango dei due interlocutori. Noi siamo istintivamente portati a pensare a Dante Alighieri come ad un grande, anzi come al «sommo». In Italia, poi, sono quasi settecento anni che ne celebriamo una specie di culto. Ma nella concreta realtà della sua esistenza terrena, nella Firenze del suo tempo, non era niente di che: una figura di secondo piano, esponente di una famiglia di piccola nobiltà, molto desideroso di affermarsi ma decisamente di un altro mondo rispetto ad un “pezzo grosso” come Farinata. (Ricordo che un’idea più concreta della posizione di Dante all’interno del suo mondo la ricavai dalla lettura del libro di Marco Santagata, che mi sentirei di consigliare).

Chi prende la parola per primo, infatti, è Farinata; e sembra subito un interrogatorio: «Chi fuor li maggior tui?». Domanda logica dal suo punto di vista, ma terribile: non gli chiede chi è, ma a quale consorteria appartenga. Se sia “dei nostri” o “degli altri”. Senza bisogno di aver letto Carl Schmitt, Farinata pensa il mondo politicamente, secondo la categoria amico / nemico, ma siccome è epicureo, cioè ateo, il suo orizzonte è chiuso in essa come in una prigione da cui non si può scappare. Dante, che è «d’ubidir desideroso» non gli nasconde la verità, ma gliela apre tutta (cfr. vv.43-44). La scoperta di avere di fronte a sé un nemico, provoca in Farinata la reazione obbligata del disprezzo (v.45: «ond’ei levò le ciglia un poco in suso») seguita dall’affermazione della propria duplice vittoria (v.48: «per due fïate li dispersi»).

Dante ribatte, la tecnica è quella del “rinfaccio”, i due combattenti sono a questo punto, repentinamente, sullo stesso piano. Dobbiamo aspettarci, se non un’altra rissa come quella con Filippo Argenti, un diverbio, magari più nobile nel registro ma altrettanto sanguinoso nella sostanza? Gli scrittori mediocri (ma anche quelli bravini) ripetono le trovate che hanno successo la prima volta. Ma Dante è Dante.

E qui il colpo di genio consiste nel fatto che la scena si interrompe bruscamente, inaspettatatamente. Resta sospesa, appesa al nulla. Già questo contiene un giudizio che relativizza e ridimensiona. La politica non è tutto.

«La superbia, non l’ignoranza, genera l’eresia» [#Dante, Inferno, canto X, prima parte]

25 venerdì Ott 2019

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anima, Dante, eresia, superbia

Questo è un canto come il V. Un canto in cui Dante prende un pezzo della sua vita, un pezzo di sé, carne viva: sentimenti, progetti, relazioni e impegni di vita – e lo sottopone a giudizio. Lo rivede e lo ritratta. Là era l’adesione all’amore cortese. Qui è la speranza messa nella politica e nella cultura.

Prima di tutto, fermiamoci un momento a considerare il suo coraggio. Perché ci vuole coraggio, oppure onestà che tante volte è la stessa cosa, per sottoporsi al giudizio, criticando seriamente se stessi. È come aprirsi una piaga o un bubbone, per curarselo. Senza anestesia.

L’inizio del canto ci aiuta, con il silenzio meditativo di quella camminata tra le mura e le tombe, Virgilio davanti e Dante dietro: «Ora sen va per un secreto calle, / tra ‘l muro de la terra e li martiri, / lo mio maestro, e io dopo le spalle» (vv.1-3). Dante sa già che lì ci sono gli eretici e rompe il silenzio per chiedere al maestro se si può vedere «la gente che per li sepolcri giace» (v.7), dato che le tombe sono aperte. Virgilio non risponde semplicemente con un sì o con un no: prima dà due informazioni aggiuntive e poi dice che la richiesta di Dante sarà presto soddisfatta, anche «al disio ancor che tu mi taci» (v.18). C’è un non detto, dunque, qualcosa che Virgilio ha capito benissimo ma che al lettore ancora sfugge.

Intanto prendiamo nota che Virgilio ha specificato che in quella parte del cerchio si trovano «con Epicuro tutti suoi seguaci, / che l’anima col corpo morta fanno» (vv.14-15). Molto finemente Annamaria Chiavacci Leonardi nel suo commento nota che «questo verso è posto quasi a epigrafe del canto, come già nel V (e anche là in proposizione relativa, col tempo presente e in conclusione di terzina) la definizione dei lussuriosi: che la ragion sommettono al talento».

Viva le definizioni (quando son giuste)! Immersi come siamo in una cultura che idolatra l’ambiguità, la liquidità, la complessità, l’indecidibilità e l’indeterminazione, dove tutto è «in qualche modo» (come suona l’ormai insopportabile vezzo linguistico che affiora continuamente sulle labbra degli “intelligenti”), e chi dice pane al pane e vino al vino è bollato come un rozzo (e potenzialmente violento) nemico della civiltà democratica, noi aneliamo ad una buona definizione come ad un boccata di aria pura.

Chi sono i lussuriosi? Quelli che la ragion sommettono al talento. E chi sono gli eretici? Attenzione: qui Dante, pur avendoci detto (a IX, 127-129) che nel cerchio sono puniti gli «eresiarche / con lor seguaci, d’ogne setta», in realtà si concentra solo su quelli che lui chiama epicurei, cioè quelli «che l’anima col corpo morta fanno». C’è una cosa che accomuna le due definizioni: il tratto di “violenza” che i due verbi evocano. Lussuria non è appena la debolezza della carne, ma la deliberata volontà di sottomettere ad essa la ragione. La ragione, proprio in quanto “ha ragione”, dovrebbe star sopra alla voglia, che invece “ha torto” così spesso. Il lussurioso però le fa violenza (il suo primo stupro è contro la ragione, non contro i corpi su cui mette le mani).

