«O Tosco che per la città del foco / vivo ten vai così parlando onesto, / piacciati di restare in questo loco» (vv.22-24). Per la terza volta a prendere l’iniziativa d’interpellare Dante è un dannato. Lo aveva fatto Ciacco nel canto VI («“O tu che se’ per questo ‘nferno tratto”, / mi disse, “riconoscimi, se sai: / tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto»), col tono di quella familiarità sgradita con cui uno sconosciuto ti ferma per la strada, trattandoti confidenzialmente, mentre tu non sai ancora chi sia e resti sulle tue («L’angoscia che tu hai / forse ti tira fuor de la mia mente, / sì che non par ch’i’ ti vedessi mai»). Ci aveva provato Filippo Argenti, nel canto VII, sbarrandogli il passo («dinanzi mi si fece un pien di fango») e apostrofandolo con una volgarità che fa subito venir voglia di rendergli il fatto suo: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?».
Ora lo fa un gran signore, Manente degli Uberti, detto Farinata, il capo dei ghibellini di Firenze verso la metà del XIII secolo, morto un anno prima che Dante nascesse e giudicato eretico in un processo post mortem, tenutosi a Firenze nel 1283, quando Dante aveva diciotto anni. Il primo di cui aveva chiesto notizie a Ciacco: «Farinata e ‘l Tegghiaio, che fuor dì degni …». Son sempre i fiorentini a farsi avanti, con più o meno garbo, per chieder conto a Dante di qualcosa.
Qui di garbo ce n’è, anzi c’è tutto quel decoro, quel «parlare onesto» (appunto), che ci si può aspettare da un “padre della patria”. (Forse per avere un’idea dell’atmosfera di questo incontro, dovremmo immaginare noi stessi a colloquio con uno dei fondatori della nostra repubblica, uno di quelli che hanno scritto la costituzione, magari scegliendolo tra quelli di parte avversa alla nostra, perché tale era Farinata per Dante. Che ne so, come se io fossi lì a parlare con Togliatti).
Però tutto il decoro e il parlare alto di questo mondo non possono farci dimenticare che anche questo è uno scontro. Ce lo conferma in modo inequivocabile quello che segue: la prima reazione di Dante è di paura – si accosta al suo maestro il quale, come ogni coach che si rispetti, spinge il suo campione ad andare incontro alla sfida senza esitare: «Volgiti! Che fai? / Vedi là Farinata che s’è dritto: / da la cintola in sù tutto ‘l vedrai» (vv.31-33). Versi meravigliosi, perché ce lo fanno vedere senza affatto descriverlo. I bravi scrittori descrivono bene e ci fanno vedere ciò che descrivono (ut pictura poesis); i genii (e i vangeli) ci fanno vedere senza descrivere (quindi superano di molto le possibilità della pittura). Si faccia avanti chi non ha l’impressione, decisa, certa e indiscutibile, che Farinata sia grande? Grande fisicamente, intendo dire. Io poi ho sempre avuto anche un’altra impressione (ma questa mi piacerebbe confrontarla con quella degli altri gentili lettori): che sia, non so come, più in alto di Dante. Il che è fisicamente quanto mai improbabile, dato che si leva dal fondo di un sepolcro che è posato a terra: eppure la prossemica ideale di questo dialogo, tutte le volte che l’ho letto compresa quest’ultima, per me non cambia: Farinata sopra e Dante sotto.
«Io avea già il mio viso nel suo fitto; / ed el s’ergea col petto e con la fronte / com’avesse l’inferno a gran dispitto» (vv.34-36). Ditemi se questa non è la tensione dei primi momenti di un incontro di pugilato, subito dopo il gong, quando i due avversari si studiano. La parola chiave, da memorizzare, qui è dispitto. Anzi gran dispitto. Quest’uomo disprezza anche (e perciò non capisce neanche) l’inferno.
«E l’animose man del duca e pronte / mi pinser tra le sepolture a lui / dicendo «Le parole tue sien conte» (vv. 37-39). Virgilio con l’asciugamani attorno al collo, il secchio dell’acqua e la spugna in mano, che spinge il suo pugile al centro del ring e gli dà le ultime raccomandazioni: «tieni alta la guardia e occhio al suo sinistro».
«Com’io al piè de la sua tomba fui» – ve lo dicevo che Farinata stava in alto e Dante in basso (ma se fossi un illustratore della Commedia non saprei proprio come fare a rendere l’idea) – «guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso, / mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?». Qui per capire dobbiamo tener presente il rango dei due interlocutori. Noi siamo istintivamente portati a pensare a Dante Alighieri come ad un grande, anzi come al «sommo». In Italia, poi, sono quasi settecento anni che ne celebriamo una specie di culto. Ma nella concreta realtà della sua esistenza terrena, nella Firenze del suo tempo, non era niente di che: una figura di secondo piano, esponente di una famiglia di piccola nobiltà, molto desideroso di affermarsi ma decisamente di un altro mondo rispetto ad un “pezzo grosso” come Farinata. (Ricordo che un’idea più concreta della posizione di Dante all’interno del suo mondo la ricavai dalla lettura del libro di Marco Santagata, che mi sentirei di consigliare).
Chi prende la parola per primo, infatti, è Farinata; e sembra subito un interrogatorio: «Chi fuor li maggior tui?». Domanda logica dal suo punto di vista, ma terribile: non gli chiede chi è, ma a quale consorteria appartenga. Se sia “dei nostri” o “degli altri”. Senza bisogno di aver letto Carl Schmitt, Farinata pensa il mondo politicamente, secondo la categoria amico / nemico, ma siccome è epicureo, cioè ateo, il suo orizzonte è chiuso in essa come in una prigione da cui non si può scappare. Dante, che è «d’ubidir desideroso» non gli nasconde la verità, ma gliela apre tutta (cfr. vv.43-44). La scoperta di avere di fronte a sé un nemico, provoca in Farinata la reazione obbligata del disprezzo (v.45: «ond’ei levò le ciglia un poco in suso») seguita dall’affermazione della propria duplice vittoria (v.48: «per due fïate li dispersi»).
Dante ribatte, la tecnica è quella del “rinfaccio”, i due combattenti sono a questo punto, repentinamente, sullo stesso piano. Dobbiamo aspettarci, se non un’altra rissa come quella con Filippo Argenti, un diverbio, magari più nobile nel registro ma altrettanto sanguinoso nella sostanza? Gli scrittori mediocri (ma anche quelli bravini) ripetono le trovate che hanno successo la prima volta. Ma Dante è Dante.
E qui il colpo di genio consiste nel fatto che la scena si interrompe bruscamente, inaspettatatamente. Resta sospesa, appesa al nulla. Già questo contiene un giudizio che relativizza e ridimensiona. La politica non è tutto.