Un bel segno di croce e i nuovi arrivati «si gittar tutti in su la piaggia» (v. 50). All’inferno, per far salire la gente sulla barca di Caronte bisognava picchiarli col remo («batte col remo qualunque s’adagia», III, 111), qui si affrettano a sbarcare perché non vedono l’ora di andare a fare il loro cammino di purificazione. Questa fretta è un segnale, perché sul tempo, sui ritardi e sulle attese dovremo dovremo riflettere molto e Dante, come al solito, accenna in anticipo i temi che sta per svolgere. Prendiamo nota.
L’angelo, intanto, «sen gì, come venne, veloce» (v. 51). Senza complimenti e senza cerimonie: qui siamo in un posto dove, quando uno ha finito il suo lavoro, semplicemente se ne va. Anche questo ricordiamocelo. Due movimenti rapidi a cui fa seguito una stasi: «La turba che rimase lì, selvaggia, / parea del loco, rimirando intorno / come colui che nove cose assaggia» (vv. 52-54). Riconosciamo l’ennesima variazione sul motivo iniziale del poema (star fermi vs andare)? Qui certo non nella forma dell’angoscia di chi ha smarrito la via ed è bloccato, ma in quella più lieve di uno spaesamento: il tratto comune è il non sapere la strada. Non basta essere liberi e desiderosi di muoversi, non basta che il tempo sia bello, non basta neppure conoscere la meta (come credeva Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?» Gv 14,5). Bisogna sapere la strada.
Come ironicamente succede così spesso anche da noi, la «nova gente» chiede «la via di gire al monte» a chi non ne sa più di loro, cioè a Virgilio e Dante: «ma noi siam peregrin come voi siete» (v. 63). A dire il vero, con le indicazioni stradali non ci capita quasi più, perché tutti ormai le chiediamo non ad un passante (beccando il più delle volte, contro ogni probabilità statistica, un forestiero), ma a Google maps o a qualche altro marchingegno simile. Però continuiamo a farlo imperterriti per tutte le altre direttive che più contano nella vita: chiediamo il senso – cioè dove dobbiamo andare – ad altri spaesati che non ne sanno più di noi, anche quando portano il berretto o il cartellino con su scritto “guida”. (I ne sa gnenca lour, era la formula definitiva con cui mia scuocera liquidava, scuotendo la testa, i dibattiti degli “esperti” in televisione).
Come da noi, anche qui sulla spiaggia del purgatorio è facile distrarsi: quei novizi tanto desiderosi di cominciare il loro percorso formativo, appena si accorgono che Dante respira se ne dimenticano completamente («quasi obliando d’ire a farsi belle», v.75), gli si accalcano intorno e se lo mangiano con gli occhi: “è vivo!”. Questi sono proprio come noi, anzi siamo noi sputati: per quanto impegnati in alti progetti e ardenti di santi propositi possiamo essere, davvero basta un niente per farci guardare da un’altra parte. (Non è forse intenso e sincero e commosso il desiderio di Pinocchio di andare a scuola, diventare un bravo bambino e ripagare il suo babbo di tutti i sacrifici che fa per lui? Eppure basta il richiamo del teatro dei burattini …).
Una di quelle anime, però, si fa avanti per abbracciare Dante, «con sì grande affetto, / che mosse me a far lo somigliante» (vv. 77-78). Qui c’è una cosa importante, che dobbiamo osservare con attenzione. Succede che l’autore ci cambia le carte in tavola: se si esclude l’accenno iniziale ad una certa evanescenza di Virgilio («chi per lungo silenzio parea fioco»), per tutto l’Inferno egli non ha fatto altro che trasmetterci, a dosi massicce, l’idea di una presenza corposa, spessa, ad alta densità materiale se così posso dire, di quasi tutti i personaggi che abbiamo incontrato. Anche quando usa espressioni come «rispuose del magnanimo quell’ombra», il complemento di specificazione fa largamente aggio sul sostantivo, e se ci dice che nel cerchio dei golosi lui e Virgilio ponevan le piante «sovra lor vanità che par persona» (Inf. VI, 36) il valore di questa informazione scompare di fronte alla potenza icastica di un Cerbero che «graffia li spirti ed iscoia ed isquatra» (Vi, 18). Per non dire di versi come «vedi là Farinata che s’è dritto: / da la cintola in sù tutto ‘l vedrai», che più muscolari e muscolosi di così non potrebbero essere. Insomma, fin qui il poeta ci aveva fatto credere di trovarci in un mondo pieno di corpi. Veri corpi umani, la cui sporadica e mostruosa assenza o deformazione o metamorfosi in certe parti dell’inferno (come tra i suicidi, gli indovini e i ladri) non faceva che confermare e mettere ancor più in risalto la fisicità “normale” della loro apparizione in tutto il resto del primo regno d’oltretomba.
Ora improvvisamente scopriamo invece che era tutta un’illusione, che quei corpi non hanno consistenza, sono solo parvenze, «ombre vane, fuor che ne l’aspetto» (v. 79). Ma il punto più interessante è: quando lo scopriamo? Esattamente nel momento in cui un amico di Dante si fa avanti per abbracciarlo. C’era stato un abbraccio anche nell’Inferno: quello con cui Virgilio aveva manifestato a Dante il suo entusiasmo per la rissa con Filippo Argenti (VIII, 43-45), e non avevamo notato nulla di strano. Qui invece, quando Dante si appresta ad abbracciare a sua volta colui che gli mostra tanto affetto (giacché, come sappiamo da Francesca, «Amore a nullo amato amar perdona»), per tre volte stringe il vuoto. Questa cosa non vorrei spiegarla più di tanto, ma piuttosto lasciarla alla curiosità degli eventuali lettori. Provo solo a infilare una chiave di lettura nella toppa, poi vedete voi se gira.
La retorica dell’abbraccio sembra che sia l’unica che ci è rimasta, in un mondo che non crede più a niente. Consumate, e smentite, tutte le parole, ci semba che non ci sia restato che l’abbraccio per attingere e comunicare una verità di sentimenti altrimenti sfuggente o sospetta. Quando non sappiamo che cosa dire (“le parole non servono”: così ci esprimiamo), pensiamo che un abbraccio sia l’unica via d’uscita. Cosa c’è infatti di più concreto, carnale, forte e indiscutibile di un abbraccio? Che cosa più di un abbraccio può saziare la nostra fame di prossimità, di contatto, di calore? Che cosa esorcizza più di un abbraccio la solitudine, cioè in definitiva la morte? (Se stiamo così male, di questi tempi, è anche perché il virus dei cinesi ci ha tolto, o quantomeno ha inquinato di sospetto, anche gli abbracci).
Bene, qui sulla spiaggia del Purgatorio, in una bella mattina di primavera piena di sole («Da tutte parti saettava il giorno / lo sol» vv. 55-56), incontrando un amico, Dante viene a dirci che quelli che sembrano corpi non sono veramente tali e che perciò abbracciandoci, abbracciamo il vuoto. Allora quel “come da noi”, “come da noi”, che sopra abbiamo ripetuto per descrivere la situazione purgatoriale, andrà perlomeno rivisto. Si dice sempre che il mondo del Purgatorio dantesco è simile alla vita terrena. In verità, lo è e non lo è.