Così l’epicureo, colui che ha deciso che l’orizzonte dell’uomo è chiuso entro i confini angusti della terra e del tempo, infinitesimale, della sua permanenza in essa, fa morta l’anima insieme col corpo. Ma l’anima, per definizione, se c’è è immortale; dunque – ragiona Dante – se gli epicurei la fanno morta col corpo, in realtà la negano. Anche loro, dunque, le usano violenza. Credono solo ai corpi, ma i corpi in cui credono sono evidentemente animati: c’è in essi qualcosa che non è corpo. Ma loro non vogliono che ci sia, dunque la negano.

Arriviamo così alla prima chiave per leggere questo canto fondamentale: la superbia. Riprendo, sempre dal commento di Annamaria Chiavacci Leonardi, l’osservazione che già faceva Pietro di Dante, autore di un importante commento all’opera del padre: «La superbia, non l’ignoranza, genera l’eresia». L’eresia, si potrebbe dire, è il volto intellettuale della superbia.

Un tempo la chiesa al culto ci badava.

22 martedì Ott 2019

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crisi della chiesa, culto divino, idolatria

Sono abbastanza vecchio per ricordarmi qualcosa di com’era prima, quando la messa era in latino e compagnia bella. Ero un bambino, ma qualcosa mi ricordo. Mi ricordo, per esempio che, alla “dottrina” (come allora si chiamava “la catechesi dei fanciulli”), che  cosa fosse la messa e come fosse fatta ce lo avevano spiegato e non ricordo che avessimo particolari problemi a seguirla. Ricordo anche che il parroco stava addestrando noi maschi a fare i chierichetti e quindi a imparare a memoria tutte le parti proprio quando arrivò la messa in italiano (e ricordo un certo mio disappunto per la fatica sprecata). Non ricordo che ci fosse tra i fedeli chissà quale insofferenza per la messa in latino e chissà quale spasmodica attesa per la messa in italiano: nel mio ricordo fu come una cosa decisa da chi di dovere e che si prendeva per buona, come tutto il resto, senza far storie. (Però questo è il ricordo di un bambino, chissà, magari per gli adulti era diverso).

Ricordo che il mio parroco, sempre lodevolmente intento a migliorare e abbellire la nostra modesta chiesa, aveva da poco fatto costruire una balustra di marmo attorno al presbiterio, per la comunione dei fedeli – che allora si comunicavano in ginocchio sui gradini del presbiterio, senza fare la processione perché era il prete che si spostava. Venuta la riforma liturgica la fece ben presto demolire e questo mi dispiacque: parsimonioso e conservatore com’ero fin da bambino, mi parve una cosa malfatta, anche se devo dire che il parroco riutilizzò parti della balaustra rimossa per le cappelle laterali.

Non era il migliore dei mondi, né la migliore delle chiese possibili, e sono ancora abbastanza lucido da non idealizzare troppo quel passato (che comunque non tornerà). Per esempio, ricordo bene l’abitudine che molti avevano di arrivare in ritardo alla messa, perché “tanto fino all’offertorio valeva lo stesso”; la scarsa presenza di maschi adulti e la prassi consolidati di molti di questi di restare in piedi in fondo alla chiesa, e altre cose del genere. Non ricordo assolutamente nulla delle omelie (che allora si chiamavano prediche) e questo, almeno, potrebbe essere un elemento di continuità col presente …

Comunque il punto che vorrei mettere in evidenza è un altro. Ho appena accennato alla questione della “validità della messa”, che – per quanto ricordi io – era allora molto sentita tra i semplici fedeli. Almeno quanto l’altra del digiuno eucaristico, sulla quale si era quanto mai puntigliosi. (Anche sull’astinenza dalle carni il venerdì, c’era poco da scherzare). Cose di cui adesso, nel migliore dei casi si sorride ma che più frequentemente negli “ambienti ecclesiali” vengono additate con stizza come sintomi certi di un formalismo vuoto, di un’assenza di vera e consapevole partecipazione di fede e di altri terribili mali da cui “le riforme” postconciliari ci avrebbero finalmente liberati.

Mi dispiace, ma ho un’altra impressione: con tutti i difetti e le meschinità e le miserie che anche allora ci potevano essere, una cosa era chiara per tutti: che il culto divino è cosa, appunto, di Dio e non è alla mercé di noi uomini. Tutto era obbedienza (se preferite sottomissione, mi sta bene lo stesso) nella liturgia di quel tempo. Le rubriche (sì, le famigerate rubriche) prescrivevano per filo e per segno che cosa il prete dovesse dire e fare e non ci si doveva scostare di un millimetro. Nessuna parola e nessun gesto erano di sua proprietà. E questa, ripeto, era una coscienza comune, che magari tanti non erano in grado di argomentare, ma che sentivano. Di qui la rigorosa osservanza (che oggi ad alcuni sembrerebbe un po’ maniacale) di tanti particolari, come il già ricordato digiuno prima della messa, la genuflessione nei momenti prescritti, le mille cautele nel ricevere l’ostia eccetera eccetera.

Ho seguito e sto seguendo molto poco lo svolgimento del sinodo sull’Amazzonia. Non per scelta, perché anzi  di solito cerco di tenermi al corrente di quello che succede nella chiesa, ma perché non ci riesco. Purtroppo avverto una sorta di “ripugnanza istintiva” – che non mi permetto assolutamente di erigere a giudizio ma di cui prendo atto come una mia debolezza. Avevo provato a leggere il documento preparatorio, ma me ne sono staccato quasi subito, come davanti ad un testo a me estraneo. Facciano i membri del sinodo quello che ritengono di dover fare; tragga il papa le conclusioni che riterrà di dover trarre e prenda le decisioni che riterrà di dover prendere. Se avranno un riflesso diretto sulla nostra pratica cristiana ci adatteremo, come abbiamo sempre fatto.

Anche delle immagini che in questi giorni si sono viste, di strane statue portate in processione, di preti suore e frati prosternati a venerare oggetti non bene qualificati (alla presenza del papa!), e di altre cose del genere, non dico nulla, se non che mi risultano profondamente estranee a ciò che ho sempre conosciuto io come fede cristiana. Ma è il mio limite, e può essere angusto.

Però una cosa la voglio dire: quello che mi lascia sconcertato – anzi per essere più precisi mi scandalizza – è l’approssimazione, la vaghezza, per non dire la confusione che sembrano regnare a proposito di quelle azioni e di quegli oggetti che si sono visti e di cui oggi si parla tanto. Di che cosa si tratta? Di nuove forme del culto cristiano (tipo che quella donna nuda incinta è una rappresentazione di Maria)? Di culti di divinità pagane che però, essendo stata adottata la teologia del pluralismo religioso, vengono ammessi e introdotti in quello cattolico? (Ma è stata ufficialmente adottata quella teologia? Con quale atto del magistero?) Oppure sono semplici “ricordi” o simboli di realtà umane (tipo che la donna nuda incinta rappresenta il dono della vita o roba del genere) che si introducono a mo’ di offerta? O qualcos’altro? Vedo che i responsabili della comunicazione del Vaticano, ai più alto livello, nelle risposte ai giornalisti, cincischiano, balbettano, minimizzano e svicolano. In sostanza, danno l’idea che in fondo ciascuno può prenderli come vuole.

Ecco, questo è precisamente ciò che la chiesa un tempo non faceva. Sul culto divino non scherzava.

Il cimitero della politica. (#Dante, Inferno, canto X, premessa [che riguarda ancora il IX])

21 lunedì Ott 2019

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città, Dante, eresia, politica

Dopo tutto l’ambaradan dei canti VIII e IX, dopo la fatica che s’è fatta e la paura che abbiamo provato, dopo l’umiliazione di Virgilio e la sconvolgente entrata-uscita del messo celeste … dopo tutto questo, una volta superate finalmente quelle maledette porte, una volta raggiunta l’agognata-temuta città di Dite, che cosa c’è? Niente, un cimitero.

«Dentro li ‘ntrammo sanz’alcuna guerra; / e io, ch’avea di riguardar disio / la condizion che tal fortezza serra, // com’io fui dentro, l’occhio intorno invio: / e veggio ad ogne man grande campagna, / piena di duolo e di tormento rio.» (IX, vv.106-111).

A noi uomini, quello che è chiuso sembra già prezioso. Ci basta uno scrigno, per immaginare un tesoro. Gran parte della storia della nostra cultura, a ben vedere, è più una questione di contenitori che di contenuti (di scatole, più che di cioccolatini, per dirla un po’ alla Forrest Gump). Prendere qualcosa, metterla dentro qualcos’altro e chiuderla bene: ecco che diventa un valore. Così, dietro mura così inaccessibili, chissà che meravigliosa città scopriremo. Niente, un cimitero.

Dante chiede a Virgilio chi c’è in quei sepolcri, e il maestro risponde che ci sono «li eresiarche / con lor seguaci, d’ogne setta, e molto / più che non credi son le tombe carche» (vv.127-129).

Nel canto X si parla di politica, cioè del discorso sulla città, e si parla di legami familiari, cioè di quello che noi chiameremmo il privato (in opposizione al politico), ma lo si fa tra eretici e in un cimitero. Il nesso tra tutte queste cose, apparentemente disparate, è fondamentale per capire che cosa Dante ci dice. Nei prossimi giorni proveremo (se ce la facciamo!) a disbrogliarlo almeno un po’.

Arrivano i nostri! (Ma non è come nei film) [#Dante, Inferno, canto IX, terza parte]

18 venerdì Ott 2019

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angeli, ira divina, onnipotenza

A questo punto del canto IX potremmo anche semplicemente goderci lo spettacolo, perché qui c’è uno degli arrivano-i-nostri più impressionanti della letteratura, e che cosa c’è di più gustoso – in letteratura e al cinema, perché nella vita succede di rado – di un  bell’arrivano-i-nostri? Dopo che siamo stati in pena per tutta la prima metà del libro o del film, è un risarcimento che quasi ci spetta: a che pro, altrimenti, leggere romanzi e andare al cinema?

Si può leggere la Commedia anche così, ma ricordiamoci che con Dante siamo a scuola, e qui poi il maestro ce l’ha anche detto esplicitamente di «mirare la dottrina che s’asconde / sotto il velame de li versi strani» (vv.62-63). Quindi ci proviamo.

Mentre siamo lì con gli occhi chiusi a triplice mandata, si sente di lontano un rumore crescente. La colonna sonora  qui è magnifica, il crescendo e l’effetto surround sono garantiti da versi malgrado tutto musicalissimi: «E già venìa su per le torbide onde / un fracasso d’un suon, pien di spavento, / per cui tremavano amendue le sponde» (vv.64-66). Impossibile non “vedere” qualcosa: «non altrimenti fatto che d’un vento / impetuoso per il avversi ardodi, / che fier la selva e sanz’alcun rattento // li rami schianta, abbatte e porta fori; / dinanzi polveroso va superbo, / e fa fuggir le fiere e li pastori.»(vv.67-72). Il contenuto è spaventoso, ma sentite come, recitando questi versi, possibilmente ad alta voce, predomina in noi, più che il terrore, un senso di ammirazione, o se si vuole di “timore ammirato”, per questa sovrumana potenza? (Un sentimento che prepara, inconsciamente, il “santo timor di Dio”). Non ci viene da scappare, ne siamo come soggiogati.

Interviene Virgilio, decisivo come sempre in questo frangente: apre gli occhi a Dante e gli ordina di guardare, anzi per essere precisi di «drizzare i nerbo del viso» per vedere chi sta arrivando. L’ultima volta abbiamo parlato di responsabilità dello sguardo, a proposito del dovere di chiudere gli occhi davanti a Medusa, ma tale responsabilità non si esaurisce, negativamente, nel rifiuto di guardare ciò che non deve essere guardato. Essa consiste, primariamente, nella scelta di guardare – e di guardare in modo adeguato, drizzando il nerbo del viso – ciò che esige di essere guardato. Il padre e il maestro non dicono al figlio e al discepolo solamente di non guardare ciò che è turpe, ma prima di tutto gli insegnano a guardare ciò che è bello. Uso questo aggettivo, così problematico ormai, nel suo senso più forte possibile: “bello” è ciò che ha il sovrano diritto di essere contemplato ed impone perciò a noi il dovere di contemplarlo. Beauté (assai più che noblesse) oblige, si potrebbe dire.

Ma che c’è di “bello” da vedere guardando bene, qui all’inferno? «[U]n ch’al passo / passava Stige con le piante asciutte» (vv.80-81). Ora, chi cammina sulle acque, o è Dio o è un inviato di Dio. Un angelo di Dio, qui all’inferno? Come è possibile? O meglio – per formulare la domanda più esattamente e in modo pertinente anche alla nostra condizione umana, quando essa è più tragicamente pervertita – qual è la forma della presenza di Dio nel luogo della sua assenza, la dove Egli è negato e bestemmiato? Qui nella vita terrena è la forma della croce, la forma del servo sofferente umiliato e messo a morte dai suoi nemici. Ma all’inferno anche la croce è stata rifiutata.

Allora la forma della presenza di Dio può essere solo quella della “divina indifferenza”, della soverchiante potenza che schiaccia tutto ciò che le si oppone, e di una “estraneità” per quel mondo che lo rifiuta. Tutto questo esprime la figura del messo celeste, questo “Altro” che aspettavamo, perché né la paternità né il magistero umani ce la facevano a superare le mura di Dite. Ci vuol Altro, dicevamo: e l’Altro, lo Straniero, l’Estraneo, Colui-che-non-c’entra nulla, è arrivato. Ma come?

Lo vediamo arrivare, impassibile, indifferente a tutto: solo, con la mano sinistra rimuove davanti a sé quell’aria caliginosa e mefitica, «e sol di quell’angoscia parea lasso» (v.84). Vuol dire: di tutto il resto, dannati, pene infernali, progetti e paure di Dante eccetera, non gliene frega niente. Dante-personaggio, vedendolo, capisce da dove viene e si gira verso Virgilio, ma l’altro gli fa cenno di star zitto e di inchinarsi. Dante-autore si concede solo un commento: «Ahi quanto mi parea pien di disdegno!» (v.88). Nient’altro, e giustamente. Che cosa vuoi descrivere? Se descrivi, inevitabilmente immiserisci. (Annotatevi però questa parola disdegno, che nell’Inferno ha un ruolo importante).

Poi viene quella che per me è sempre stata la cosa più entusiasmante di questo episodio, e che ho sempre cercato di comunicare ai ragazzi, negli ultimi anni facendo leva persino sulla loro consumata esperienza di videogiochi. Quella barriera insormontabile delle mura della città di Dite, come la si supera? Quella fortezza inespugnabile, come fa il messo celeste a prenderla? Nei videogichi, appunto (ma anche nelle guerre vere), ci vuole l’arma finale, qualcosa di spaventosamente potente e micidiale, un congegno inaudito … Qui, invece: «Venne a la porta e con una verghetta / l’aperse, che non c’ebbe alcun ritegno». (vv. 89-90).

Me lo sono sempre immaginato, quel bastoncino ridicolo, e il tocco leggero, quasi beffardo, con cui il Possente apre le porte della città nemica e sbaraglia gli eserciti avversari. È la divina facilità, è il segno inconfondibile dei miracoli di Gesù. Dio non si limita a fare quello che agli uomini è impossibile, ma lo fa con irridente facilità.

Segue un pistolotto rivolto ai diavoli, che ha l’unico scopo di certificare la loro stupidità: “perché continuate a ribellarvi, dato che avete già perso la guerra?” (vv. 91-99). Satana e tutti i suoi seguaci sono fondamentalmente privi di intelligenza. (E avendo rifiutato il Logos divino sarebbe impossibile il contrario).

Poi l’angelo di Dio se ne va per i fatti suoi, sempre indifferente a tutto ciò che lo circonda, Dante e Virgilio compresi: «Poi si rivolse per la strada lorda, / e non fé motto a noi, ma fé sembiante / d’omo cui altra cura stringa e morda // che quella di colui che li è davante»  (vv.100-103). Viziati come siamo, non riusciamo a farcene una ragione, ma “Dio ha altro da fare” e non è obbligato a star dietro ai nostri capricci.

La crisi della chiesa è crisi dell’autorità.

16 mercoledì Ott 2019

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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autorità, crisi della chiesa, don Giussani

Dopo tutto quello che abbiamo visto in questi anni (e quello che stiamo vedendo!), non credo sia un giudizio temerario affermare che il problema principale, nel gregge di Cristo, non sono tanto le pecore quanto i pastori. Le pecore, poverette, sono quello che sono e fanno quello che possono: avrebbero (avremmo) bisogno di essere educate e guidate con lungimiranza, prudenza e fermezza. E comunque – lo dico da pecora nera – mi pare che ce ne siano parecchie di brave e di buone. Ma i pastori, come sono messi? A parte tutto quello che abbiamo saputo su come si comportano alcuni di loro (ma quanti? Certo non solo le poche “mele marce” che è quasi scontato che ci siano in ogni cesto …) , quel che è peggio è che di troppi di loro, ormai, non sappiamo che cosa abbiano in testa. In che cosa credono, veramente? Possiamo veramente fidarci, noi pecore, di questi pastori? Non è forse vero che tanti di noi cominciano invece ad averne timore?

Ecco, timore è una parola-chiave. Mi pare che ne serpeggi molto, oggi, nella chiesa. A tutti i livelli. Anche per questo mi sono sembrate importantissime e quanto mai attuali queste parole di don Luigi Giussani, pronunciate quasi trent’anni fa e opportunamente fatte riascoltare da don Carrón alla giornata di inizio anno del movimento di Comunione e Liberazione un paio di settimane fa:

«L’autorità, la guida, è proprio il contrario del potere, non esiste neanche una virgola, neanche un punto della parola potere. Per questo, è assente completamente, di fronte al concetto di autorità nel popolo di Dio, a qualsiasi livello, è assente completamente ogni riflesso di timore: perché al potere corrisponde il timore, e uno per liberarsi del timore si deve infischiare del potere. Che cos’è questa autorità? […] l’autorità è il luogo dove la lotta per affermare e la verifica per convalidare che la proposta di Cristo è vera, cioè è risposta alla percezione, alle esigenze del cuore […] è più limpida e più semplice – per questo non fa timore –, è più pacifica. L’autorità è il luogo dove la verifica tra la percezione, tra le esigenze del cuore e la risposta che è data dal messaggio di Cristo è più limpida e più semplice, e perciò è più pacifica. […] L’autorità è il luogo dove il nesso tra le esigenze del cuore e la risposta data da Cristo è più limpido, è più semplice, è più pacifico. [Ciò] indica che l’autorità è un essere, non una sorgente di discorso. Anche il discorso è parte della consistenza dell’essere, ma soltanto come riflesso. Insomma, l’autorità è una persona vedendo la quale uno vede che quel che dice Cristo corrisponde al cuore. Da questo il popolo è guidato.

Allora, seconda idea, il problema non è seguire … Il problema è seguire, ma non è indicato completamente e bene o meglio dalla parola «seguire»: è più indicato dalla parola «figliolanza». Dell’autorità si è figli. Un figlio prende il ceppo dal padre, fa proprio, è costituito dal ceppo che gli viene dal padre, è costituito di suo padre. Per questo è tutto preso. L’autorità tutto mi prende, non è una parola che mi fa paura o mi fa temere o che “seguo”. Mi prende. Perciò, allora, la parola «autorità»… è la parola «autorità» che potrebbe avere come sinonimo la parola «paternità», dunque generatività, generazione, comunicazione di genus, comunicazione di ceppo di vita. Il ceppo di vita è l’io mio che viene investito e reso diverso da questo rapporto. La parola «autorità», che corrisponde alla parola «paternità», è seguita dalla parola «libertà», genera libertà. L’essere figli è la libertà. […] Perciò l’autorità è vera o veramente sperimentata come tale quando fa esplodere la mia libertà, fa esplodere la mia coscienza personale e la mia responsabilità personale, la mia coscienza e la mia responsabilità personale».

Mi pare che qui vi sia una preziosa indicazione di metodo su come affrontare il periodo di confusione e smarrimento che dobbiamo attraversare, in uno stato di cose che non possiamo cambiare, ma che non può e non deve impedire l’esperienza della liberazione portata dalla fede in Cristo.

 

Bada a cosa guardi! Dante, la responsabilità dello sguardo e l’estetica del brutto. (#Dante, Inferno, canto IX, seconda parte)

14 lunedì Ott 2019

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi, Senza categoria

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Dante, estetica, Medusa, responsabilità dello sguardo

All’inizio del canto IX succede qualcosa e Dante è il primo ad accorgersene, più svelto di Virgilio, che è preso dalla sua lezioncina (vv. 19-33). «E altro disse, ma non l’ho a mente; / però che l’occhio m’avea tutto tratto / ver’ l’alta torre a la cima rovente, // dove in un punto furon dritte ratto / tre furïe infernal di sangue tinte, che membra feminine avieno e atto, / e con idre verdissime eran cinte» (vv. 34-40).

«Tutto tratto» e «dritte ratto» sono espressioni scattanti e forti; schioccano e colpiscono come staffilate. La prima dice tutta la potenza con cui l’occhio ci trascina, integralmente e irresistibilmente, verso qualcosa che lo colpisce. La seconda rende come meglio non si potrebbe la subitanea, imprevista e da noi incontrollabile apparizione di una presenza che calamìta la nostra attenzione in una frazione di secondo: prima non c’era e adesso c’è e si vede.

In questo caso sono «le Furie (nome latino delle greche Erinni) […] personaggi della mitologia classica, figlie di Acheronte e della Notte, tormentatrici dei colpevoli di delitti di sangue» (Chiavacci Leonardi). Virgilio, ripreso il controllo della situazione, invita Dante a guardarle con attenzione (v.45: «Guarda, mi disse, le feroci Erine»). Il loro aspetto è spaventoso, e Dante per paura si stringe al suo maestro (v.51). Sono brutte, fanno paura, ma non c’è da aver paura: le feroci Erinni, in realtà, non fanno nient’altro che chiamare un altro personaggio femminile, Medusa: «Vegna Medusa: sì ‘l farem di smalto» (v.52).

Questo cambia tutto, e provoca immediatamente, una reazione fortissima da parte di Virgilio, di cui per la seconda volta (dopo lo scontro con Filippo Argenti) ammiriamo lo scatto. (Decisamente non è solo un professore: questa repentinità nel proteggere da un pericolo imminente è propria del padre – e ancor più della madre! – non del maestro, che può semmai illustrarlo, denunciarlo e mettere in guardia, ma di solito ci mette tutto il suo tempo).

«“Volgiti ‘n dietro e tien lo viso chiuso; / ché se ‘l Gorgon si mostra e tu ‘l vedessi, / nulla sarebbe di tornar mai suso”. // Così disse ‘l maestro; ed elli stessi / mi volse, e non si tenne a le mie mani, / che con le sue ancor non mi chiudessi.» (vv. 55-60). Qui bisogna fare la massima attenzione: è l’autore che ce lo impone, con un nuovo appello al lettore. «O voi ch’avete li ‘ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ‘l velame de li versi strani» (vv.61-63). C’è dunque un insegnamento fondamentale da comprendere, e riguarda, direi, la disciplina dello sguardo.

Si noti innanzitutto il carattere estremo dei provvedimenti presi da Virgilio: non si limita ad avvertire Dante del pericolo, né ad indicargli cosa fare, ma gli copre lui stesso gli occhi per essere certo che non veda nulla. Occhi chiusi, girato dall’altra parte e in più con le mani di Virgilio a coprirgli il volto: in ingegneria, un sistema di sicurezza con questo livello di ridondanza, credo si applichi quando il rischio è veramente alto, tipo una centrale nucleare o giù di lì. (Nota a margine, prima di proseguire: siamo agli antipodi della pedagogia moderna. Che autoritarismo, quanta violenza! – si direbbe oggi – nel gesto con cui l’adulto chiude gli occhi del minore, gli impedisce di fare le sue esperienze, ne mortifica la curiosità e bla bla bla. Bene: qui Dante proclama che ci sono dei casi in cui è necessario non vedere. Perché ci sono cose che non si devono vedere. E quindi gli adulti responsabili impediscono ai bambini, con la forza, di vedere certe cose. Punto.)

Ma qui, cosa c’è di tanto pericoloso da (non) vedere? Chi sarà mai questa Medusa? Chi voglia approfondire la questione, che è molto discussa, può leggere la voce dell’Enciclopedia dantesca, qui: http://www.treccani.it/enciclopedia/medusa_%28Enciclopedia-Dantesca%29/. Vi si sostiene che Medusa è l’ostinazione nell’errore, cioè l’eresia, ma che «fra tutte le eresie quella cui più guarda Dante- come si chiarirà nel canto X – è l’epicureismo, che egli considera atteggiamento di vita sostanzialmente materialistico, e perciò inteso esclusivamente agl’interessi, passioni, affetti terreni e del tutto svincolato dal fine ultraterreno». Anna Maria Chiavacci Leonardi propone che Medusa sia intesa piuttosto come «la disperazione della salvezza», ma le due interpretazioni si possono in fondo conciliare, perché il cupo, ostinato, invincibile e triste attaccamento alle cose – che Nietzsche tragicamente imbellettava, gabellandolo per un inno e un appello alla gioia: “siate fedeli alla terra!” – è l’inganno supremo con cui il diavolo ci vieta la speranza del cielo.

Più esattamente, gli inganni con cui l’imbroglione ci mette nel sacco a me pare che oggi siano due, ed entrambi vengono implicati in questo punto della storia di Dante “sotto il velame de li versi strani”. Il primo è l’idea che guardare non sia impegnativo e dunque non sia pericoloso. Come quando si entra in un negozio, se “si dà solo un’occhiata” non si paga niente … Crediamo che nel guardare non ci sia, per statuto, niente di male e di conseguenza ci illudiamo che, per un’etica mondana più che dignitosa, basti il “guardare ma non toccare” che si insegna anche ai bambini. Gesù Cristo non la pensa così, e con il cristianesimo si introduce un radicale cambio di prospettiva: la verità è che siamo responsabili di ciò che guardiamo, (come in questo modestissimo blog si è ripetuto più volte). In questo specifico caso, responsabili del dovere di non guardare Medusa.

Medusa – e questo è il secondo moderno inganno del grande mistificatore, specialmente oggi – è l’attrattiva del brutto. C’è un fascino della bruttezza, una seduzione del turpe, del laido, del futile, dell’insensato, non neghiamolo. C’è sempre stato, ma l’“estetica del brutto” (per citare il titolo di un libro importante di un discepolo di Hegel, Karl Rosenkranz, pubblicato a metà dell’Ottocento), tenuta fuori dal recinto dell’arte e del pensiero per tutta l’età classico-cristiana, è dal romanticismo in poi che si è insinuata e diffusa, dapprima cautamente e magari in forma dialettica ma poi sempre più sfacciatamente sino a diventare dilagante e pervasiva di ogni aspetto della nostra vita. Che cosa ormai non è (almeno un po’) trash, nell’arte, nel costume e nel linguaggio che tutti condividiamo? Guardandoci attorno, non ci sembra di rovistare un po’ tutti nel bidone della spazzatura?

Bisogna guardare altrove.

 

Un padre e un figlio all’inferno. Ma ci vuol Altro. (#Dante, Inferno, canto IX, preludio)

12 sabato Ott 2019

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi, Senza categoria

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Dante, padri e figli, paura

Siamo di nuovo alle prese con la paura, il sentimento primordiale dell’uomo staccato dal Padre. «Quel color che viltà di fuor mi pinse / veggendo il duca mio tornare in volta, / più tosto dentro il suo novo ristrinse» (vv.1-3). Dante-personaggio, sensibilissimo come tutti i “bambini” ad ogni cambiamento di umore dei genitori, impallidisce di paura vedendo il “padre” (più esattamente: colui che fa le veci del Padre) tornare sconfitto e turbato. Chi fa il padre, deve a volte fingere di non avere paura: così il pallore del figlio spinge Virgilio a far sparire immediatamente il suo dal proprio volto. Dare al figlio, quando ne ha bisogno, ciò che lui stesso tante volte non ha: questo il compito, e il dramma, del padre.

Qui Dante cesella, proponendoci una delle più fini rappresentazioni di come può andare, in certi momenti della vita, tra un padre e un figlio (o tra un maestro e un discepolo). Il padre comincia a parlare, perché il silenzio, in certi momenti, pesa troppo: «“Pur a noi converrà vincer la punga”, / cominciò el, “se non … Tal ne s’offerse, / Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!”» (vv. 7-9). Pezo el tacón del buso si dice in Veneto: quel discorsetto iniziato per rassicurare Dante inciampa subito in una ipotetica che viene troncata immediatamente: “a meno che …”.

“A meno che”, cosa? «I’ vidi ben sì com’ei ricoperse / lo cominciar con l’altro che poi venne, / che fur parole a le prime diverse; // ma nondimen paura il suo dir dienne, / perch’io traeva la parola tronca / forse a peggior sentenza che non tenne» (vv. 10-15). I piccoli sono bravissimi a sgamare le bugie dei grandi, ma poi a loro volta si fanno i loro romanzi, di cui rigorosamente non parlano con i genitori; la comunicazione si inceppa, le incomprensioni si moltiplicano e i problemi si ingigantiscono. Si va dallo psicoterapeuta.

Dante, però, qualcosa dice, anche se la prende alla larga, con l’aria di parlare tanto per parlare: “di quelli del limbo, c’è mai stato qualcuno quaggiù?». Tradotto vuol dire: “ma tu, sai quello che stai facendo?”. Virgilio capisce al volo e per fortuna può esibire nel suo curriculum un precedente viaggio oltre le mura della città di Dite, fino al basso inferno (vv.19-33)

Parla, parla … ma a un certo punto (proprio come fanno gli adolescenti, di fronte a disscorsi più lunghi di due minuti) Dante non lo ascolta più: sta succedendo qualcosa (vv34-36).

Il punto mi pare questo: Dante (autore) prosegue nel mirabile approfondimento della relazione tra Virgilio e Dante (personaggio), che – come abbiamo detto – è una delle tante meraviglie della Commedia perché ci parla della cosa che ci sta più a cuore. Però non fa (solo) della psicologia. Quella relazione, lui, ci insegna a trascenderla. È fondamentale, ma non basta. Non è autosufficiente. Non sta in piedi da sola. Ci vuole Altro. Perché nella vita succedono le cose e a volte son cose che vanno al di là della forza di un padre.

Un convegno torinese su «Vedere e guardare attraverso le parole».

08 martedì Ott 2019

Posted by leonardolugaresi in Senza categoria

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Da domani a venerdì dovrei essere fuori sede, cosa che succede raramente. Partecipo a questo convegno a Torino, che segnalo a chi fosse interessato e si trovasse da quelle parti:

Pieghevole

Dante resta solo (per un po’). E chiede la nostra attenzione.Virgilio, intanto, non ce la fa. (#Dante, Inferno, canto VIII, ultima parte)

07 lunedì Ott 2019

Posted by leonardolugaresi in Dante per ritrovarsi, Senza categoria

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appelli al lettore, Dante, diavoli, figli, follia, paternità

Virgilio, che finora ha sempre superato gli ostacoli in scioltezza, reagisce diversamente alla rabbiosa opposizione dei diavoli che sono sulle mura della città di Dite. Con Caronte, Minosse e Pluto erano bastate poche parole (e la “formula magica”: «vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare»); con Cerbero neanche quelle, ma solo un pugno di terra gettato nelle sue «bramose canne». Qui la cosa è più seria, e va gestita con cautela: «E ‘l savio mio maestro fece segno / di voler lor parlar segretamente» (vv. 86-87).

Una cosa da grandi, da trattare riservatamente, senza il piccolo Dante. I diavoli accettano subito, perché quello che non vogliono è proprio lui, l’uomo vivente, mentre non hanno problemi a parlare coi morti: «Vien tu solo, e quei sen vada / che sì ardito intrò per questo regno. // Sol si ritorni per la folle strada: / pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai, / che li ha’ iscorta sì buia contrada» (vv. 89-93). Come se Dante ci fosse voluto venire lui, di sua iniziativa, all’inferno. Come se non avesse paventato già per conto suo che quel viaggio era una follia. (Facciamo attenzione a questa parola-chiave: nel canto II, v.35, prima di convincersi a varcare la soglia dell’inferno Dante aveva detto: «temo che la venuta non sia folle», e ora i diavoli glielo confermano). Come se fosse possibile ritornare indietro da solo, senza la guida di Virgilio, destinato a rimanere prigioniero dei diavoli.

Il mondo che ti crolla addosso. La fine di tutto.

La situazione è talmente drammatica che Dante-autore fa per la prima volta una cosa che poi ripeterà quasi una ventina di volte nel resto del poema (ma forse mai con tanta urgenza): un appello al lettore. Chi vuol saperne di più sugli appelli al lettore, trova in questo articolo dell’Enciclopedia dantesca tutto quello che gli serve: http://www.treccani.it/enciclopedia/appello-al-lettore_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

Per chi non ha tempo o voglia, basterà dire che con l’appello al lettore Dante-autore agisce con noi proprio come un maestro quando vuol essere sicuro che i ragazzi stiano attenti e lo seguano, perché sta per dire una cosa importante o un passaggio difficile della lezione. «Pensa, lettor, se io mi sconfortai / nel suon delle parole maledette, / che non credetti ritornarci mai» (vv.94-96). Il viaggio, per quanto lo riguarda, è finito. Il tentativo è fallito e la salvezza perduta.

Quello che Dante non vuole assolutamente che ci perdiamo è la seguente scena. Come un bambino spaventato, lui supplica Virgilio di non lasciarlo: “piuttosto, torniamo subito indetro tutti e due!”. «E quel segnor che lì m’avea menato» (v.103; occhio alla denominazione: non padre né maestro, ma “signore”) gli risponde secco che non c’è da avere paura, il viaggio è voluto da Dio e nessuno lo può impedire: “sta qui, aspettami e abbi speranza, «ch’io non ti lascerò nel mondo basso» (v.108). Ciò detto, prende su e se ne va: «Così sen va, e quivi m’abbandona». (v.109)

Essere abbandonati; restare da soli. Il terrore primigenio, la madre di tutte le paure che ci accompagnano per l’intera esistenza e spesso la condizionano pesantemente. L’oscuro terrore che ci prendeva da bambini, quando la mamma o il babbo non erano lì.

La storia del rapporto tra Dante e Virgilio è uno dei fili più belli da dipanare nella trama complessa della Commedia, perché parla esattamente di questo: della storia più elementare e universale tra tutte quelle che la letteratura di tutti i tempi e di tutti i luoghi incessantemente racconta: la storia di come un figlio diventa grande nel rapporto col padre. Infatti il verso che prima ho citato, «Così sen va, e quivi m’abbandona», prosegue: «lo dolce padre, e io rimango in forse, / che sì e no nel capo mi tenciona» (vv.110-111).

Viene un momento in cui il “dolce padre” si comporta da “signore”, impone la sua volontà e fa una cosa che il figlio non vorrebbe: lo “abbandona”. Per poco, magari tenendolo d’occhio da lontano, ma lo lascia solo. Gli toglie la sicurezza.

Ma nemmeno lui sa fino in fondo quello che sta facendo; neppure il padre è consapevole della profondità del suo gesto, che rimanda a qualcosa che lo trascende. Dante ce lo fa capire con un’invenzione geniale: nel momento stesso in cui ci presenta un Virgilio sicuro di sé che signoreggia un Dante bambino, ci sorprende mostrandocene il limite, la debolezza finora del tutto sconosciuta.

Il colloquio coi diavoli dura ben poco: corrono dentro e gli chiudono la porta in faccia. Ecco la scena memorabile del padre umiiato: «Chiuser le porte que’ nostri avversari / nel petto al mio segnor, che fuor rimase / e rivolsesi a me con passi rari // Li occhi a la terra e le ciglie avea rase / d’gne baldanza, e dicea n’ sospiri: “ch m’ha negate le dolenti case!» (vv. 115-120). Il padre è tornato e il figlio non è più solo; ma è tornato sconfitto, privato di quella “baldanza” che prima lo faceva grandissimo agli occhi del bambino e ora è persino un po’ ridicola, come patetica è la sua indignazione per l’affronto subito.

Ci vuole qualcuno che sia più del padre.

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